Afganistan: un altro soldato italiano morto in una guerra che non si vince

E siamo a cinquatadue: un numero piccolo se paragonato alle migliaia di morti americane, ma grande, grandissimo, per una Nazione che nella propria Costituzione ha rinunciato alla guerra. Oggi, alle 13,40 locali, nel distretto di Bakwa, nella provincia di Farah (a sud di Herat), nel corso di un’operazione congiunta con l’esercito afgano, un nostro blindato […]

E siamo a cinquatadue: un numero piccolo se paragonato alle migliaia di morti americane, ma grande, grandissimo, per una Nazione che nella propria Costituzione ha rinunciato alla guerra.
Oggi, alle 13,40 locali, nel distretto di Bakwa, nella provincia di Farah (a sud di Herat), nel corso di un’operazione congiunta con l’esercito afgano, un nostro blindato Lince è stato attaccato da forze ribelli, che hanno causato la morte di un militare ed il ferimento (pare lieve) di altri tre.
I militari italiani coinvolti nello scontro erano impegnati in un’attività di pattuglia nell’abitato del villaggio di Siav, a circa 20 km a ovest della base operativa avanzata “Lavaredo”, dove è attendata la Task Force South East , costituita dal 2° reggimento Alpini.
L’attacco è solo l’ultimo di una lunga serie di attentati alle forze occidentali nell’area dove, due giorni fa, due militari delle forze britanniche hanno subito un analogo attentato perdendo la vita.
In 11 anni di guerra sono morti circa 3.300 soldati e, di questi oltre 2 mila erano americani. Ora, gli esperti militari, ci dicono che tali numeri sono bassi per 11 anni di guerra, ma non raccontano che quella afgana è la più vile, la più codarda, la più sconcia della guerre, combattuta quasi esclusivamente con l’aviazione e, sempre più spesso, con i droni: aerei senza equipaggio, teleguidati da diecimila chilometri di distanza.
Come scrisse in una straordinaria lettera l’alpino Matteo Miotto due mesi prima di essere ucciso: “Questi popoli hanno saputo conservare le proprie radici, dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case, invano. L’essenza del popolo afghano è viva… È gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. E allora capisci che questo strano popolo ha qualcosa da insegnare anche a noi”.
E invece non abbiamo imparato nulla. Persino i sovietici, dopo dieci anni, capirono che non potevano piegare un popolo che, non è stato mai domato. E se ne andarono. Noi invece siamo ancora lì con la nostra l supponenza democratica e la nostra ignoranza, resa più cieca dalla paura.
Da tempo ormai, la politica ha smesso di dichiarare gli scopi e si limita a farli coincidere con ciò che è realizzabile sul campo, tanto per essere sicuri di cantare vittoria.
E’ successo con l’eliminazione di Osama bin Laden e di Mubarak: diventati obiettivi politici soltanto quando si era sicuri di farli fuori.
E’ successo in Libia dove l’azione politica non dirigeva, ma seguiva quella di una banda di sciagurati e delle milizie di Gheddafi e continua a succedere in Siria, in Sudan, nello Yemen e in tutti i posti dove si assiste imperterriti ai massacri solo per l’incapacità di assumere una qualsiasi responsabilità.
E ovunque, a partire dall’Afganistan, pochi uomini “assicurano” la ribellione, la tengono viva dimostrando potenza, controllo del territorio e iniziativa.
Mentre la risposta delle democrazie occidentali è sempre un fallimento militare, proprio perché è una reazione e non un’iniziativa autonoma e poi perché è titubante, incerta e al buio. Ed è anche un fallimento politico, poiché ipocritamente costruita su una retorica buonista o eroica.
Oggi, in Afghanistan e in ogni teatro operativo, stiamo tutti pagando una sola cosa: la senescenza dell’azione strategico-politica. E’ vecchia, stanca, senza idee per il futuro, senza priorità, senza credibilità. Si accontenta di qualche affaruccio per soddisfare la propria miopia. Campa alla giornata contando su quello che succede per amplificarlo o ignorarlo a seconda della convenienza ondivaga del momento. Ed intanto tanti giovani muoiono, nell’esercizio di un dovere, mosso da una politica cieca, ottusa ed incerta.
E viene in mente l’amara pellicola (del 2007) “Leoni per agnelli”, in cui Redford non racconta la guerra, ma censura certa politica che, da dietro comode scrivanie, lontana dai campi di battaglia, manda tanti a morire, per tornaconti più o meno meschini e personali.
Quel film sarebbe piaciuto a Mankiewicz, per l’importanza che attribuisce alla parola, alla dialettica e alla retorica; sicché il regista di Eva contro Eva, Giulio Cesare e Masquerade, avrebbe saputo apprezzare le sue idee, ricche di intelligenza e di lucidità.
Tre giorni fa, impegnato in una campagna elettorale difficile e senza esclusione di colpi, il Nobel per la pace Obama, ha ribadito di nuovo il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan nel 2014, ma non ha avuto il coraggio di dire che quello afgano è un disastro non inferiore, per portata, a quello vietnamita.
Per un po’ ho creduto alla retorica dei soldati caduti per una giusta causa, combattendo in una terra lontana per un sicurezza vicina, non solo per gli afghani, ma per l’incolumità di milioni di italiani che, se a Kabul tornasse ad aver sede la più stabile piattaforma della guerra globale, sarebbero esposti a rischi terribili ed incontrollabili.
Ma adesso tutto questo mi va stretto.
Adesso, come ha scritto una ragazza di soli 14 anni, Malala Yousafzai, una giovane studentessa della regione di Swat, al confine con l’Afghanistan, sul Corriere della Sera, brutalmente ferita dagli integralisti e poi scomparsa senza lasciare traccia, l’Afghanistan, come l’Iraq dimostrano che la “democrazia” non si esporta. O nasce ed è voluta fortemente dai popoli coinvolti, oppure questi non sapranno coltivarla, amministrarla e soprattutto difenderla. I Talebani riprenderanno il potere e tanta povera gente tornerà a conoscere l’integralismo islamico più ottuso e feroce, perché: “non possiamo cambiare il mondo, specie se il mondo non lo vuole”.

Come a suo tempo scrisse Massimo Fini in un libro scandalo sul Mullah Omar, non possiamo mai giudicare la cultura, le usanze, il credo degli altri, utilizzando i nostri parametri e pregiudizi.

Quando i talebani furono sconfitti a Swat, Malala fece ciò che molti adulti non ebbero il coraggio di fare: li criticò pubblicamente in tv. Di minacce ne ha ricevute molte, sperimentato le conseguenze dell’attivismo prima di quelle della pubertà.
Difese l’importanza dell’istruzione, della presa di coscienza attraverso la cultura e non la violenza ed ha costo della sua stessa incolumità, la cultura in cui crede.
“Malala” significa “addolorata”, ma è anche il nome di una guerriera pashtun del XIX secolo, una Giovanna D’Arco afghana che ispirò il popolo a combattere fino alla morte contro britannici e gli indiani “anziché vivere una vita nella vergogna”.
E “Malala” per la sua gente e per sé, vuole a tutti i costi una libertà riconosciuta e vera e non imposta, in nessun caso, con la forza.
Ed allora giustifico la morte di tanti giovani soldati, pensando che il loro sacrificio servirà non tanto a sgominare bande di terroristi la cui fortuna nasce dalla disgraziata condizione in cui versa la stragrande maggioranza dei propri connazionali, ma piuttosto per ricreare una cultura di consapevoli diritti e di libertà.

Primo illustre esponente della cultura afgana contemporanea può essere considerato Mahmud Tarzi (1865-1933), autore di vari saggi, poesie, diari di viaggio, in cui traspare tutt’altro che la violenta, vergonosa cultura talebana.
Sua nipote, la Principessa India d’Afghanistan, figlia del re Amanullah Khan, che governò il paese dal 1919 al 1929 portandolo all’indipendenza dalla Gran Bretagna, recentemente ha detto ai giornalisti, dal suo esilio trentennale in Europa, che oggi la donna afgana, che si era emancipata negli anni dal 1956 fino al ‘73, è tenuta in una condizione di assoluta sudditanza, in una nazione regredita nel suo complesso, ma che non potrà certo migliorare con guerre di occupazione.
Tornando ai caduti italiani, la maggioranza è rimasta vittima di attentati e scontri a fuoco, altri invece sono morti in incidenti, alcuni per malore ed uno si è suicidato. Il numero, lo abbiamo detto, è esiguo se paragonato ai 2.129 americani e ai 433 britannici, che comunque sono ancora pochi considerando che in Vietnam, in 10 anni, ne morirono 58.000.
Ma per nazioni che devono ancora “digerire” i morti in Iraq tra il 2003 e il 2010, un conflitto nel quale morirono anche 33 italiani, questi numeri appaiono esorbitanti.
Adesso, dopo 11 anni di inutile guerra, le perdite pesano come macigni in tutti i Paesi della Nato, al di là dei valori assoluti e le leadership occidentali si rivelano incapaci di motivare le rispettive opinioni pubbliche circa le ragioni per le quali occorre “morire per Kabul” e, per non perdere troppi consensi, sono costrette ad annunciare il ritiro dall’Afghanistan, persino mentre vi inviavano rinforzi, come fece Barack Obama due anni or sono.
Di contro, fa notare sul Sole 24 Ore Giannandrea Gaini, si valuta che in questi undici anni i talebani abbiano perduto in media 6mila combattenti all’anno senza mai parlare di resa o ritiro. Anzi, nelle ultime 24 ore hanno colpito duramente le forze alleate.
A Khost, lungo il confine col Pakistan un attacco kamikaze ha ucciso questa mattina 14 persone inclusi tre militari statunitensi e 4 poliziotti afghani.
Sempre i talebani hanno rivendicato l’attentato compiuto da un mujahid di nome Shohaib, proveniente da Kunduz e, ieri, altri due americani , un militare e un contractor, sono strati uccisi nel distretto di Wardak in uno scontro a fuoco con truppe afghane, portando a 53 il numero uccisi quest’anno in “insider attacks” dalle forze di Kabul.

Carlo Di Stanislao

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