Integralismo distruttivo in Mali

Timbuctù e Kidal sono ormai sotto il totale controllo degli integralisti di Al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi) e del Movimento per l’unicità e la Jihad in Africa (Mujao). Sconfitti i ribelli tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) che con loro, approfittando della confusione creata nella capitale Bamako lo scorso 22 marzo da […]

Timbuctù e Kidal sono ormai sotto il totale controllo degli integralisti di Al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi) e del Movimento per l’unicità e la Jihad in Africa (Mujao).
Sconfitti i ribelli tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) che con loro, approfittando della confusione creata nella capitale Bamako lo scorso 22 marzo da un colpo di stato militare, avevano preso il potere nelle tre regioni settentrionali, gli integralisti iniziato la loro operazione di terrore e di distruzione.
E dopo i sette mausolei distrutti nel fine settimana, gli integralisti islamici di Ansar Dine, che da tre mesi hanno il pieno controllo del Mali settentrionale, oggi hanno dato l’assalto a una moschea del XV secolo a Timbuctu e minato l’area circostante la località di Gao.
Scrive l’ANSA che i fanatici religiosi hanno fatto a pezzi la porta sacra di Sidi Yahia, una delle tre grandi moschee Timbuctù, nella zona sud della mitica città, dichiarata Patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco.
Distrutta a colpi di piccone una porta in legno massiccio, che da decenni restava sempre chiusa perché, secondo la tradizione, la sua apertura avrebbe provocato distruzione e morte.
L’entrata, situata sul lato sud della moschea, conduce verso una tomba di santi musulmani e se gli integralisti islamici lo avessero saputo, ha detto un altro testimone, “avrebbero distrutto tutto”.
Paralizzati dalle minacce e dalle urla ‘Allah! Allah!’, molti abitanti hanno assistito allo scempio, urlando e piangendo, ma impotenti contro i kalashnikov spianati dai fondamentalisti.
Un religioso, l’imam Alpha Abdoulahi, che si è azzardato a parlare con loro, ha poi spiegato poi che la devastazione è stata decisa proprio perché “qualcuno diceva che il giorno in cui questa porta fosse stata aperta sarebbe arrivata la fine del mondo”.
La denuncia arriva proprio dai tuareg ribelli, che aggiungono che “molti civili cercano di fuggire, di salire su camion e corriere per raggiungere la capitale Bamako, ma i fondamentalisti non intendono permetterlo”.
E chi riesce comunque a uscire, ora rischia di saltare in aria, perché i dintorni della città sono minati.
Kidal, altra cittadina in mano agli integralisti, è appena un comune urbano, capoluogo del circondario e della regione omonimi, mentre più importante è Gao, capoluogo di una delle otto regioni del Mali, affacciata sul deserto e densamente abitata.
Secondo i tuareg, “dopo la criminale distruzione di alcuni mausolei dei santi musulmani, ora i fanatici usano la gente come ostaggi, come scudi umani, per proteggersi da una nostra controffensiva” o da un attacco delle truppe governative.
Per il terzo giorno consecutivo comunque nessuno ha potuto opporsi alla violenza degli uomini di Ansar Dine, pesantemente armati e decisi a imporre la Sharia (la legge islamica) in tutto il Mali. Finora si sono solo alzate molte voci a condannare e a lanciare appelli: ieri l’Ecowas (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) e la Cpi (Corte penale internazionale dell’Aja), oggi gli Stati Uniti, l’Oci (Organizzazione della cooperazione islamica, 57 Paesi membri) e l’Associazione dei leader religiosi del Mali, che ha ricordato, ma inutilmente, che “anche il Profeta Maometto andava a visitare le tombe e i mausolei dei 333 santi”.
Ieri, un portavoce del gruppo Ansar Dine, ha annunciato l’imminente distruzione di altri 13 templi, santuari e cimiteri, sempre dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco.
Questi episodi nel Mali, ricordano la distruzione, ordinata dai talebani integralisti nel marzo 2001 in Afganistan e che portò alla distruzione dei Buddha di Bamiyan: due enormi statue del Buddha, scolpite da una setta buddista nelle pareti di roccia della valle di Bamiyan, a circa 230 chilometri dalla capitale Kabul e ad un’altezza di circa 2500 metri; una alta 38 metri e l’altra 53 metri.
Le due statue, erette una 1.800 e l’altra 1.500 anni fa, secondo una decisione presa da 400 religiosi afgani, furono ritenute contrare ai principi dell’Islam e, il 6 marzo di 12 anni fa, fatte esplodere.
Quello stesso giorno, il Times, riportò che il Mullah Mohammed Omar disse: “i musulmani dovrebbero essere orgogliosi di distruggere gli idoli”.
Considerata per le sue favolose ricchezze e inaccessibilità un luogo più mitico che reale, della reale esistenza di Timbuctu si discusse in Occidente sino al 1806, quando l’esploratore Mungo Park, riuscì a raggiungerla dal fiume Niger, senza tuttavia riuscire a tornare indietro.
Il primo che ne diede un resoconto fu René Caillié, che parlò di una città ricca e potentissima, situata pochi chilometri a nord del fiume Niger, nel Sud-Est del deserto sahariano, lontana da altri agglomerati urbani e da formazioni naturali di rilievo, in quanto sorge in un “habitat” arido e sabbioso.
Adesso, nel Mali, a scatenare la furia dei fondamentalisti è stata, pare, la decisione dell’agenzia Onu, intesa ad inserire la celebre città del Sahel, con il suo centro pieno di splendidi mausolei di fango e sabbia, edificati fra 800 e 400 anni fa, nella lista dei patrimoni dell’umanità in pericolo, proprio a causa del conflitto in corso nella regione.
Una sgradita ingerenza nelle vicende interne, secondo Ansar Dine, che per ritorsione ha deciso di distruggere sistematicamente i Mausolei.
Quanto vedo accadere in Mali ed in altri Paesi, mi riporta alle parole di V.S. Naipaul, nel libro “Fedeli a oltranza”, pubblicato da Adelphi nel 2001, con il suo ritorno, nel 1995, dopo circa vent’anni in quattro paesi sconvolti, in diversa misura, dal trionfo dell’Islam.
In Indonesia, dove un’antica società pastorale ha lasciato il posto a una teocrazia governata dai grattacieli di Giakarta, dove i nuovi manager si genuflettono alla Mecca – ma senza perder d’occhio l’andamento, sullo schermo, dei corsi azionari.
In Iran, con l’ayatollah Khalkhalli, il Višinskij di Khomeini, che è agli arresti domiciliari, mentre nella sua Qom ogni furore iconoclasta – che non sia la pratica interdetta del bridge, o l’acquisto clandestino di cd – appare spento.
In Pakistan, con l’oro saudita con cui il presidente Zia è andato al potere è servito essenzialmente a scatenare faide tribali che si credevano sepolte da secoli.
Intanto, in Malesia, la gioventù islamica fa proseliti, vaticinando per la nazione un futuro da grande potenza del Sud-Est asiatico.
Nel corso del viaggio, e degli incontri, il taccuino di Naipaul si riempie di storie e osservazioni secche, nitide, mai prevedibili, restituendoci una carta aggiornata e preoccupante di quel tifone ideologico – il fondamentalismo islamico – di cui l’Occidente sembra non voler conoscere le traiettorie, ma dal quale continua a temere di essere, per sua colpa, travolto.

Carlo Di Stanislao

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