Riforma del lavoro: licenziamenti facili si torna nell’800

Ecco un quadro sulla proposta governativa in merito alla riforma del mercato del lavoro. Tre sono le tematiche affrontate: Nuovo welfare; Contratti; Articolo 18. Sul tema dell’articolo 18 la posizione della CGIL risulta diversa da quella di CISL e UIL: il principio sancito dall’articolo 18 (impossibilita’ di licenziamento individuale senza giusta causa) e’ ritenuto dalla […]

Ecco un quadro sulla proposta governativa in merito alla riforma del mercato del lavoro. Tre sono le tematiche affrontate: Nuovo welfare; Contratti; Articolo 18.
Sul tema dell’articolo 18 la posizione della CGIL risulta diversa da quella di CISL e UIL: il principio sancito dall’articolo 18 (impossibilita’ di licenziamento individuale senza giusta causa) e’ ritenuto dalla CGIL indiscutibile.

1. Nuovo Welfare
Assicurazione sociale per l’impiego (ASPI) in vigore dal 2017
Norma contro le dimissioni in bianco e una sperimentazione dei congedi di paternità obbligatori per tre anni, finanziata del ministero del Lavoro. Sono le due novità uscite ieri dall’incontro tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro. Insieme all’accordo raggiunto sulla data: i nuovi ammortizzatori sociali, uno dei pilastri della riforma, entreranno in vigore, a regime, dal 2017, come avevano chiesto le parti sociali al ministro del Welfare, Elsa Fornero, che invece aveva proposto il 2015 come data d’inizio. E’ un fatto non da poco. Significa che si avrà una fase transitoria, con un’applicazione graduale dei nuovi strumenti di sostegno al reddito in caso di perdita del lavoro.

La sperimentazione dei congedi di paternità obbligatori «è un modo per far cambiare la mentalità: la maternità non è un fatto solo di donne. Bisogna conciliare i tempi del lavoro con quelli della famiglia», ha spiegato il ministro Fornero.
Ma è il capitolo sugli ammortizzatori sociali a rappresentare un cambiamento «rivoluzionario», almeno per il nostro Paese..

Alla base del nuovo sistema di sostegno al reddito c’è l’Aspi. La nuova assicurazione andrà a sostituire l’indennità di mobilità, di disoccupazione ordinaria, con requisiti ridotti e quella speciale edili. Con gli attuali strumenti, secondo il governo, prevale la tutela nel posto di lavoro anche nei casi in cui la ripresa dell’attività lavorativa è altamente improbabile. E dunque la tutela si configura soprattutto come uno scovolo assai lungo verso la pensione.

L’Aspi dovrebbe essere uno strumento universale di assicurazione del rischio di disoccupazione involontaria, che possa coprire in proporzione anche i lavoratori con minore esperienza lavorativa. Uno dei punti deboli degli attuali ammortizzatori è che non includono i lavoratori che hanno contratti atipici e, dunque, la maggioranza dei giovani. La riforma punta invece ad allargare l’ombrello anche su di loro.
Per poter accedere all’Aspi si devono avere gli stessi requisiti che attualmente permettono di fruire dell’indennità di disoccupazione ordinaria: due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane nell’ultimo biennio. Più ampio invece l’ambito di applicazione, che sarà esteso anche agli apprendisti e agli artisti dipendenti che oggi sono esclusi da ogni strumento di sostegno del reddito.

L’assegno avrà un importo massimo di 1.119,32 euro, con abbattimento dell’indennità del 15% dopo i primi 6 mesi e un ulteriore 15% di abbattimento dopo altri 6 mesi. Durerà fino a 12 mesi per i lavoratori con meno di 55 anni di età; 18 mesi per chi avrà almeno 55 anni. Tutti i lavoratori dovranno contribuire all’Aspi, con modalità diverse a seconda della forma contrattuale: l’aliquota sarà dell’1,3% per chi è assunto a tempo indeterminato; incrementata di un’aliquota aggiuntiva dell’1,4% per gli altri.

La scomparsa della mobilità rischia di penalizzare soprattutto i lavoratori over 50. Se i giovani con l’Aspi guadagnano in termini di copertura e di soldi, si indebolisce la protezione dei lavoratori anziani, cioè quelli con maggiori difficoltà a reinserisi nel mondo del lavoro. Con l’Aspi le aziende perderanno infatti lo sgravio fiscale di cui beneficiano se assumono i lavoratori in mobilità.

L’introduzione graduale degli ammortizzatori sociali darebbe più tempo ai lavoratori anziani in mobilità di arrivare alla pensione, anche grazie al sostegno dei contributi aziendali. Oggi in caso di licenziamenti collettivi la mobilità può arrivare fino a 48 mesi per gli ultracinquantenni al Sud. Con la proposta del governo questo istituto verrebbe cancellato, ma potrebbe essere sostituito da un fondo di solidarietà, dal quale attingere un sussidio per i lavoratori che raggiungerebbero la pensione entro i 4 anni dal licenziamento. Le aziende però si troverebbero a pagare un «contributo di licenziamento»: mezza mensilità ogni anno per gli ultimi 3 anni.
La riforma degli ammortizzatori sociali non tocca la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, ma introduce fondi di solidarietà per superare la cassa integrazione in deroga, attualmente a carico dello Stato e che è stata introdotta dall’ex ministro del Welfare Maurizio Sacconi nel 2009, per estendere il sussidio anche alle piccole imprese e ai settori esclusi dalla Cig.

2. Contratti
Oltre i 36 mesi, lavoro a tempo indeterminato. Dopo l’università niente stage
Scoraggiare il precariato infinito. Premiare – a termine – il percorso virtuoso della flessibilità «sana». Aumentare gli ostacoli sul circolo vizioso prodotto da quella «malata», furba, che contratto dopo contratto si autoreplica e aggira le leggi condannando i giovani, soprattutto, all’unica certezza della provvisorietà. Se questi sono gli obiettivi fissati dal governo – e lo sono – il problema non era tanto disboscare quella che la Cgil ha definito «giungla contrattuale» arrivando a contare, per chi entra nel mondo del lavoro, fino a 46 diverse tipologie (calcolo che considera in realtà anche le varianti minime). Razionalizzare e basta sarebbe servito e servirebbe a poco se il nodo non venisse affrontato alla radice. Se non venissero tagliati abusi e distorsioni. E c’è una sola via: rendere il lavoro precario più costoso, meno conveniente, più rigido pure dal lato normativo rispetto al lavoro a tempo indeterminato. Strada che non fa felici le aziende, ovviamente, nonostante il possibile bilanciamento parziale con una maggiore flessibilità anche in uscita. Ma questi erano i principi stabiliti all’avvio della discussione sulla riforma dei contratti. Questi – con pochi ritocchi – rimangono i cardini del «verbale» dell’esecutivo dopo la maratona con le parti sociali.

Punto di riferimento imprescindibile: «Il contratto di lavoro a tempo indeterminato diventa quello che domina su altri per ragioni di produttività e di legame tra lavoratori e imprese». Elsa Fornero l’aveva già detto e ripetuto, in pubblico e direttamente a sindacati e industriali. Lo ha ribadito ieri pomeriggio. Le scelte fatte dal governo sui percorsi occupazionali vengono di conseguenza. E con un’avvertenza: non si tutela «il posto per il posto», si disegna un sistema «sul quale imprese e lavoratori – sono ancora parole del ministro del Welfare – si devono impegnare per l’incremento di produttività necessario affinché questo Paese cresca».

Non si può fare, nella precarietà. Non se la precarietà è la regola o, peggio, viene contrabbandata per flessibilità «sana». Così, per cominciare, è confermato il tetto di cui già si era parlato: oltre i 36 mesi, qualsiasi contratto a tempo determinato non può più essere «reiterato», scatta in automatico l’assunzione definitiva.
Lì si è però già a un certo punto del percorso lavorativo. La riforma inizia prima. E l’ingresso dei giovani nel mondo produttivo incomincia – promette Fornero – «con un apprendistato vero», un «investimento per la formazione» e non uno strumento di flessibilità finta quando non di vero e proprio sfruttamento (gli stage, per dire: spesso sono vero e proprio lavoro non retribuito, e non a caso il ministro dice stop a quelli post laurea).

Dunque, in base alle linee che erano già state sottoposte alle parti sociali: avanti con il contratto di apprendistato, appunto, che diventa «contratto dominante», e avanti in parallelo con il «contratto di inserimento» per chi ha più di 29 anni (come per le categorie più svantaggiate, e l’esempio tipico è quello dei disoccupati da lunga data). Per evitare gli abusi, però, sul «tempo determinato» scattano i disincentivi. O, meglio, un meccanismo in qualche modo paragonabile al bonus-malus. «La flessibilità vale», come dice Fornero. Tradotto: per l’intera durata dei contratti a termine – salvo quelli per sostituzione o stagionali, misura che va solo in parte incontro alle richieste delle imprese – le aziende pagheranno un contributo aggiuntivo dell’1,4% destinato a finanziare la cosiddetta Aspi (l’Assicurazione sociale per l’impiego). Gli imprenditori «virtuosi», conferma il ministro del Welfare, saranno però ricompensati alla fine del percorso: con conseguente, parallelo «sconto» quando trasformeranno l’assunzione in posto fisso.
Si chiama «premio di stabilizzazione» e riguarderà la famosa flessibilità «sana», quella determinata da ragioni oggettive e che si traduce in un apprendistato effettivo. Si va, per contro, a una decisa stretta su tutte le forme in bilico sull’aggiramento delle leggi, spesso sull’abuso, a volte sul ricatto nei fatti.

3. Il piano del governo per l’articolo 18
Indennità dai 15 ai 27 mesi sui licenziamenti disciplinari. Reintegro possibile per i casi ritenuti discriminatori
Modello tedesco per l’articolo 18. Alla fine il governo è andato per la sua strada sul nodo più caldo della trattativa e le conseguenze sono ancora tutte da scoprire. Il presidente del Consiglio, Mario Monti, ieri sera è stato perentorio: «Per il governo la questione sull’articolo 18 è chiusa». Lo schema scelto sui licenziamenti innova per quanto riguarda quelli disciplinari ed economici, lascia invariata la disciplina dei discriminatori. Le novità riguardano tutti i lavoratori, anche quelli attualmente assunti, con decorso dal momento in cui entrerà in vigore la legge.

Riepilogando, sui licenziamenti ci saranno tre fattispecie diverse. La prima è quella dei licenziamenti per motivi discriminatori: in qualsiasi tipo di azienda, sotto o sopra i 15 dipendenti, i licenziamenti determinati da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali già oggi è nullo, indipendentemente dalla motivazione. In ogni caso c’è il reintegro del lavoratore sul posto di lavoro. Questa fattispecie non è stata modificata.

Oggi poi, un lavoratore può essere licenziato anche per motivi disciplinari o economici. In questi casi alle imprese che occupano alle proprie dipendenze più di 15 lavoratori si applica l’articolo 18 della legge 300/1970, meglio nota come Statuto dei Lavoratori, marginalmente modificata dalla legge 108 /1990, che assicura la tutela della stabilità del posto di lavoro.
Il giudice allorquando ritenga che il licenziamento non è assistito da giusta causa o giustificato motivo, deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro senza la possibilità di un’alternativa di tipo risarcitorio ovvero senza alcuna possibilità di monetizzare la stabilità del rapporto.
Non solo. Oltre alla reintegrazione, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore, pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino alla effettiva reintegrazione (e comunque non inferiore a 5 mensilità di retribuzione).
In sostanza il datore di lavoro potrebbe non reintegrare effettivamente il lavoratore ingiustamente licenziato nel posto di lavoro, ma dovrebbe continuare a pagargli ininterrottamente un’indennità pari alle retribuzioni correnti. Solo il lavoratore può liberare il datore di lavoro dalla prosecuzione di tale obbligo risarcitorio chiedendo (in base alla legge 108 /1990) un’indennità pari a 15 mensilità.
La sentenza di reintegrazione comporta anche l’obbligo di pagare le contribuzioni previdenziali e assistenziali sulla retribuzione globale dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione. Se il lavoratore, invece, non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro, o entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, non richiede il pagamento dell’indennità sostitutiva del reintegro, il rapporto si intende risolto alla scadenza dei termini sopra indicati e i contributi sono dovuti fino a quella data.
Fin qui i licenziamenti individuali. E’ noto che le imprese che occupano più di 15 lavoratori possono anche licenziare per riduzione o trasformazione di attività. Se il provvedimento riguarda da 5 lavoratori in su, si applica un’altra normativa, quella dei licenziamenti collettivi «per riduzione di personale», regolata dalla legge 223/1991, che dalla riforma non viene toccata.

Tornando ai licenziamenti individuali, la novità introdotta dal governo Monti prevede che, in caso di licenziamenti disciplinari, per il lavoratore che vada dal giudice, il reintegro è previsto solo se il motivo è inesistente perché il fatto non è stato commesso o se il motivo non è riconducibile al novero delle ipotesi punibili ai sensi dei contratti collettivi nazionali. In tutti gli altri casi di inesistenza dei motivi addotti dal datore di lavoro, il giudice dispone soltanto un indennizzo da 15 a 27 mensilità e mai il reintegro.

L’altra novità riguarda i licenziamenti per motivi economici. Una volta finiti in tribunale, il giudice non potrà vagliare le motivazioni economiche alla base del provvedimento e non avrà la possibilità di reintegrare il lavoratore ma potrà soltanto stabilire un indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità.
Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero ha poi spiegato che ci saranno anche altre novità per «accorciare la durata del processo», la cui attuale, eccessiva lunghezza viene considerata penalizzante dalle aziende.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *