Dodici anni fa la tragedia del sottomarino russo Kursk. Onori ai caduti

Dalla storia al mito, dalla leggenda alla gloria. Il mondo esprime ogni anno il suo tributo ai familiari delle 118 vittime del Kursk, l’orgoglio da un miliardo di dollari della flotta russa, il sottomarino nucleare inabissatosi dodici anni fa nel mare di Barents con i suoi segreti. Sulle note della celebre colonna sonora del film […]

Dalla storia al mito, dalla leggenda alla gloria. Il mondo esprime ogni anno il suo tributo ai familiari delle 118 vittime del Kursk, l’orgoglio da un miliardo di dollari della flotta russa, il sottomarino nucleare inabissatosi dodici anni fa nel mare di Barents con i suoi segreti. Sulle note della celebre colonna sonora del film Caccia a Ottobre Rosso. Oggi, per la regia di Amanda Boyle e la fotografia di Tat Radcliffe, una nuova trasposizione teatrale-cinematografica, ispirata a quella tragica vicenda, è visibile on line (http://thespace.org/search?q=kursk). Meglio di niente. La Giustizia russa in azione per l’incidente al sottomarino K-152 Nerpa (Akula II) nel novembre del 2008, costato la vita a venti marinai russi (la seconda tragedia dopo il Kursk), dimostra forse che siamo vicini alla verità? Ma chi o che cosa affondò il Kursk, il gioiello della marina militare russa? Mentre si fanno sempre più insistenti le voci su un imminente ingresso della Marina russa nell’Alleanza Atlantica (Nato), il mondo onora gli eroi del sottomarino Kursk (classe Oscar II) che persero le loro giovani vite nella tragica fine del battello K-141. Furono 118 i marinai che sprofondarono in mare quel 12 Agosto del 2000, nella pancia della loro balena d’acciaio. È l’ora della memoria, della ricerca della verità e della giustizia. Il Kursk dodici anni fa era già da sei anni il più sofisticato sottomarino nucleare (modello Antei) sulla Terra, equipaggiato con i nuovissimi missili Granit e soprattutto con i velocissimi siluri “Shkval”, torpedini in grado di volare sottacqua come un aereo a reazione, alla velocità di oltre 330 miglia orarie. In teoria era praticamente impossibile una simile tragedia su una meraviglia tecnologica come il Kursk. In particolare era assurdo che potesse imbarcare, in quelle ore fatali, siluri vecchi 30 anni per poi sfortunatamente autoaffondarsi. Nessuno ci ha mai creduto. Il K-141 Kursk apparteneva ad una classe di dodici unità costruite nei cantieri di Severodvinsk ed entrate in servizio tra il 1986 e il 2000. Si tratta di sottomarini d’attacco concepiti per operare singolarmente contro gruppi navali costituiti da una portaerei con relativa scorta. Tra i più grandi sommergibili costruiti, gli Oscar II erano, al momento della perdita del Kursk, la punta di diamante della flotta sottomarina russa sia per le eccellenti caratteristiche degli scafi sia per l’affidabilità dei propulsori. Il celebre videogioco Dangerous Waters ne celebra le potenzialità. L’armamento particolarmente potente li rendeva e, in buona misura, li rende ancora oggi adeguati ad assolvere il compito loro affidato. Siluri e missili a reazione di concezione completamente nuova, erano stati distribuiti ad alcune unità della classe. Con una struttura a doppio scafo resistente, suddiviso in 9 compartimenti stagni, un dislocamento in superficie di 13.900 tonnellate (in immersione 18.300 ton.), una lunghezza di 154 metri, una larghezza di 18,20 mt., il Kursk poteva vantare, come motori, due reattori nucleari OK-650 B, quattro turbine a vapore, due eliche, per una potenza di 98.000 hp, una velocità in superficie di 19 nodi (in immersione 30 nodi) e una quota massima di immersione di 500 metri. L’armamento era considerevole: 24 missili nucleari anti-nave a cambiamento di ambiente SS-N-19 Granit, 4 tubi lanciasiluri da 533 mm per missili/siluri VA111 Shkval e missili nucleari SS-N-152, tubi lancia siluri da 650 mm per siluri a lunga durata DST90 e missili nucleari SS-N-16. Senza contare le riserve di 18 siluri o missili. Una ghiotta opportunità servita su un piatto d’acciaio, per quanti volevano carpirne i segreti. Non è facile fare luce sulla verità di uno dei fatti più controversi nella storia della marina militare moderna: la tragica fine del sottomarino nucleare russo K-141 Kursk e dei suoi 118 marinai che il 12 Agosto del 2000 persero la vita in circostanze ancora oggi ignote, attende da dodici anni la verità. Nonostante tutte le inchieste finora svolte, molto resta ancora da scoprire. Possiamo contare su uno straordinario reportage della Rai, girato alcuni mesi prima la tragedia, ambientato proprio nella base navale strategica russa di Murmansk dove vengono ormeggiati i sottomarini simili al Kursk. Oggi, la Russia è una potente alleata delle Democrazie occidentali, della Nato, dell’Europa e dell’Italia. Si avvia a solidificare le proprie istituzioni liberamente elette ma i rigurgiti del passato sovietico ogni tanto riaffiorano minacciose in superficie, in particolare tra le gerarchie militari. Non è un caso se in questi ultimi anni i cambi al vertice sono stati piuttosto frequenti. Senza contare i misteri e i segreti del controverso servizio segreto sovietico KGB, i cui archivi oggi, sotto altro nome, restano più oscuri che mai. Se a tutto ciò si aggiunge che sottomarini simili al Kursk e di più evoluti, come il K-152 Nerpa, in navigazione e in costruzione non solo nel Mare del Nord ma in tutto il mondo (compresa l’Italia), solcano i sette Mari a caccia o a difesa di non si sa bene che cosa, allora possiamo star certi che l’incubo di un improvviso olocausto termonucleare a colpi di bombe all’idrogeno, non è certamente archiviato. Il Kursk, varato nel 1994, era un mezzo moderno e potente, capace di portare molte testate nucleari tattiche proprio per scatenare l’apocalisse sulla Terra. Poteva imbarcare 4,5 tonnellate d’acqua e continuare a navigare. Il Norsar (il servizio di registrazione sismica della Norvegia) registrò il giorno del disastro (12 agosto) due esplosioni: una alle 11:29 minuti e 34 secondi (ora di Mosca) con potenza pari al grado 1,5 della scala Richter; la seconda alle 11:31 minuti e 48 secondi, pari al grado 3,5. Gli stessi dati furono registrati dai sommergibili americani Toledo e Memphis, e dall’inglese Splendid, che presumibilmente erano in zona per spiare in mare le esercitazioni dei russi (la più importante dal crollo dell’Unione Sovietica), e dalle stazioni di ascolto della Nato in Canada ed Alaska. Bastano questi dati certi (i comandi russi parlavano di una terza esplosione alle 11:44, non confermata dalle fonti occidentali) per farci capire che sul Kursk stesse accadendo qualcosa di eccezionale e terribile. Il grado 1,5 della scala Richter equivale all’esplosione di 100 chilogrammi di tritolo. Il grado 3,5 alla detonazione di 233 Kg di tritolo. Se il Kursk si inabissò in circostanze poco chiare, si deve forse al fatto che era carico delle sue micidiali armi nucleari in grado, se fossero state lanciate, di devastare l’intera Europa in pochi minuti? Ma torniamo indietro nel tempo, in fondo al mare di Barents, a quei tragici attimi fatali, subito dopo la triplice o duplice esplosione che all’improvviso squarcia la prua del Kursk. Completamente allagato il battello finisce sul fondo del mare. Chi o che cosa ha portato uno dei sottomarini più evoluti sui fondali del Mare di Barents? Per capire il disastro del Kursk bisogna premettere che nulla è frutto del caso ma di una catena di eventi cruciali, cioè di fattori critici che indirizzano verso la tragedia. “Ci sono 23 persone qui. Abbiamo deciso di spostarci perché nessuno può lasciare il sottomarino. È buio per scrivere, ma cercherò di scrivere a tentoni. Sembra che non ci siano speranze, il 10-20 per cento. Speriamo che almeno qualcuno leggerà. Qui sono gli elenchi dei membri dell’equipaggio delle varie sezioni che si trovano ora nella nona e che cercheranno di uscire”. La conclusione del messaggio è un ultimo addio ai parenti e amici: “Saluti a tutti, non dovete disperarvi”. Non è la drammatica sequenza del kolossal Caccia a Ottobre Rosso. È un fatto di cronaca realmente accaduto, con tutto l’agghiacciante sapore di irrealtà che potrebbe avere un romanzo. Il 12 Agosto del 2000 il sottomarino nucleare russo Kursk  probabilmente era impegnato in esercitazioni sulla cui reale natura non sarà mai scritto abbastanza. Un’anomalia magnetica del fondo marino scoperta alle ore 4.36 del giorno successivo, verrà identificata come il Kursk. Il sottomarino era affondato alle coordinate 69°40’N e 37°35’E, ad una profondità compresa tra i 124 e 108 metri. Il Kursk riceve un grosso danno alla parte prodiera: questo evento genera un’esplosione interna tale da frammentare l’intera area anteriore superiore dello scafo determinando lo sfondamento di alcune paratie e l’affondamento del sommergibile. La quasi totalità dell’equipaggio muore al momento della detonazione ma l’onda d’urto non raggiunge i compartimenti 6, 7 e 8. La parte dell’equipaggio che vi si trovava, inizia ad evacuare i compartimenti alle ore 12.58 radunandosi a poppa estrema, nel compartimento numero 9. In totale 23 uomini. Le annotazioni di uno di loro proseguiranno dalle 13.34 alle 15.15. Poi più nulla. Il sottomarino sprofonda nelle gelide acque. Impossibilitato a manovrare, lancia un SOS e attende i soccorsi. Che non arrivano. La notizia viene tenuta segreta al resto del mondo per due giorni interi (ricordate Chernobyl?). Il 14 Agosto la Russia denuncia il fatto. Il capo della marina militare russa dichiara che l’avaria è stata provocata da una manovra errata, ma si sospetterà sempre che si tratti invece di una collisione con un sottomarino di un’altra potenza straniera. Tuttavia nessuno ammetterà di aver incrociato a quella latitudine con imbarcazioni da guerra. Le navi mercantili presenti in quel momento nel Mare del Nord riporteranno racconti agghiaccianti di impulsi percepiti dal sonar: l’equipaggio prigioniero del sottomarino era ancora vivo e stava tentando di comunicare con l’esterno battendo sulle paratie metalliche una sorta di rudimentale segnale morse come nel film Caccia a Ottobre Rosso? I comandi strategici russi lanciano l’allarme rosso. “Sono bloccati a 107 metri di profondità, per quanto ancora potranno resistere?” – erano le domande ricorrenti tra i marinai di passaggio. Gli Stati Uniti d’America offrono subito aiuto ma la Russia rifiuta. Vengono mandati in ricognizione tre piccoli batiscafi, ma ogni cenno di vita alla fine cessa. Finalmente il governo russo accetta le offerte calorose di aiuto che provengono dalla Gran Bretagna e dalla Norvegia. Durante i tentativi di aggancio allo scafo il sottomarino si inclina ulteriormente. Solo il 19 Agosto un’adeguata missione di soccorso britannica giunge sul posto con l’attrezzatura adatta per agganciare il portello del sottomarino e finalmente si riesce ad entrare all’interno. Il Presidente Putin è ancora in vacanza sul Mar Nero e rientra precipitosamente. Ma è tardi. Quando la Tv via cavo trasmette le prime immagini della spedizione di soccorso, si constata dolorosamente che a bordo non vi è più alcun sopravvissuto. Resterà solo a memoria del sacrificio dei 118 marinai dell’equipaggio, quel biglietto pieno di compunta dignità ritrovato nelle tasche del Tenente Capo Dimitri Kolesnikov. Il tragico incidente del sottomarino russo riapre nell’Agosto di ogni anno una ferita nella memoria della marina militare russa ed europea. Il Kursk affonda durante una serie di manovre nel mare di Barents. Il primo Luglio del 2002 la commissione ufficiale d’inchiesta stabilisce che l’affondamento del sottomarino fu causato dall’esplosione del carburante difettoso in uno dei suoi siluri, che avrebbe provocato un brusco innalzamento della temperatura e della pressione nel primo compartimento, facendo scoppiare gli altri siluri. La ricostruzione non ufficiale ipotizza la collisione simultanea, forse frontale, del Kursk e di un altro sottomarino nucleare, forse il Trafalgar della marina britannica. Un incidente provocato “da un’interferenza nelle manovre di allontanamento, necessarie per recuperare la perdita di contatto acustico”. E “non per un attacco deliberato”. Cosa avvenne esattamente a bordo del sottomarino russo inabissato con i suoi segreti? La tragedia era iniziata due giorni prima. Giovedì 10 Agosto 2000. Alle 10 del mattino il sottomarino Kursk appartenente alla settima divisione della prima flottiglia di sottomarini della Flotta del Nord, lascia la base di Vidiayevo per partecipare ad una grossa esercitazione nel Mare di Barents insieme ad altri sottomarini ed a gran parte della flotta di superficie schierata attorno alla Pietro il Grande (http://www.youtube.com/watch?v=8BhIi6noFNk). Ai 111 uomini di equipaggio si sono aggiunti due ingegneri e cinque ufficiali di stato maggiore. Ricevuta l’autorizzazione ad immergersi e ad iniziare i lanci di siluri e missili previsti dal programma, il Kursk entra in un silenzio radio che il protocollo dell’operazione prevedeva venisse mantenuto fino alle ore 18 del 12 Agosto. Nel tardo pomeriggio il sottomarino effettua due lanci di siluri da esercitazione. Venerdì 11 Agosto il Kursk, come da programma, effettua il lancio di un missile a cambiamento di ambiente SS-N-16 (privo di testata) ed un secondo lancio è previsto per il giorno successivo alle ore 18 in chiusura di operazioni. La navigazione prosegue in immersione. Sabato 12 agosto alle ore 11.29 il centro sismologico norvegese Norsar registra un’esplosione di magnitudo 1,5 della scala Richter. Due minuti dopo, alle 11.31 ne viene registrata una seconda di intensità molto superiore, corrispondente a magnitudo 3,5 registrata anche dai sottomarini americani USS Toledo e USS Memphis e dal britannico HMS Splendid. Alle 11.44 una terza esplosione viene registrata anche dall’incrociatore russo Petr Velikiy. Alle ore 18, momento del lancio del secondo missile e della prevista ripresa di contatto radio del Kursk con le altre unità russe, non essendoci notizie del sottomarino il comando di flotta ordina di iniziare le ricerche. Il K-141 Kursk è perduto. La tragedia sarebbe stata provocata dall’esplosione di un siluro che avrebbe innescato a catena lo scoppio di tutti gli altri del sommergibile, scaraventando il mezzo a 110 metri di profondità. Il 14 Agosto, il comandante della flotta russa definì “scarse” le possibilità di salvare l’equipaggio. Lo stesso giorno e quello successivo la Norvegia e la Gran Bretagna offrirono il loro aiuto per il salvataggio. Il governo del Presidente Vladimir Putin, da poco al potere, si dimostrò reticente ad accettare l’aiuto straniero per salvare l’onore della sua Flotta del Nord che stava faticosamente rinascendo dopo il crollo dell’Urss. Il maltempo ritardò l’operazione di salvataggio russo che iniziò solo il 15 Agosto. Due piccoli sottomarini scesero in profondità cercando di agganciare il Kursk per aprire le porte. Ci provarono per ben sette volte ma fallirono a causa delle forti correnti sottomarine. Mentre la nazione viveva il dramma del Kursk, il Presidente Putin solo quattro giorni dopo intervenne per dire che la situazione era “critica” ma tranquillizzando il Paese in quanto la Russia aveva “tutti i mezzi” per il salvataggio. Quando i segnali di vita dall’equipaggio cessarono, il 16 Agosto la Russia si decise ad accettare l’aiuto di Londra e Oslo. L’operazione di salvataggio internazionale cominciò solo il 20 Agosto, il giorno dopo i norvegesi riuscirono ad aprire il sottomarino, ma era troppo tardi per raggiungere vivi i marinai, molti dei quali avevano cercato rifugio in un compartimento in fondo al mezzo. Il recupero del Kursk e dei corpi prese molti mesi. In un articolo di Giovanni Bernardi, il 17 Luglio 2001, viene analizzata la percezione di pericolo e disfatta in una Marina russa allo sbando dopo la tragedia del Kursk. “La tragedia del sottomarino Kursk scosse l’opinione pubblica occidentale, sia per la perdita di 118 vite umane nel mare di Barents sia per l’indifferenza dimostrata da parte della leadership russa, in particolare di Wladimir Putin. La risposta data a Larry King dal Presidente russo sembrò uno schiaffo in faccia alla sofferenza delle famiglie delle vittime: “E’ affondato” disse al giornalista che gli chiedeva un commento sull’avvenimento. Perfino le bugie dette in quella occasione dalle autorità direttamente responsabili della sorte del sottomarino non fecero nulla per sembrare delle verità. La popolarità del Presidente russo subì a quell’epoca un grave tracollo”. Secondo Bernardi il Kremlino avrebbe imparato la lezione e predisposto per l’operazione di recupero quasi uno show che potrebbe sembrare ispirato da esperti di comunicazione americani. Il responsabile delle pubbliche relazioni del Presidente, Sergei Yastrzhembsky, riteneva l’avvenimento un’ottima carta da giocare per l’immagine della marina russa. “Una nave condurrà i giornalisti sul luogo dell’operazione e un centro internazionale stampa è stato costituito a Murmansk. Ma la prima fase dell’avventura si rivelerà oltremodo difficile e nessuno ne fa mistero. Speciali robot taglieranno la prima sezione dal resto del sottomarino, dove erano contenute le torpedini la cui esplosione è stata causa dell’affondamento. Ma nessuno sa dire se sono esplose tutte. Un secondo rischio proviene dalla seconda e terza sezione dove sono contenuti 24 missili che potrebbero avere ricevuto un grave shock dall’esplosione”. A rendere più drammatica la scenografia del recupero vi è un poderoso schieramento della flotta del Mare del Nord: ventitré navi, tra le quali due incrociatori nucleari e due portaerei. Analisti di difesa indipendenti russi rimangono scettici al cospetto di un tale schieramento di forze: non è chiaro, infatti, se gli ammiragli desiderino dimostrare di essere in grado di comandare una flotta imponente o se vogliano – come dicono – fornire cornice di sicurezza. Peraltro, i rischi ci sono indipendentemente dal numero delle navi schierate e la sicurezza relativa ai segreti di funzionamento dei sottomarini nucleari russi, è già stata compromessa dall’addestramento fatto fare ai soccorritori sul gemello del Kursk, il sottomarino Oryol. La verità – secondo alcuni esperti – è che si desideri fare dimenticare il vero motivo dell’intera operazione: la perdita di 118 vite umane. In un primo tempo le dichiarazioni ufficiali parlavano di recupero del sottomarino per potere accertare le cause dell’affondamento. Se la prima sezione viene tagliata e abbandonata in fondo al mare, però, non si riesce a capire come le cause della tragedia possano essere esaminate, visto che sono da studiare proprio nella prima sezione. Chi ha pianificato l’operazione, d’altra parte, afferma che non c’è altro modo di operare, visto che comunque la prima sezione si staccherebbe ugualmente nella fase di recupero e ne comprometterebbe la dinamica, come sostiene l’ammiraglio Mikhail Barskov. Una delle verità che girano attorno all’operazione è quella secondo la quale il sottomarino debba essere recuperato per il pericolo che costituisce all’intensa navigazione nell’area, soprattutto di battelli da pesca. Ma la verità sulla quale non vi sono dubbi è che nessuna responsabilità sarà accertata fino a quando il recupero non sarà totale, come afferma il Presidente Putin. Nei confronti di nessuno sarebbero stati presi provvedimenti disciplinari, amministrativi, penali, nemmeno nei confronti dell’ammiraglio Kuroyedov che per lungo tempo ha affermato che l’affondamento del Kursk era stato causato dalla collisione con un sottomarino inglese o americano: retaggi di un’antica tecnica di disinformazione comunista. Mentre nel Mar di Barents continuava il recupero dei corpi dei marinai del  Kursk e i primi solenni funerali delle vittime si svolgevano a San Pietroburgo il 2 Novembre successivo: a oltre 100 metri di profondità, nelle gelide acque dell’Artico flagellate dai venti, giaceva una verità inconfessabile. Che 23 uomini dell’equipaggio del Kursk fossero ancora vivi tre giorni dopo l’affondamento. Lo sosteneva il quotidiano moscovita Zhyzn, sulla base delle dichiarazioni dell’ufficiale navale Igor Gryaznov, che aveva condotto i primi esami necroscopici sui corpi recuperati e aveva letto un secondo messaggio, scritto di pugno dal comandante della sezione turbine Dimitri Kolesnikov in un biglietto trovato in una tasca della sua uniforme. Il biglietto, con calligrafia incerta ma chiara, portava nell’ultima riga la data del 15 Agosto. La rivelazione sarebbe stata devastante per i capi navali del Cremlino, imputabili di un terribile cover-up della verità. In tal caso essi avrebbero dovuto rispondere delle reali cause dell’affondamento, della durata effettiva dell’agonia dell’equipaggio e delle proprie responsabilità in uno scenario di guerra o di intelligence in cui il Kursk sfortunatamente potrebbe essere stato coinvolto. Chi sostiene convinto che un sommergibile straniero abbia urtato il K-141, è il comandante della Marina ammiraglio Vladimir Kuroyedov, secondo il quale anche la commissione d’inchiesta sarebbe stata propensa per la tesi della collisione con un’unità statunitense o britannica. Ma gli esperti occidentali smentirono questa versione, avvalorata dalle lamiere di prua del Kursk, piegate verso l’interno, segno di un urto dall’esterno. In un precedente articolo di Giovanni Bernardi del 19 Agosto 2000, si analizza l’ascesa e il declino della flotta più potente del mondo. “E’ sempre una pena quando si vede morire un gigante, e questa volta il Gulliver del mare trattiene con sé 118 lillipuziani. Eppure, con i suoi 155 metri di lunghezza (non entrerebbe nello stadio di San Siro) non è nemmeno il più grande che sia mai stato costruito: la classe Typhoon misura 170 metri. Assistiamo, però, anche a un’altra agonia, quella della marina russa e, in particolare, di quelli che ne sono stati sempre l’orgoglio: i sottomarini. Attualmente, secondo accreditate stime occidentali, la flotta ne conta – operativi o quasi – un centinaio da combattimento più sei non armati per missioni speciali. Dei cento, una settantina sono a propulsione nucleare; i rimanenti, diesel elettrici. Dei primi fanno parte quelli che sono armati con missili balistici che possono essere lanciati restando in immersione (submarine launched ballistic missile – SLBM), e a questa categoria appartengono le classi Delta I, Delta III, Delta IV, con 16 tubi di lancio, e la già citata Typhoon, con 20 unità. Inoltre, appartiene alla categoria dei sottomarini balistici nucleari, ma deve emergere per lanciare perché porta missili superficie / superficie (surface / surface ballistic missile – SSBM), anche la classe Oscar II, quella del Kursk. Ancora a propulsione nucleare, ma definite “d’attacco” perché non dispongono di missili balistici ma solo di 6/8 tubi lancia siluri, sono le classi Victor III, Sierra I, Sierra II, Akula. I rimanenti diesel elettrici sono pure progettati per l’attacco ai vascelli in superficie e considerati d’attacco”. In effetti la situazione della flotta russa e in particolare quella dei sottomarini, all’epoca era disastrosa, come acclarato dal reportage Rai dedicato alla base strategica russa. “A causa dei drastici tagli alla spesa militare, manca il carburante per fare esercitazioni, la manutenzione scarseggia o è addirittura nulla, l’addestramento del personale è pressoché inesistente, la pratica della cannibalizzazione (riparare un mezzo sostituendo il pezzo guasto con quello di uno inefficiente) è diffusa. Il personale, che fino a dieci anni or sono si considerava di élite, è demotivato, con paga ridotta al minimo e con seri problemi di sopravvivenza. Possiamo quindi dire, con una buona probabilità di indovinarci (ancora oggi non è facile reperire informazioni sicure da fonti russe) che l’operatività della componente sottomarina della flotta russa è, nel migliore dei casi, del 40-50%. Tra l’altro, anche per l’effetto degli accordi sulla riduzione degli armamenti nucleari (Strategic Arms Reduction Talks – START I e START II) un certo numero di battelli sarà dismesso. Eppure, la flotta sottomarina dell’allora Unione Sovietica era la più potente al mondo. Questo, per un motivo facilmente spiegabile. Nelle previsioni degli strateghi sovietici, anche la Terza Guerra Mondiale si sarebbe dovuta combattere in Europa e, poiché gli alleati europei della Nato non sarebbero stati in grado di opporre resistenza alla enorme forza d’urto delle truppe dell’Est, si sarebbe dovuto fare ricorso ai rinforzi provenienti dagli Stati Uniti. Ma questi sarebbero dovuti arrivare per via aerea (un certo numero) e per nave (la maggior parte). La misura preventiva presa dalla Nato era lo schieramento in Europa di truppe, mezzi, armi e munizioni Usa per resistere almeno al primo attacco. Da parte sovietica, il concetto strategico prevedeva, contemporaneamente all’attacco in profondità per via terra, di tagliare le vie di comunicazione marittime tra Stati Uniti ed Europa mediante una guerra navale condotta soprattutto con i sottomarini nucleari. Di qui, il grande sviluppo di mezzi idonei a combattere una guerra atlantica risolutiva. L’avvento delle nuove tecnologie favorì lo sviluppo della propulsione nucleare, in quanto un tale sottomarino è di gran lunga più silenzioso di uno diesel elettrico e quindi molto difficile da individuare con le apparecchiature delle navi. La tendenza al gigantismo si sviluppò per l’esigenza di montare i missili balistici SLBM in grado di colpire il territorio avversario da notevole distanza e senza dover emergere. Ricordiamo che la classe Typhoon porta 20 missili, ognuno con dieci testate nucleari. Totale: 200 armi nucleari su ogni sottomarino. La classe Oscar, invece, ne porta “solo” 16 e per lanciare i missili deve emergere. Cosa che non accadrà più al Kursk. Se pure il sommergibile di soccorso inglese RL5 riuscirà a salvare l’equipaggio (Lo speriamo ancora tutti e anche l’ammiraglio Alexandr Pobozhy che dice che “I veri sommergibilisti non perdono mai la speranza”) il gigante Kursk resterà in fondo al mare a fare idealmente compagnia agli altri 5 sottomarini nucleari (2 americani e 3 russi) che già dormono negli abissi con i loro equipaggi” – conclude Bernardi. Recuperato il Kursk con i suoi misteri, la memoria dei 118 caduti del sottomarino nucleare, è affidata alla Fondazione (www.russialink.org.uk/kursk/index.htm) che aiuta le famiglie delle vittime a superare, non solo le difficoltà della vita quotidiana, ma anche il loro peggior incubo: l’amnesia sui fatti del sottomarino Kursh, ossia la perdita di memoria indotta dalle Autorità, ossia l’amnesia politicamente corretta e medicalmente assistita. Chi non ricorda la puntura di calmante somministrata a una familiare dei caduti del Kursk in diretta Tv? Fatti documentati nel reportage La tragedia del Kursk di Giovanni Minoli e nel libro K-141 La tragedia del Kursk, di Alessandro Turrini. Utili strumenti per fare luce sulle cause di uno dei disastri più controversi della marina militare moderna. Rivela Anna Maria Bracale Ceruti, autrice del poemetto L’affondamento del Kursk:“Ho scritto questo poemetto presa da profonda commozione e lo considero il mio omaggio ai 55 ufficiali e ai 63 marinai del Kursk; che fossero russi è stato assolutamente ininfluente. Mentre ascoltavo le notizie sull’affondamento del sottomarino avevo davanti a me il bellissimo mare di Sardegna, sinonimo di vacanza e gioia di vivere a contatto con l’acqua. Più stridente ancora, dunque, il contrasto con quell’avventura subacquea così tragica. La mia immaginazione, a poco a poco, ne è stata coinvolta: visioni oniriche e incubi notturni mi hanno indotta ad un progetto di poesia. Così ha preso forma questa composizione che va ad aggiungersi alla lunga serie di ‘poemi del mare’ già esistenti.  L’immaginazione è «tramite umano alla verità», scrive Ettore Campa nel suo libro intitolato Per l’altro mare aperto (p. 31). L’affermazione è opinabile, ma alla luce di quanto si è scoperto dopo il recupero del Kursk, posso dire di essermi molto accostata alla realtà dei fatti. È che la morte in acqua mi ha sempre terrorizzata, perché è orribile e perché mi è stata predetta. La morte in acqua salata è simbolo del battesimo dell’uomo. Il mare ha capacità metamorfiche, è elemento avvolgente che abbraccia la terra e la unisce al cielo quasi in un gesto di riconciliazione. Narrare di un evento accaduto in fondo al mare vuole dire collocarlo fuori dal tempo: privi di cielo e stelle / perso ogni orientamento…Cielo e stelle sono per eccellenza elementi di riferimento della nostra avventura terrena. Il fondo del mare è perciò luogo estremo dell’operare dell’uomo: là ogni regola di terra viene sospesa, annullata, inghiottita. Colui che opera nelle profondità marine è dotato di temerarietà, coraggio, capacità di attribuirsi psicologicamente una natura ‘altra’. Se il prezzo pagato è la vita è giusto conferirgli lo spessore del mito. Il Kursk medesimo affondato in periodo di pace, è divenuto un mito della nostra epoca. È bello pensare, anzi immaginare, che i suoi eroi, abbandonando il corpo, abito di scena, siano stati amorevolmente avvolti dall’aria e che il loro desiderio di andare per mare se lo siano portato in quel peregrinare eterno nell’oltre o al di là, così si spera, accompagnati dall’eco della poesia”. Scrive Massimo Alfano nelle sue Annotazioni sul Kursk:“La vicenda del sottomarino russo Kursk si presenta come uno dei più toccanti drammi del mare. Il manto di oscurità che ancora oggi copre le cause della sua perdita e le numerose ipotesi che sono state formulate per spiegarne la dinamica dell’avvenimento, nessuna delle quali pienamente provata, non fanno che aggiungere mistero ad una storia drammatica nel suo svolgersi e tragica nel suo epilogo”. Fin qui le ipotesi. Scrive Ivan Egorov della Rossiyskaya Gazeta su Russia Oggi il 18 Agosto 2010:“La stampa occidentale e quella russa parlano ancora della perdita del sottomarino nucleare e stanno mettendo una volta di più in discussione l’esito delle indagini ufficiali della Procura generale, che non ha trovato alcun colpevole. Naturalmente, le famiglie dei marinai morti non potranno mai accettare la perdita dei loro mariti, dei loro padri, dei loro figli”. Quali sono dunque i fatti incontrovertibili? “Il 10 Agosto 2000 il sottomarino Kursk a propulsione nucleare partì per un’esercitazione insieme alla Flotta russa del Nord. La mattina del 12 Agosto sparò un finto missile cruise Granit contro la flotta, guidata dalla portaerei Ammiraglio Kuznetsov e dal fiore all’occhiello della flotta, l’incrociatore nucleare Piotr Veliky (Pietro il Grande, ndt). Poche ore dopo il sottomarino avrebbe dovuto sconfiggere definitivamente il presunto avversario con finti siluri. Invece, all’ora prestabilita, al posto del fruscio di avvicinamento dei siluri, l’operatore addetto ai sensori acustici della Piotr Veliky registrò una forte esplosione, che provocò un violento scossone alla nave. Dopo aver avuto notizia dell’esplosione, il comandante della Petr Veliky, il Capitano di primo grado Vladimir Kassatonov, non le diede peso, e la giudicò insignificante. Il comandante della Flotta russa del Nord, Viaceslav Popov, anch’egli a bordo dell’incrociatore, chiese che cosa fosse successo e gli risposero:«Hanno acceso l’antenna del radar». In realtà, la turbolenza avvertita distintamente sull’incrociatore era dovuta alle esplosioni avvenute sulla Kursk, distante 40 chilometri dalla Petr Veliky”. Quali sono le versioni dell’accaduto? “Quella ufficiale si basa sull’esito delle indagini condotte dall’ufficio della Procura generale. Un siluro da addestramento, già inserito nel lanciasiluri e pronto a essere lanciato, è esploso. L’esplosione, avvenuta con una forza pari a 300 chili di Tnt, ha provocato la morte istantanea dell’intero equipaggio che si trovava nel primo compartimento del sottomarino. La lamiera del boccaporto del lanciamissili e la sua estremità sono stato scagliati alla velocità di 600-800 metri al secondo, distruggendo lungo la loro traiettoria tutto quello che hanno incontrato. Gli altri siluri sarebbero quindi esplosi dopo 136 secondi. Dopo queste esplosioni, l’equipaggio del sottomarino degli altri compartimenti è rimasto ucciso dall’onda d’urto dovuta alle esplosioni e per l’acqua che ha iniziato a penetrare nello scafo. Dobbiamo tenere presente che qualora una simile esplosione fosse avvenuta in aria, invece che in acqua, il cielo si sarebbe oscurato per una nuvola di fumo grande almeno quanto un campo da calcio. In questo caso, invece, l’onda d’urto provocata dall’esplosione è entrata nel sottomarino come uno stantuffo, squarciando il solido e resistente scafo come fosse un semplice foglio di carta”.
Ivan Egorov, autore di queste informazioni, ha iniziato a occuparsi della lunga sfilza di coincidenze che caratterizzano la distruzione del Kursk a partire da quando la notizia ufficiale è stata resa nota il 13 Agosto – quando si disse che “il sottomarino giaceva sul fondo del mare” – ed è andato avanti fino al momento in cui i resti del lanciamissili sono stati recuperati e portati nel bacino di Roslyakovo. “Per tutto questo tempo, ho aggiornato il sito web ufficiale Kursk.strana.ru, dove sono state pubblicate online le ultime informazioni sulle operazioni di salvataggio. In seguito, ho trascorso più di un anno mettendo per iscritto per un’altra pubblicazione l’esito delle indagini. Nel 2004 mi è giunta l’inattesa proposta di scrivere una sceneggiatura per girare un film sulla base del libro redatto dal procuratore generale Vladimir Ustinov, intitolato “Pravda o Kurske” (“La verità sul Kursk”). Quando ci siamo incontrati per la prima volta gli rivelai di non credere fino in fondo alla versione ufficiale degli eventi, quella secondo cui non vi era nessuno direttamente responsabile della catastrofe e gli dissi anche di credere che l’Ufficio del Procuratore Generale stesse nascondendo qualcosa. Artur Eguiev, investigatore capo dei casi più importanti dell’Ufficio principale del procuratore militare (GVP) non cercò assolutamente di convincermi del contrario, ma mi consegnò tutti i 118 faldoni di carte e un’altra ventina di file video con vari filmati, dicendomi che quello era l’esito dell’inchiesta, e che potevo studiarli a mio piacere e trarne le mie conclusioni. Ancora una volta mi sentii molto scettico: le carte avrebbero potuto essere state falsificate. Sì, ribatté Eguiev, avrebbero potuto esserlo, ma solo qualora se ne fosse incaricata un’unica persona. A quel caso, invece, aveva lavorato un gruppo di circa cinquanta investigatori; le ispezioni erano state portate avanti da centinaia di esperti di varie organizzazioni – dalle militari alle forensi alle civili – e circa mille testimoni erano stati convocati a deporre. Se qualcuno avesse mentito, insomma, prima o poi la verità sarebbe venuta a galla. Da allora in poi, mi sono recato al GVP tutti i giorni: ho letto tutti i documenti e i file, ho guardato i filmati, ho tratto le mie conclusioni. Per inciso, posso anche aggiungere che i file etichettati “coperti da segreto”, non erano in alcun caso collegati a qualche segreto inerente all’indagine, bensì a “ordinarie” informazioni navali relative ai dettagli dell’addestramento, che di norma è sempre etichettato “segreto”. In un primo tempo, è stato dato il via a una causa penale in base all’articolo sulla violazione delle regole della navigazione, che avevano provocato la collisione e la perdita di un sottomarino, ma alla fine di agosto era ormai evidente che la nave russa più vicina si trovava a 40 chilometri dal Kursk. Rimanevano da esaminare altre diciotto possibili versioni degli eventi, compresa quella per la quale un siluro era stato lanciato da una nave straniera, quella per la quale si era verificata una collisione con una nave straniera, e ancora un’altra, secondo la quale era esplosa una mina risalente ai tempi della Seconda guerra mondiale, e un’altra versione ancora secondo la quale a bordo si era creata una situazione di emergenza senza che nessuno l’avesse presa sul serio”. La variante privilegiata era quella “americana”? “Ad avvalorarla c’era il fatto che alcune settimane prima il Kursk era tornato da un’operazione militare eseguita nel Mar Mediterraneo. All’epoca la Nato stava conducendo la sua campagna di bombardamenti contro la Serbia. Non soltanto il Kursk aveva superato per ben due volte lo Stretto di Gibilterra senza essere intercettato, pur portando un’intera dotazione di armi anti-sottomarino – ma oltretutto era riuscito a monitorare la flotta di incrociatori americani, posizionandosi esattamente sotto la portaerei. Dopo questo episodio, alcuni comandanti della Marina americana erano stati destituiti dalle loro funzioni. Ciò – a detta di molti – aveva fatto del Kursk e del Comandante Lyachin una sorta di nemici personali della Marina degli Stati Uniti. Ed era quindi plausibile e logico presumere che sui russi fosse stata compiuta un’autentica vendetta”. Come risposero gli investigatori dell’Ufficio del Procuratore generale a questa versione dei fatti? “All’epoca, quando i corpi furono portati in superficie, furono recuperate anche grosse parti della prima sezione del sottomarino: in svariate tonnellate della carcasse non si trovò neppure una scheggia di materiale proveniente da una nave, un siluro o dell’esplosivo stranieri. Rimaneva quindi da controllare la possibilità di una collisione: il 18 Agosto in Norvegia emerse, con chiari segni di danni, il sottomarino americano Memphis. Il designer del Kursk, Igor Baranov, commentò che “quella possibilità era paragonabile alla collisione tra un Zaporozhets e un KAMAZ” (una “cinquecento” e un camion, ndr). In pratica il tonnellaggio del nostro sottomarino era il doppio di quello del sottomarino americano; in caso di collisione il Memphis non sarebbe stato danneggiato, ma sarebbe stato ridotto in briciole. Oltretutto, lo scafo del Kursk era stato progettato in modo tale da poter sostenere l’impatto di una piccola esplosione nucleare, per non parlare del lancio di un siluro normale. Quando il sottomarino è stato recuperato e riportato in superficie, tutti hanno potuto constatare l’evidente squarcio accanto alla quarta sezione. Ciò ha portato alla conclusione che proprio quello era il punto di impatto del siluro. Le indagini in seguito hanno appurato che non vi era un foro di uscita e che pertanto lo squarcio era da ritenersi l’esito di una forte esplosione, in seguito alla quale lo scafo antipressione si era letteralmente piegato a fisarmonica. A causa di questa deformazione dello scafo, il nostro mezzo di soccorso inviato da Rudnitsky non riuscì ad aderire perfettamente al boccaporto di emergenza del nono settore, continuando a ondeggiare nell’acqua tra il mare aperto e la cabina”. Per quanto concerne la versione secondo cui l’equipaggio della nona sezione è sopravvissuto per parecchi giorni e avrebbe potuto essere salvato, “gli inquirenti e gli esperti forensi hanno dato una risposta categorica: non sarebbe stato possibile salvarli in ogni modo. Dopo l’esplosione, erano rimasti vivi nella poppa del sottomarino 23 marinai. Li comandava il Tenente capitano Dmitry Lokesnikov. Insieme ad altri sopravvissuti egli prese la decisione di restare chiuso nel nono compartimento, che non aveva perso l’assetto, e di aspettare i soccorsi. «Pare che non abbiamo molte chance: circa il 10-20 per cento», scrisse al buio Dmitry Kolesnikov. L’ultimo suo appunto è datato 12 Agosto, alle ore 15.15, quattro ore appena dopo l’esplosione”. Perché non uscirono? “Gli inquirenti credono che molto verosimilmente non ebbero abbastanza tempo. Nel nono compartimento accadde un altro tragico evento: l’apparecchio di rigenerazione, che trasforma l’anidride carbonica in ossigeno, esplose non appena entrò in contatto con l’acqua. Ciò avvenne proprio nelle mani di Kolesnikov, che morì all’istante. Secondo gli esperti forensi, gli altri marinai sopravvissuti morirono pochi secondo dopo, per avvelenamento da anidride carbonica.
Nella causa penale erano riportate altre cose impossibili da falsificare”. Perché la boa d’emergenza e di segnalazione non era salita a galla, così da permettere un soccorso immediato al Kursk? “Come si è poi scoperto, la chiave di attivazione della boa, collocata in una delle postazioni interne del sottomarino, non solo era disattivata, ma addirittura non era mai stata installata. La maggior parte degli inquirenti riponeva grandi speranze per far luce sull’accaduto nei registri di bordo e nei libri di navigazione. I primi sono stati ritrovati, ma non vi è una singola parola sull’incidente. La cosiddetta “scatola nera” del Kursk è stata recuperata anch’essa, il distrutto registratore Snegir. Gli esperti hanno fatto l’impossibile e alla fine sono riusciti a ricostruire l’intero nastro, benché rimasto per un anno sott’acqua alla profondità di cento metri. Dall’ultima registrazione effettuata risulta il lancio avvenuto con successo del Granit, quindi il nastro riporta registrazioni di musica e suoni delle Orche Assassine, trasmessi nel sistema interno di comunicazione al posto delle registrazioni di tutti gli ordini impartiti a bordo, come avrebbe dovuto essere. Sono state così riscontrate molteplici violazioni, grandi e piccole, ma secondo gli inquirenti queste non avevano nulla a che vedere con il disastro e non lo hanno assolutamente determinato. Di conseguenza, nessuno ha incolpato l’equipaggio”. Qual è stata la causa determinante della tragedia sul Kursk? “Possiamo affermare con una certa sicurezza che è stata l’esplosione di un siluro da 650 millimetri oppure, volendo essere più precisi, di un tank ossidante”. Perché gli inquirenti sono così sicuri in proposito? “Perché sono stati recuperati alcuni frammenti della parte finale di questo letale siluro, come pure parti del tank ossidante lacerato nel quale si è verificata l’esplosione iniziale. L’istituto forense dell’Fsb nel corso di numerosi mesi ha condotto varie prove di esplosione. Un siluro di questo tipo è stato fatto cadere da una notevole altezza su alcune lastre di cemento, sotto le quali era stato acceso un fuoco. Vari chilogrammi di esplosivo sono stati collocati sotto il tank ossidante. I risultati raggiunti sono stati identici: non si è verificata nessuna esplosione. Gli esperti hanno concluso che il tank non avrebbe potuto essere colpito dall’esterno, e quindi hanno dedotto che l’esplosione poteva aver avuto luogo soltanto internamente. In ogni caso né gli inquirenti né gli esperti sono riusciti a dare una risposta alla domanda più importante: che cosa ha innescato l’esplosione? Si sono fatte varie supposizioni sull’eventualità di un errore umano: dal momento in cui si è immerso il Kursk non aveva utilizzato i siluri. È tuttavia davvero difficile ipotizzare che l’equipaggio abbia trascurato di controllare accuratamente un siluro imprevedibile e non abbia utilizzato il perossido d’idrogeno, specialmente perché a bordo vi era una divisione di specialisti di sottomarini della nave ammiraglia che conoscevano i siluri come il palmo delle loro mani. Forse, si è trattato di un difetto di fabbricazione. Forse qualcosa è andato storto durante la fase di caricamento del siluro”. Il mistero del sottomarino Kursk resterà insoluto nei fondali del Mare di Barents? Se l’ingresso della Santa Madre Russia nella Nato, non è più un paradosso strategico né uno scherzo della storia o del destino, bensì il giusto riconoscimento dell’Unione Europa a un passato glorioso che merita oggi la memoria e il rispetto di tutti, va anche detto che la straordinaria esperienza della marina russa si rivelerà davvero preziosa per un futuro di Pace mondiale. E non solo per il potenziale tecnologico ed umano che la Russia oggi è in grado di esprimere, davvero senza precedenti nella storia delle marine militari. Ma per il fondamentale contributo che, nel rispetto, nella memoria e nell’onore, dobbiamo alle 118 vittime del Kursk ed ai valori della difesa della Pace sulla Terra. Oggi la Dottrina della deterrenza nucleare è finita. Guai a noi se permetteremo a qualche pazzo di premere il bottone nucleare! Dobbiamo costruire un nuovo ordine mondiale, grazie alle migliori Democrazie, fondato non sull’impossibile disarmo unilaterale, bensì sul rispetto delle Leggi e della Vita di ogni persona, sull’uso del Diritto e non della Forza offensiva militare, “umanitaria” che dir si voglia. Oggi servono milioni di volontari del soccorso per le aree depresse del pianeta Terra. Non bombe. Il sottomarino Kursk porta il nome glorioso della cittadina dove nel 1943 si svolse una delle battaglie decisive della Seconda guerra mondiale: la battaglia di carri armati più imponente della Storia, con 3mila panzer tedeschi schierati contro 4mila mezzi corazzati sovietici. Ci siamo avvalsi della consultazione delle fonti più autorevoli in materia, per offrire al Lettore uno strumento di analisi e valutazione su una vicenda che, dopo la fine del Comunismo sovietico e della Guerra Fredda, pensavamo di aver consegnato definitivamente alla Storia.

© Nicola Facciolini

 

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