Il Cavaliere e Monti dimezzati?

Berlusconi alla fine ha dovuto cedere e per accordarsi con la Lega si è dovuto riciclare come ministro della economia in un ipotetico governo guidato da Angelino Alfano. Secondo l’intesa firmata questa notte con la Lega , ha detto lo stesso Cavaliere, Maroni sarà candidato in Lombardia e l’ex premier sarà il leader della coalizione, […]

Berlusconi alla fine ha dovuto cedere e per accordarsi con la Lega si è dovuto riciclare come ministro della economia in un ipotetico governo guidato da Angelino Alfano.
Secondo l’intesa firmata questa notte con la Lega , ha detto lo stesso Cavaliere, Maroni sarà candidato in Lombardia e l’ex premier sarà il leader della coalizione, con il simbolo che indicherà Popolo della libertà e Berlusconi presidente. Ma poi, ad elezioni vinte (almeno come speranza), non sarà lui a guidare il governo, ma il segretario delfino, ora riportato nuovamente sugli altari.
E già vestendo i panni di nuovo ministro de l’economia, Berlusconi dichiara che il suo obiettivo sarà di “invertire totalmente la rotta da una politica economia recessiva di rigore e austerità a una di crescita ed espansione”.
“E’ difficilissimo, ci vuole capacità, esperienza e una maggioranza di un solo partito, senza dover rispondere a tanti partitini”, aggiunge e annuncia, tanto per togliere argomenti alla antipolitica del Movimento 5 Stelle, che i prossimi parlamentari dovranno votare una legge che dimezzi i loro stipendi, l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e un limite di due legislature.
Parlando della crisi economica in atto, il Cavaliere torna anche a spiegare che la politica di austerità del governo sta mangiando già due mensilità di una famiglia a basso reddito e “con i provvedimenti assunti per il 2013 ci saranno 1.000 euro in più da pagare con l’Imu che non verrà abrogata e gli aumenti delle tariffe, le accise sulla benzina, la luce e il gas”.
La cosa più importante, comunque, è il “dimezzamento” del Cavaliere, ostaggio della Lega ma necessitante di quel voto per limitare l’atteso trionfo del Pd.
Come scrive su Repubblica Ilvo Diamanti, se il Pdl e lo stesso Berlusconi non esercitassero, almeno, un potere di interferenza e di veto, in ambito parlamentare perderebbero anche il loro potere sul territorio. In altri termini perderebbero in modo disastroso.
Molto diversa è la posizione della Lega, per oltre dieci anni alleata fedele di Berlusconi ed oggi in grande difficoltà, dopo essere stata coinvolta in scandali che hanno investito i suoi gruppi dirigenti e, in primo luogo, la leadership di Umberto Bossi, insieme al “cerchio” stretto dei suoi fedeli (e dei suoi familiari). Con effetti pesanti sul piano elettorale. In poche settimane il peso elettorale leghista, stimato dai sondaggi, si è quasi dimezzato. Da oltre il 10% a meno del 5%.
Ed ora La Lega che aveva costruito il proprio consenso sul principio della “diversità” dagli altri partiti e dal “ceto politico” e che si era proposta e imposta come “alternativa”, alimentando e intercettato il clima antipolitico perché considerata, a sua volta, non un partito, ma un “anti-partito”, ha bisogno di riacquistare credibilità.
Insomma, Berlusconi ha bisogno del puntello leghista e La Lega di quello del Pdl, per questo scendono a reciproci compromessi.
Vincitore annunciato, con fin troppo anticipo, in queste elezioni è il Pd, , che comunque corre qualche rischio, soprattutto da Monti e dalle sue liste.
Sicché, Pdl e Lega, coltivano la speranza di contare, nel futuro Parlamento, grazie a un buon risultato almeno al Senato.
Per questo si è lavorato a marce forzate verso un accordo obbligato e che conviene a entrambi e soprattutto a lui, Berlusconi, che sebbene “dimezzato” rischia non solo di perdere le elezioni, ma, soprattutto, la dissoluzione del Pdl, il suo partito personale, che da solo e ridotto com’è, non ha chance di competere.
Spera, il Cavaliere, che pure strombazza che giungerà al 40%, un ritorno a casa di quella parte di moderati che delusi dal Pdl si sono orientati o verso la coalizione Monti o il Movimento 5 Stelle.
Soprattutto spera di convincere il suo vecchio elettorato che ha ragione la stampa inglese che, come si sa, fatica a seguire le barocche evoluzioni della politica italiana e a cui sfugge come un presidente del Consiglio tecnico si candidi senza candidarsi e formi una “entità politico-elettorale” (per dirla con Napolitano) che si rifà alla sua agenda, ma che mantiene, almeno alla Camera, una complicata alchimia di vecchi e nuovi simboli, liste civiche e liste di partito.
Proprio l’Economist, che aveva spinto SuperMario a scendere in campo, scrive che negli ultimi passaggi il professore ha combinato un mezzo pasticcio o un imbroglio (muddle, stesso termine usato qualche giorno prima dal Financial Times).
Non riuscendo evidentemente ad apprezzare la sublime e raffinata capacità italica di aggiustare, arrangiare, bilanciare o forse avendo ben capito quello che anche da noi si comincia a comprendere, e che qualcuno timidamente comincia a scrivere e cioè che la grande spinta innovativa del montismo rischia di impantanarsi nella snervante trattativa fra vecchie logiche di partito e interessi ben consolidati, con Montezemolo e Passera che si fanno un passo indietro per non cadere nella trappola del conflitto di interessi, ma anche con Casini che non ha alcuna voglia di farsi dettare la lista dei buoni e dei cattivi, né di sciogliere il suo partito se non dopo averne dimostrato il peso, anche nel nuovo polo centrista che uscirà dalle urne del 24 febbraio.
Il rischio è proprio questo, scrivono gli anglosassoni e da noi Articoli 21, che l’operazione Monti riesca a metà: partito con l’ambizione di archiviare Berlusconi e rifondare i moderati, col sostegno di una parte consistente delle gerarchie ecclesiastiche (non tutte, come si vede dai distinguo e dai silenzi di queste ore) , potrebbe ritrovarsi a capo di un “centrino”, come profetizza il Cavaliere, che avrebbe l’unica funzione di fare ruota di scorta a Bersani (spare wheel, scrive l’Economist), in caso di necessità.
Il finale del celebre romanzo di Calvino che parla di “dimezzamento”, è lieto e tale che le parti reciprocamente mancanti giungono riunite a sposare l’amata Pamela.
Vedremo il 24 ottobre come i due leader dimezzati, Berlusconi e Monti, sapranno risolvere la parte mancante della loro reciproca e avversa operazione e chi dei due conterà, con il Pd, nella composizione del Parlamento e del Governo.
Parlando del romanzo di Calvino, i critici hanno sempre e solo detto di una rappresentazione del Bene e del Male che, secondo loro, coesisterebbero in ogni essere umano e quindi anche in Medardo, il protagonista. A questi critici che scrivono ripetendo come pappagalli la dottrina cattolica che hanno appreso nelle sagrestie delle chiese “bisognerebbe strappare, ad uno ad uno, ogni ditino della mano con cui scrivono”, come diceva al suo uditorio Pietro il Rosso, l’orango protagonista de Una relazione per un’Accademia di Franz Kafka.
Ora sarà il caso di ricordare che le due categorie, il Bene ed il Male, sono sempre richiamate dai politici e da coloro che salgono o scendono in politica da altri lidi, imprenditoriali o accademici e tecnici.
Però lo fanno, costantemente, applicando le loro convinzioni ai due valori e decidendo, in base alle loro idee, ciò che è Bene o Male.
Per Passera è stato un male non proporre una lista unica riunita attorno a Monti ed è un bene che, dopo le elezioni, il centro collabori con il Pd, vincitore certo, per un programma volto a non aumentare le tasse, escludendo una nuova patrimoniale e alleggerendo il carico fiscale per le imprese che investono e assumono.
Per Monti, che comunque ammorbidisce ogni giorno la sua posizione, si può rivedere l’Iperf e varare un nuovo impiego de l’Imu, ma, comunque, occorre proseguire con una politica di rigore come previsto dalla finanza mondiale.
Per Berlusconi, invece, la finanza mondiale è germanizzata e va considerata il demonio, mentre occorre abbattere le tasse con entrate alternative da gioco, fumo e superalcolici.
Come si vede ciascuno ha la sua categoria di cose buone o cattive e c’è in più anche chi vede le cose in modo ancora diverso come, ad esempio Giuseppe Conti, il quale dice che l’era contemporanea, caratterizzata dalla globalizzazione, rischia di ricacciare la nostra economia in una situazione analoga a quella descritta nel ‘700 dal barone francese Montesquieu e ripresa da Keynes: quella di un piccolo Stato “martire della sovranità altrui”, cioè del potere delle grandi nazioni, con il prevalere della vecchia logica ritorsione delle formiche sulle cicale, con una Europa che non protegge i mercati né ci protegge dai mercati e il rischio che ognuno si ritrovi nel proprio caravanserraglio, senza una vera via d’uscita.
Dicono di averla trovata quelli di Ingroia e del movimento Arancione, una “rivoluzione civile” che metta al centro l’uomo e non l’economia.
Tornato a Roma dopo la parentesi guatemalteca (per indagare sul narcotraffico), Ingroia inizierà domani le trattative con la “cabina di regia” per le liste. Idv, Pdc, Prc e Verdi scelgono le rose dei nomi, con i segretari dei partiti mai capilista e con il grillino dissidente Giovanni Fava che sarebbe interessato.
Ma anche in questo caso Bene e Male sono categorie personali, altalenanti e incerte. Di Pietro, annunciando che non si candiderà capolista (del resto nessun leader di partito lo farà per richiesta di Ingroia) ha lanciato l’ennesima offerta di collaborazione a Bersani: “Mi auguro che il Pd abbia un ripensamento per fare squadra”. E se quella di Di Pietro è la solita tattica dello stop and go (nella dichiarazione successiva ha dato del bugiardo a Bersani), i verdi – che ieri hanno riunito il loro consiglio federale – invece lo dicono sul serio: “Una forte affermazione al senato della lista Ingroia è il vero voto utile per scongiurare alleanze dannose come quelle fra il Pd, Sel e Monti in caso di un risultato incerto”. Insomma, il Pd si potrebbe alleare con loro. Che non è precisamente quello che dice (almeno per ora) il programma del Prc.

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