A proposito di come ricostruire L’Aquila

Mi vengono in mente le parole di Ernesto Balducci, contenute nel suo magnifico saggio “L’homo editus e l’homo absconditus”: c’è in noi quello Bloch chiamava l’homo absconditus: un uomo che non trova il suo linguaggio adeguato nell’homo editus e non c’è una lingua che traduca le attese, le aspettative, le possibilità reali dell’homo absconditus, se […]

Mi vengono in mente le parole di Ernesto Balducci, contenute nel suo magnifico saggio “L’homo editus e l’homo absconditus”: c’è in noi quello Bloch chiamava l’homo absconditus: un uomo che non trova il suo linguaggio adeguato nell’homo editus e non c’è una lingua che traduca le attese, le aspettative, le possibilità reali dell’homo absconditus, se non quella composta dagli edifici che riesce a concepire.  Potremmo dire che la sua attesa è quella della profezia Le idee migliorano se sono condivise. E da una serie di conversazioni con Goffredo Palmerini e di mail con Mons. Orlando Antonini, ho maturato alcune convinzioni sulla ricostruzione di questa amata città. Città che non è mias (essendo nato a Colonnella, in provincia di Teramo e vissuto sino al 1979 a Roseto degli Abruzzi), ma che mia è divenuta poi, per afflati e comunanze. Una città che amo e che merita di essere amata, con sviste e scompensi, ma anche con un “tessuto” ed una tempra fuori dal comune. Come ho già avuto moto di scrivere, dopo tante ambasce e false promesse, ora sembra che i soldi ci siano e la volontà anche. Ma si tratta, adesso,  di capire come ricostruire L’Aquila, per darle non un volto qualsiasi, ma quella che la sua storia, urbana, culturale ed antropica, hanno di fatto tracciato. A partire dalla fine del Settecento l’affermarsi dell’ottica storicistica, ovvero della tendenza a interpretare le testimonianze artistiche del passato nel contesto culturale che era loro proprio, ha dato avvio al dibattito teorico tuttora in corso in cui si concepisce il restauro come evento tecnico-critico nel corso dell’esistenza dei monumenti e dei manufatti artistici. Il restauro e, a maggior ragione la ricostruzione, nel periodo attuale, poiché l’opera d’arte è considerata sia come testimonianza dello sviluppo della cultura di un certo momento e di un certo luogo, sia come espressione dotata di un’autonoma sfera qualitativa, che va sottratta a ogni tentazione di aggiornamento e di reinterpretazione, devono da un lato assicurare la sopravvivenza materiale dell’opera, dall’altro mirare alla restituzione della sua veste originaria, fermo restando il rispetto di quei mutamenti intervenuti nel tempo sull’immagine (sia essa architettura, scultura o pittura), laddove si configurino come elementi qualificanti dal punto di vista estetico e funzionale.
In questo modo restauro e ricostruzione diventano una disciplina critica e non meramente tecnica, che trova nella dialettica tra progettista (architetto, storico dell’arte, archeologo), realizzatore (restauratore) e tecnici (chimici, fisici, biologi) la propria ragion d’essere.Già nella prima metà dell’800, l’architetto e storico dell’arte francese Viollet-Le-Duc dopo un periodo di studio dell’arte greca e romana in Sicilia e a Roma, restaurando alcune chiese gotiche (Notre-Dame, l’abazia di Vezelay, Saint-Denis, Chartres) e alcuni castelli (Pierrefonds, Carcassonne), dimostra che è possibile restaurare un monumento integrando le parti mancanti in modo che il risultato finale potrebbe non essere mai esistito realmente se non nell’immaginazione dell’autore originario. Questo tipo di restauro viene chiamato restauro “integrativo” e anche “stilistico” in quanto il restauratore non si limita alla manutenzione o al consolidamento dell’esistente, ma reintegra le parti mancanti secondo come erano (o avrebbero potuto essere) al tempo in cui il monumento era stato costruito. Inoltre tutte le aggiunte  fatte successivamente debbono essere distrutte, anche se queste sono ormai “storicizzate” e di valore artistico superiore. Le indicazioni di Viollet-Le-Duc sono quelle che, prima di iniziare il restauro, di studiare il monumento, eventualmente facendo riferimento alle forme degli edifici coevi.
Scuola antitetica a quella francese è quella inglese capeggiata dal critico d’arte John Ruskin, docente all’università di Oxford, che partecipò al movimento “luddista”,  nato come forma di protesta nei confronti della società industriale. Ruskin condanna qualsiasi forma di restauro, anche quello conservativo o di manutenzione, la sua posizione estremistica lo porta ad asserire che imonumenti debbono cadere in rovina fino a scomparire perché qualsiasi forma di restauro porta ad utilizzare parti nuove al posto delle parti rovinate facendo sì che l’edificio diventi nel tempo solo un modello dell’edificio originario.
Un famoso esempio di restauro “conservativo” secondo la scuola di Ruskin è invece il restauro dell’Abbazia di S. Galgano (Siena). La chiesa abbaziale fu iniziata nel 1224, semidistrutta nel XIV, nel XVI era già in rovina. Nel XIX secolo fu restaurata, limitandosi al consolidamento dell’esistente, per cui adesso si possono visitare i grandiosi ruderi che lasciano comunque intuire l’antica bellezza, anche se la costruzione (su tre navate, con arcate a sesto  acuto) è senza tetto e il prato invade la zona pavimentale. Dalle posizioni estreme di Ruskin nasce, comunque, una  corrente moderata, che accetta il restauro conservativo come unico strumento per salvare il monumento e trasmetterlo quindi ai posteri. Alla corrente che preferisce l’azione del consolidamento al restauro appartiene l’architetto Camillo Boito (1836-1914), che accusa i restauratori “stilistici” di falsificare i monumenti in quanto ingannano i contemporanei e, ancora peggio, i posteri, arrivando ad affermare: “I restauratori sono gente da mettere in berlina o da mandare addirittura al patibolo”. Nel caso in cui il restauro si renda necessario, Boito considera importante che le “aggiunte” siano riconoscibili, utilizzando eventualmente materiale diverso dall’originale in modo da non trarre in inganno l’osservatore facendogli credere antico le parti aggiunte dal restauro. E veniamo a noi, ai nostri giorni e ai problemi di come ricostruire una città come L’Aquila, con un centro storico devastato nei suoi tesori d’arte che compongono, o meglio componevano, uno dei complessi urbanistici, architettonici e storico-artistici più interessanti del Centro-Italia.

L’idea più interessante fra conservatori e modernisti, mi pare quella di Monsignor Antonini, espressa nel volume della One-Group” L’Aquila Nuova negli Itinerari del Nunzio”, in cui la città e immaginata risorta in una prospettiva di bellezza e di armonia in cui la valorizzazione del suo straordinario patrimonio architettonico, artistico, storico e ambientale, si equilibrano con le tecniche moderne di costruzione ecosostenibile, nel rispetto complessivo delle tradizioni del luogo. Una ricostruzione migliorativa non solo come sicurezza e infrastrutture, ma anche dal punto di vista formale e della bellezza, che sappia interpretate il passare della storia, tendo sempre conto della comunità e dello “spiritus loci”. Una ricostruzione coraggiosa e che non si fermi al mero recupero del “dov’era com’era”, come accaduto ad esempio per la facciata della chiesa di San Biagio di Amiterno, ma sappia sfruttare ogni occasione per abbellire e, coraggiosamente, portare a compimento ogni opera recuperata. A giugno scorso, dopo il terribile sisma dell’Emilia, ho letto parole che avevo già letto, anni fa, dopo il nostro terremoto del 2009. Ciò che ho letto è che, per risollevarsi da un cataclisma, da un disastro naturale o non, occorre coraggio, un coraggio che trovi nutrimento nel recupero dei valori condivisi dalle comunità.
In questa ottica, ci sarebbe piaciuto che, nel restauro ultimato in solo sette mesi, del complesso di San Biagio, sede della Parrocchia Personale “San Giuseppe Artigiano” meglio conosciuta come Parrocchia Universitaria, nel centro storico dell’Aquila, primo segno tangibile dell’impegno assunto dalla Chiesa Aquilana nel pensare la ri-nascita delle aree intra moenia alla luce del potenziale spirituale, culturale e sociale insito nei momenti urbani delle grandi architetture chiesastiche, si fosse recuperata la facciata come era, nel 400 e non si fosse fermata alla “falsa” intonacatura settecentesca, mostrando di avere, appunto e fino in fondo, il coraggio autentico della bellezza.

Per concludere, non ometterei un breve riferimento al puntuale recente intervento di Errico Centofanti sul restauro del Teatro Comunale, nel quale l’illustre aquilano perora nel recupero della struttura i valori architettonici del progettista, l’architetto Luigi Catalani, correggendo le infauste manomissioni intervenute con gli interventi successivi alla costruzione del teatro aquilano.

Sempre il richiamato padre Balducci, quello che ci aveva ammonito con il perentorio: “”Siate ragionevoli chiedete l’impossibile”, quello che Don Gallo considera un maestro di esperienza e di vita, in “Tutti insieme per non scomparire”, ci ammonisce dicendo che: “La vera coscienza rivoluzionaria non è quella di classe, è quella di specie”; una coscienza che non solo sia ecologica in senso pieno, ma che guardi alla terra e ai luoghi come “casa comune”.

E’ solo se avremo questo cuore e questi occhi che sapremo davvero cosa e come ricostruire. Ha ragione Mons Antonini per S. Biago e Erricco Centofanti per il Teatro Comunale: la ricostruzione deve essere capace di recuperare lo spirito delle cose e non divenire motivo di reiterate afflizioni sui monumenti stessi. Ne Il principio speranza, Bloch mostra come la coscienza anticipante dell’uomo, la sua capacità di anticipare i progetti più alti mettendo in moto lo sviluppo storico, si manifesti sia nelle piccole che nelle gradi forme storiche.

Qui a L’Aquila abbiamo l’occasione, come lo ebbero i nostri padri, di tradurre quella speranza in realtà.

Ed allora ci siano di viatico le parole del filosofo tedesco: “L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono ”.

Carlo Di Stanislao

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