Afghanistan, popolazione critica Italia: “troppa confusione tra attività civili e militari”

C’è uno squilibrio tra i fondi stanziati e distribuiti per le operazioni militari e quelli destinati all’aiuto allo sviluppo e all’assistenza delle comunità locali in Afghanistan: la pensano così gli afgani intervistati nell’agosto 2011 per una ricerca (“Le truppe straniere agli occhi degli afghani”) promossa da Intersos e realizzata dal giornalista e ricercatore freelance Giuliano […]

C’è uno squilibrio tra i fondi stanziati e distribuiti per le operazioni militari e quelli destinati all’aiuto allo sviluppo e all’assistenza delle comunità locali in Afghanistan: la pensano così gli afgani intervistati nell’agosto 2011 per una ricerca (“Le truppe straniere agli occhi degli afghani”) promossa da Intersos e realizzata dal giornalista e ricercatore freelance Giuliano Battiston. Secondo queste persone, che rappresentano la società afghana, i progetti promossi dalla comunità internazionale a favore dell’Afghanistan sono insufficienti e sarebbe necessario un maggior coinvolgimento della società civile nella loro progettazione, realizzazione e mantenimento. La ricerca fa capire come, nel giudizio degli interlocutori afghani, “l’ossessione della sicurezza” avrebbe relegato ai margini strategie di azione ritenute indispensabili, come un programma per la ricostruzione delle infrastrutture, dei progetti a lungo termine per garantire l’autosufficienza e la sostenibilità del sistema economico, dei piani di ripristino di un quadro istituzionale funzionante e trasparente, delle strategie per edificare un sistema di diritto efficiente con garanzia di giustizia e di uguaglianza per tutti i cittadini e di tutela dagli abusi.

Molti degli intervistati – precisa la ricerca – lamentano la confusione tra gli obiettivi della sicurezza e quelli della ricostruzione, e ritengono che il tentativo di combinare i due aspetti li avrebbe compromessi entrambi. In particolare viene contestato il fatto che ai militari siano assegnati compiti civili, di ricostruzione o di assistenza. Secondo gli interlocutori afgani, i militari dovrebbero occuparsi della sicurezza, proteggendo la popolazione e combattendo i movimenti antigovernativi, lasciando i progetti di sviluppo e ricostruzione alle organizzazioni civili, governative e non governative. La richiesta a gran voce è quella di differenziare le attività civili da quelle militari, distinguendo i rispettivi campi d’azione ed evitando sovrapposizioni dannose. In molti notano, a tal proposito, come in Afghanistan tutti i militari siano considerati obiettivi dei movimenti antigovernativi: far loro gestire un progetto di assistenza ad una comunità locale, dunque, pone l’intera comunità nella condizione di obiettivo sensibile.

“Il pericolo – precisa la ricerca – è particolarmente avvertito nella città di Herat, dove ha sede il team provinciale di ricostruzione italiano: gli intervistati condannano in modo unanime la scelta di stabilirlo all’interno della città, in una zona residenziale e ribadiscono la richiesta di trasferirlo in un’altra sede, al di fuori della città”. “Si ritiene – si legge nella ricerca – che la scelta di mantenerne la sede in una zona residenziale contraddica il mandato dei soldati italiani, a cui spetta il compito di proteggere la popolazione civile, non di metterla in pericolo”. Per molti intervistati, “l’ostinazione con cui le autorità italiane si sono rifiutate finora di prendere in considerazione le richieste della popolazione di Herat” testimonia “la scarsa attenzione che le truppe internazionali riservano alle opinioni degli afghani”, mentre il fatto che anche gli appelli al governatore della provincia non abbiano prodotto effetti significativi “viene interpretato come un sintomo della mancanza di sovranità dei rappresentanti istituzionali sul proprio territorio”.

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