Venezia -1

Penultimo giorno per la Mostra del Cinema di Venezia, in una edizione priva di glamour ma ricca di vero cinema. Attesa per “Un giorno speciale” di Francesca Comencini e “Passion” di Brian di Palma, il primo che si evolve attorno ad una giornata particolare, quella che segna l’incontro tra due giovani sconosciuti e il secondo […]

Penultimo giorno per la Mostra del Cinema di Venezia, in una edizione priva di glamour ma ricca di vero cinema. Attesa per “Un giorno speciale” di Francesca Comencini e “Passion” di Brian di Palma, il primo che si evolve attorno ad una giornata particolare, quella che segna l’incontro tra due giovani sconosciuti e il secondo incentrato su un morboso rapporto fra due donne.

Nella sezione Orizzonti viene presentato “Three Sisters” del cinese (orientali vi sono anche senza Muller) Wang Bing, storia di tre sorelline che vivono in un villaggio rurale; l’iraniano “The Paternal House”, che si evolve su un delitto d’onore e dal modo in cui le varie generazioni di una famiglia si rapportano ad esso e il russo “Me Too, di Aleksey Balabanov, in cui quattro amici sfrecciano a tutta velocità alla ricerca della mitica “Campagna della felicità”.

Attendo con particolare fervore il ritorno al thriller erotico di Di Palma, dopo “Omicidio a luci rose” e “Femme fatale”,  con una attrazione sessuale ossessiva fra due businesswoman, nello  scenario spietato degli affari internazionali.

Ed attento trepidante l’esito del film della Comencini, autrice personale e spesso difficile, che racconta il primo giorno di lavoro di Gina e Marco; lei ha appuntamento con un politico importante che dovrebbe aiutarla ad entrare nel mondo dello spettacolo, lui è l’autista che l’accompagnerà all’incontro.

Non si conoscono ed in comune hanno solo la giovane età e la voglia di farcela a tutti i costi. Non si conoscono ma il politico, rinviando continuamente l’appuntamento, offre loro l’occasione di trascorrere insieme questo “giorno speciale”, di scoprirsi l’uno con l’altra e di ritrovare il valore delle loro giovani vite.

Gli interpreti, Giulia Valentini e Filippo Scicchitano, sono giovani e molto bravi e il film, a basso costo, è ispirato al romanzo di Claudio Bigagli “Il cielo con un dito”,  prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti e distribuito da Lucky Red.

Lo scorso anno, sempre a Venezia, la Comencini fu amata ed assieme aspramente criticata per “Quando la notte”, film sulla maternità con sentimenti esasperati sulle cosiddette “mamme cattive”, che si commenta bene con le parole della stessa autrice (anche del romanzo omonimo): “”Le donne sanno perfettamente cos’è in realtà la maternità, ma nessuno lo dice. Agli uomini fa schifo parlarne. E’ un sentimento fortissimo, che però ti strozza. Dietro il cappello dell’istinto materno, c’è il fatto che all’inizio essere mamma è un colpo. Pochi romanzi o film ne parlano. Mentre a  me piace raccontare l’ambivalenza dei sentimenti, la fatica della solitudine che è di entrambi i personaggi: perché non dobbiamo dimenticare il ruolo dell’uomo, che si mette tra la mamma e il bambino”.  Si disse che la Comencini voleva far leva sull’ancora fresco “caso Cogne” ed anche che le era sfuggita di mano la storia, con troppi sentimenti in ballo (la depressione legata alla maternità, il tema delle mamme cosiddette cattive, una storia d’amore tormentata e viscerale, il trauma dell’abbandono) ed una Pandolfi del tutto disorientata.

A me invece il film è piaciuto ed anche molto e il fatto che la stampa italiana lo abbia distrutto, mi ha fatto pensare ad una nostra attitudine a priori, che nel cinema è molto diffusa e di cui, sempre a Venezia 2011, fu vittima anche la Bellucci interprete di “Un été brûlant”: comunque criticare casa nostra.

Il film della Comencini, quello dello scorso anno intendo, è in realtà la storia di due persone alla deriva, che, con una rabbia e un desiderio mai provati prima, scopriranno la radice di un legame potente, ma  che non riusciranno a controllare né a vivere. Due “feriti a morte”, relitti che vagano in un mare di angoscia, senza uscita e senza speranza.

Tornando al Lido oggi, fuori concorso (ma da vedere assolutamente), il thriller tedesco “Forgotten”, di Alex Schmidt,  nel quale due donne che erano state molto amiche da bambine, si ritrovano da adulte a trascorrere qualche giorno di vacanza insieme, come ai vecchi tempi, ma si ritroveranno a confrontarsi con un misterioso episodio del loro passato e la verità che viene alla luce è molto più tremenda e orribile di quanto potessero immaginare.

Ieri è stata la volta di Redford, regista ed interprete del thriller politico (trhiller e donne sono i due temi di questa 69° Mostra) “The Company You Keep”, tratto  da un romanzo di Neil Gordon, altro grande del cinema, presentato fuori concorso e in cui si racconta la resa dei conti con la giustizia per un gruppo, i Weather Underground, che durante le proteste contro la guerra del Vietnam fece azioni di vero e proprio terrorismo. Un investigatore testardo, interpretato da Shia Labeouf, insegue un avvocato, lo stesso Redford,  finché non ne scopre la vera identità, di presunto terrorista politico.

E si è commentato che Redford è sempre più “red” e continua a replicare, ma con classe,  la medesima formula: opere civili che servano da metafora e rimando all’attualità, con vicende personali di dissenso e lotta contro il sistema.

Ma è così bravo, come interprete e regista, che lo spettatore, prima di accorgersi di stare sempre nello stesso film che dura da almeno quattro decenni, è già irrimediabilmente catturato dalla sua passione politica, dal suo coraggio radicale, dalla voglia di cambiare il mondo persino quando il protagonista è, come in questo caso,  disilluso dalla sua stessa lotta.

Insomma “The Company You Keep”, poteva stare in concorso, poiché, oltre ad un bel thriller, è anche una riflessione, quasi più europea che americana, sulla lotta armata.

Espressa in modo netto e radicale. Usando le parole del regista e attore, intervistato da Piera De Tassis nell’ambito della serie d’incontri chiamato “Storie dal futuro” nello spazio della Di Saronno al Festival, “la verità è che noi siamo privilegiati, abbiamo una libertà che molti popoli non anno e per cui abbiamo sempre il dovere di combattere, venendo esse costantemente minacciate. Per la guerra in Vietnam c’era la leva obbligatoria, molti erano costretti a impugnare armi e a uccidere, o essere uccisi, per qualcosa in cui non credevano. Esistono certe circostanze in cui bisogna combattere, opporsi alle ingiustizie”.

Strano che Obama, in cerca di supporter, non lo abbia impiegato a Charlotte. Se glie lo avesse chiesto ora Redford starebbe lì e non a guardare con occhi mesti il mesto mare di fine estate di Venezia.

E se fosse andato avrebbe dato più vigore alla Convention democratica, visto che non ha convinto la parte liberal americana e che, chiaramente, Obama non è più il rivoluzionario sognatore di ieri, anche se resta attento al cambiamento climatico, prevede un ruolo dello Stato e giura che metterà mano al deficit senza toccare i diritti delle persone.

Ma forse non basta per convincere tanti americani (anche quelli che da Tampa se ne stanno lontani), che sia sufficiente per altri quattro anni.

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