Mentre Damasco esplode, si chiudono gli occhi che hanno denunciato la guerra

Si sono chiusi gli occhi che hanno guardato con pietà e denunciato l’insensatezza di ogni guerra, occhi che, per 50 anni, non hanno smesso di registrare l’orrore in ogni conflitto. E’ morto ieri a 79 anni Horst Faas, leggendario fotografo di guerra della agenzia Associated Press, vincitore due volte del premio Pulitzer, autore di alcune […]

Si sono chiusi gli occhi che hanno guardato con pietà e denunciato l’insensatezza di ogni guerra, occhi che, per 50 anni, non hanno smesso di registrare l’orrore in ogni conflitto.
E’ morto ieri a 79 anni Horst Faas, leggendario fotografo di guerra della agenzia Associated Press, vincitore due volte del premio Pulitzer, autore di alcune delle immagini più note del conflitto vietnamita, come quella dell’esecuzione di un giovane vietnamita, in piedi, in mezzo ad una strada con un colpo di pistola alla tempia o della ragazzina urlante e nuda, che fugge a piedi durante un bombardamento con il napalm.
Proprio per le sue foto dal Vietnam, dove nel 1967 rimase anche gravemente ferito, Faas, che era tedesco, ha vinto nel 1965 il suo primo Pulitzer,; mentre il secondo gli venne conferito, assieme ad un altro grande fotografo, Michel Laurent, nel 1972, per una serie di foto sulle torture ed esecuzioni in Bangladesh.
Nell’annunciare la sua morte, la Associated Press, per cui Faas ha lavorato per quasi cinquant’anni, ha ricordato le sue parole quando nel 1965 vinse il Pulitzer. “La sua missione – disse – era registrare le sofferenze, le emozioni e i sacrifici sia degli americani che dei vietnamiti”.
E chissà come Faas avrebbe documentato quella sporca e sempre più tragica guerra che si combatte da un anno e quattro mesi in Siria, con l’ultima strage ieri a Damasco, con un doppio attentato con auto-bomba imbottite di tritolo (per un totale di 1.000 kg), esplose in successione nella parte Sud della città, con morti e feriti che ricordano la Baghdad del 2003, la Algeri del ’92 o la Beirut degli anni Ottanta.
Faas avrebbe descritto con commossa emozione l’aria densa di fumo, i vapori di benzina e nitrato, l’asfalto cosparso di vetri e pezzi di metallo carbonizzati e “mostrato” l’ansimare di centinaia di persone che corrono verso lo stesso punto all’orizzonte, con le urla dei feriti e le grida dei soldati che tentano di fermare la folla.
Scrive Alberto Negri su La Stampa, che la guerra civile, in Siria, precipita verso una deriva irachena o di stampo algerino.
E, come sempre dopo un attentato, a Damasco si contrappongono due versioni della storia e del complotto: il regime accusa Al-Qaida e gli estremisti islamici, l’opposizione punta il dito contro il potere, responsabile di una cinica strategia della tensione per screditare la rivolta.
Da più di un anno, ormai, il regime e l’opposizione lavorano giorno dopo giorno per accreditare la loro versione della storia.
Anche questo attentato non sfugge alle manipolazioni e come nell’Algeria degli anni 90 (200mila morti) affiora la domanda più inquietante: “Chi uccide chi?”.
Una domanda senza risposta, perché si muore, comunque, da ambo le parti.
Il problema in Siria e nel Medio Oriente è grande e di mezzo c’è il fatto che, in quell’area del mondo, in mezzo secolo, si sono stritolate tutte, una dopo l’altra, le minoranze etniche e religiose e i cristiani, che arretrano dalla Mesopotamia alla Siria al Libano, per salvarsi, afferrano ogni bastone che galleggia nella tempesta.
L’attentato di ieri, di una violenza inaudita, con due successive esplosioni, ha divelto l’edificio principale del “Palestine Branch”, l’unità nata negli anni 50 per dare la caccia alle spie israeliane, una delle filiali più temute dei servizi: qui ci sono centinaia di detenuti, si conducono gli interrogatori e si tortura. Una fama sinistra che si è guadagnata tra gli oppositori l’ironico appellativo di “Sheraton”.
Mentre il “diavolo” mediatico è Al-Jazeera, la tv di Doha, inneggia al presidente, maledicono gli arabi del petrolio e la Turchia di Erdogan ed affermando che la bestia nera è lo sceicco Ahmad è Al-Thani, l’emiro del Qatar, la monarchia del Golfo, insieme a quella saudita, il quale sarebbe il vero responsabile del finanziamento dei gruppi armati anti-regime.
In questa confusione estrema restano i corpi dilaniati di decine di persone, fra cui studenti e bambini, uccisi nell’attento di ieri, ultime vittime di un bagno di sangue che non sembra avere mai fine.
“E’ un altro esempio delle sofferenze inflitte al popolo siriano”, ha detto il generale Robert Mood, alla guida della missione dell’Onu.
“Noi – ha aggiunto – la comunità internazionale, siamo qui con il popolo siriano e chiediamo a ciascuno, dentro e fuori la Siria, un aiuto per fermare questa violenza.
Kofi Annan, inviato del Palazzo di Vetro, ha condannato gli attentati, e altrettanto ha fatto l’Italia, con Giulio Terzi. Il ministro degli Esteri ha auspicato che Damasco stabilizzi le condizioni di sicurezza e ha ipotizzato, qualora falliscano i tentativi di mediazione politica, un intervento armato della comunità internazionale, in base all’articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, per proteggere tanto la popolazione civile che gli osservatori stessi; ma ha osservato che “un’ipotesi del genere va considerata in Consiglio di sicurezza e che ci vogliono le condizioni politiche” affinché tutti i membri dell’organismo siano concordi.
Quanto ai quindici osservatori italiani in partenza per la Siria, Terzi ha lasciato capire che non ci sarà alcun cambio di programma e che è nostra intenzione seguire le indicazioni dell’Onu.
Come annota oggi Il Manifesta nella versione on-line, aveva ragione padre Paolo Dall’Oglio, animatore da molti anni della comunità monastica di Mar Musa, rispondendo il mese scorso alle domande di un sito d’informazione italiano. Al giornalista che parlava di «sollevazione popolare» contro il regime di Bashar Assad, Dall’Oglio aveva replicato che in Siria c’è la guerra civile “da giugno del 2011”.
I crimini di Assad e delle forze armate sono davanti agli occhi di tutti: è sufficiente ricordare le migliaia di morti e il bombardamento devastante di Baba Amr a Homs.

Ed è anche chiaro che nessuna soluzione politica della crisi potrà riportare la Siria indietro all’inizio del 2011, lasciando il regime al potere come se nulla fosse accaduto.
Allo stesso tempo descrivere i ribelli come scolaretti in gita, poco armati e poco addestrati, è un fuorviante.
Così come è pericoloso minimizzare che l’estremismo religioso (e con esso il settarismo) – sponsorizzato generosamente dall’area del Golfo – conquista terreno ogni giorno che passa.
Nella regione tutti sanno che i jihadisti si sono spostati dall’Iraq in Siria per combattere contro gli “apostati” sciiti al potere e riportare Damasco sotto il controllo sunnita.

In questo quadro insanguinato è passata inosservata la notizia che il Fronte dell’Unità nazionale, ossia il Partito Baath al potere e i suoi satelliti, ha vinto le elezioni legislative non solo a Damasco, ma a Daraa e Idlib, roccaforti delle proteste anti-regime, in elezioni boicottate dalle opposizioni che pure qualche valore dovranno pur avere.
Ma, con i media internazionali che da 14 mesi continuano a ripetere la favola dell’Orco Cattivo (macellaio grigio e spietato Assad) e del fanciullino buono (i ribelli), non è possibile alcuna analisi ragionovele e critica, della criticissima situazione.
E non vorremo che, come oggi direbbe anche Faas, la soluzioni sembri, come pare evidente da certe “mosse” statunitensi, l’apertura di un altro fronte di guerra, con forze internazionali a disseminare pace a forza di bombe.

Carlo Di Stanislao

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