Sangue e follia

Anders Behring Breivik, il trentatreenne estremista di destra, autore il 22 luglio 2011 di un massacro costato la vita a 77 persone, è stato dichiarato sano di mente e condannato a 21 anni di reclusione: il massimo della pena in Norvegia, nazione in cui, se un condannato è ancora ritenuto pericoloso, vede allungarsi la detenzione […]

Anders Behring Breivik, il trentatreenne estremista di destra, autore il 22 luglio 2011 di un massacro costato la vita a 77 persone, è stato dichiarato sano di mente e condannato a 21 anni di reclusione: il massimo della pena in Norvegia, nazione in cui, se un condannato è ancora ritenuto pericoloso, vede allungarsi la detenzione praticamente sino all’infinito. Ma la cosa davvero particolare è considerare che il verdetto accoglie le richieste avanzate dallo stesso Breivik, durante il processo durato 10 settimane, sicché ora l’estremista ha già dichiarato che non intende ricorrere in appello, cosa che avrebbe fatto solo nel caso gli fosse stata riconosciuta l’infermità mentale che poteva comportare l’internamento a vita in un istituto psichiatrico. Nel giorno della sentenza Breivik si è presentato in aula facendo il saluto a braccio teso e dopo che gli agenti gli hanno tolto le manette, il giovane estremista ha portato il pugno chiuso sul cuore stendendo poi il braccio destro, in un saluto rituale del suo gruppo di estrema destra. Nel corso del processo, Breivik si era più volte presentato in aula con questo gesto, ma aveva poi smesso, dietro precisa richiesta dei familiari delle vittime che lo ritenevano offensivo. Di fatto con la sentenza, che in pratica gli prepara l’ergastolo, Breivik ha inteso presentarsi come una sorta di paladino della ideologia razzista e xenofoba, sempre più serpeggiante nei pur molto democratici paesi scandanivi. Dopo la condanna, prima di essere interrotto dalla giudice Wenche Elizabeth Arntzen, che gli ha fatto chiudere il microfono, Breivik che comunque ha definito la corte di Oslo ”illegittima”, ha detto, con uno sguardo delirante: “Vorrei concludere con una dichiarazione di scuse. Voglio chiedere scusa a tutti i militanti nazionalisti in Norvegia e in Europa per non essere riuscito a uccidere più gente”. Poche ore dopo (le nove del mattino, ora locale), ancora follia e sangue all’ombra dell’Empire State Building, l’edificio simbolo di New York, con una sparatoria che ha causato due morti e nove feriti, fra la 32° e la 34° strada a Manhattan, con un uomo di 53 anni , in giacca e cravatta, che ha ucciso in strada con un colpo di pistola in pieno volto il suo ex datore di lavoro, per poi sparargli un altro colpo, per poi dirigersi verso la Quinta Avenue, dove un operaio che era al lavoro lì vicino, allertato dagli spari, lo ha seguito e ha avvisato due agenti di polizia che erano come sempre di presidio davanti allo storico grattacielo. I due gli hanno intimato di fermarsi, ma il killer ha risposto alzando di nuovo la sua pistola: una micidiale Colt. 45. Gli agenti hanno aperto il fuoco e ne è nata una sparatoria, tra le urla di terrore di passanti e turisti. Nel giro di venti, trenta secondi, sull’asfalto sono rimasti l’assassino, morto, e nove persone ferite, fortunatamente non in maniera grave, colpite anche da proiettili della polizia. “Ci sono troppe pistole in circolazione”, ha detto il sindaco di New York, Michael Bloomberg, in una conferenza immediatamente organizzata con il capo della polizia ed aggiunto che “New York e’ una delle piu’ sicure tra le grandi città americane” aggiungendo però che non è certo immune “dal problema nazionale della violenza da armi da fuoco”. Un problema in poco più di un mese riesploso in Arizona ed a Houston, con il presidente Obama che ha detto che una delle priorità USA è “ridurre la violenza” e la facilità con cui sono acquistabili da parte di comuni cittadini armi da fuoco. In quella occasione (il discorso per illustrare le politiche tese ad aiutare i giovani ad avere un futuro migliore, tenuto a New Orleans a fine luglio), il presidente americano ha detto di “credere nel Secondo Emendamento ed esprime rispetto per la tradizione di possedere armi che è parte dell’eredità nazionale”. Ma poi aggiunto di credere, però “che i kalashnikov siano armi da far imbracciare ai soldati e non ai criminali, destinate ai campi di battaglia e non alle strade cittadine”. Il riferimento è al bando delle armi da guerra, che il Congresso fece decadere nel 2004 ed ha consentito anche al killer di Aurora di acquistare un mitragliatore AR-15 per fare strage alla prima di Batman. E sempre un fucile da guerra imbracciato da un ex militare in Afganistan ha causato, poco prima di ferragosto, la morte di tre persone a Houston e la carneficina con 7 morti nel tempio Sikh di Oak Creek, in Wisconsin. Come ha detto Alexander Still su Repubblica, in verità in America non c’è alcuna volontà politica di affrontare il problema e, dopo le recenti stragi, vari commentatori conservatori ci consolano dicendo che intanto le leggi che cercano di limitare l’accesso alle armi si sono rivelate pressoché inutili. Ma non è per niente così. Confrontando le statistiche più recenti, quelle del 2009, si vede che i morti ammazzati con armi da fuoco in Giappone sono stati 11; 18 nel Regno Unito; lo stesso numero in Fillandia; 33 in Olanda; 90 in Spagna 142 in Francia; dieci in più in Germania 173 in Canada, 246 in Italia e ben 9.146 negli Stati Uniti. Inoltre c’è il problema, ormai annoso, della facilità con cui la polizia USA spara ed uccide, caratteristica che, a mio modesto avviso, è il riflesso di una caratteristica tipica della popolazione americana e della sua storia. Solo nell’ultima settimana in un sobborgo di Los Angeles, Anaheim, la polizia ha ucciso due persone in seguito alla sommossa violenta scatenata dopo una riunione del consiglio comunale, mentre a New York, un uomo di colore., che ha agitato un coltello, è stato crivellato di colpi ed un altro, anche lui nero e con coltello, ucciso nel Michigan da sei agenti  con 46 colpi sparati in cinque secondi. E, per finire, sempre a New York, la polizia ha ucciso il cane di un senzatetto, probabilmente colpito da un attacco epilettico, che non faceva avvicinare gli agenti al padrone. Certamente Peter Singer è uno dei pensatori contemporanei più importanti nel campo dell’etica, definito “ il più influente filosofo vivente” con le sue tesi, sempre polemiche e al centro di dibattiti, ha incrinato le certezze morali dell’uomo occidentale e messo pericolosamente in crisi la “ vecchia etica”. Fra le tesi di Singer ne segnalo una, tardiva e centrale: “Tutti noi non siamo responsabili solo di quello che facciamo, ma anche di quello che avremo potuto impedire o che abbiamo deciso di non fare.” Tesi che ad una prima lettura non ha in sé nulla di sconvolgente o nuovo, anzi del tutto legata al senso comune, ma invece tale, se prendessero attentamente in considerazione le conclusioni a cui potrebbe portarci, da esprimere una nuova assunzione di responsabilità. ben oltre l’ipocrisia della vecchia etica derivante dalla tradizionale morale ebraico-cristiana. Così si comprende la frase finale che Cristopher Nolan mette in bocca al “bravo commissario” di “Il Cavaliere Oscuro. Il ritorno”, in cui si precisa la difficile differenza fra eroe meritato e necessario. Per meglio riflettere su questi temi, senza volersi cacciare in complessi e spesso astrusi studi filosofici o sociologici, meglio riguardarsi i tre capitoli della saga di Nolan su Batman, anti-eroe cui già Tim Burton aveva dato profondità psicologica, ma che con lui diventa uomo di questi tempi, con la complessità, l’incertezza e l’ambivalenza della natura umana, in cui non esiste una divisione netta fra bianco e nero, buoni e cattivi, dove tutto è messo in discussione ed il discrimine è la coscienza individuale, a patto da farla emergere e non precisarla nel baratro della paura, dove ogni altro è un nemico e ogni diverso uno minaccia da temere e, possibilmente, eliminare.

Carlo Di Stanislao

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