Un tribunale speciale per i nostri marò

Sentenza salominica ma anche pilatiana quella emessa oggi dalla Corte Suprema di New Delhi, che, nel caso dei due marò italiani ha sentenziato che: “lo stato indiano del Kerala non aveva giurisdizione per intervenire nell’incidente che ha coinvolto i due maro’, perche’ lo stesso era avvenuto fuori dalle acque territoriali”; ma anche che i due […]

Sentenza salominica ma anche pilatiana quella emessa oggi dalla Corte Suprema di New Delhi, che, nel caso dei due marò italiani ha sentenziato che: “lo stato indiano del Kerala non aveva giurisdizione per intervenire nell’incidente che ha coinvolto i due maro’, perche’ lo stesso era avvenuto fuori dalle acque territoriali”; ma anche che i due nostri militari “non godevano di immunita’ sovrana” nella loro funzione di sicurezza sulla Enrica Lexie, il che avrebbe comportato automaticamente l’applicazione della giurisdizione italiana.
Si è pertanto decisa una via terza nel braccio di ferro fra lo stato di Kerala e la nostra Nazione, con istituzione di un tribunale speciale, trasferimento dei marò a New Delhi e libertà di movimento degli stessi per tutta l’India.
Il nuovo tribunale speciale sarà creato a New Delhi e dovrà giudicare il controverso caso, affrontando in una prima fase la questione della giurisdizione e quindi, se riconoscerà quella indiana, entrare nel merito del processo.
Come si ricorderà la vicenda, con momenti di grande tensione diplomatica fra Roma e il governo di New Delhi, ha avuto inizio il 15 febbraio dello scorso anno, con la petroliera italiana Enrica Lexie in navigazione al largo della costa del Kerala, nell’ India sud-occidentale, diretta verso l’Egitto. A bordo vi erano 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati: un rischio concreto, lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony, con a bordo 11 persone. Intorno alle 16.30 si verifica l’Enrica Lexie si convince di essere sotto un attacco pirata ed i marò sparano contro la St. Antony, uccidendo Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45), membri dell’equipaggio. La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano, sicché viene chiesto loro di attraccare nel vicino porto di Kochi.
La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani.
Il capitano – che essendo un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane. La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti. Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari non finiscano in un normale carcere ma siano tenuti in custodia presso una “guesthouse” della Cisf (Central Industrial Security Force), il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici.
Per il governo Monti, il caso dei due marò ha rappresentato il primo grosso banco di prova davanti alla comunità internazionale, “escludendo la missione impossibile di cancellare il ricordo dell’abbronzatura di Obama, della culona inchiavabile, del lettone di Putin, della nipote di Mubarak, dell’harem libico nel centro di Roma e tutto il resto del repertorio degli ultimi 20 anni”. Numerose le strumentalizzazioni
Margherita Boniver, senatrice Pdl, il 19 dicembre “riesce finalmente a fare notizia, offrendosi come ostaggio per permettere a Latorre e Girone di tornare in Italia per Natale”. La segue a ruota Ignazio La Russa, sempre Pdl, che il 21 dicembre annuncia di voler candidare i due marò nelle liste del suo nuovo partito, “Fratelli d’Italia”.
Sgombrato il campo da varie tesi fantastiche (ad esempio quella secondo cui non sono stati i marò a sparare, ma qualcun altro, a bordo di una seconda nave che incrociava nelle vicinanze), a inchiodare i militari italiani fu soprattutto la perizia balistica, che confermò che a sparare contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony.
Tratti in arresto, va comunque detto che i due militari del San Marco, in libertà condizionata dal mese di giugno, in India sono stati trattati col massimo riguardo, evitando sempre le terribile celle indiane, alloggiando in guesthouse o hotel per stranieri e forniti di permesso di due settimane, a Natale, per rientrare in Italia e rivedere, dopo dieci mesi comunque di restrizione in terra straniera, i loro cari.
Da noi, nel frattempo, si è scatenata una vera e propria propaganda spesso di marca sciovinista con lo tesso governo Monti che non è rimasto con le mani in mano, cercando in ogni modo di evitare la sentenza dei giudici indiani, ricorrendo anche all’intercessione della Chiesa. “Alcune iniziative discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana”, rivelava la stampa internazionale, raccontando come le autorità italiane abbiano coinvolto un prelato cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe di fede cattolica.
Va infine detto che, il 24 aprile, il governo italiano e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico extra-giudiziario: alle due famiglie, col consenso dell’Alta Corte del Kerala, vanno 10 milioni di rupie ciascuna, in totale quasi 300.000 euro e dopo la firma entrambe le famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa.
Ora toccherà al tribunale speciale istituito nella capitale indiana a districare l’intricata matassa.
Secondo la legge italiana ed i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale, i marò a bordo della Enrica Lexie devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati.
La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali. A livello internazionale vige la Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (SUA Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo) nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe dare ragione sia all’Italia sia all’India. Comunque andranno le cose, la sentenza che verrà emessa costituirà una pietra miliare del diritto marittimo internazionale.
Va qui notato, comunque, che in 11 mesi di copertura mediatica, la cronaca a macchie di leopardo di gran parte della stampa nazionale ha omesso dettagli significativi sul regime di detenzione dei marò, si è persa per strada alcuni passaggi della diplomazia italiana in India e ha glissato su una serie di comportamenti “al limite della legalità” che hanno contraddistinto gli sforzi ufficiali per “riportare a casa i nostri marò”.
Comunque, secondo vari esperti fra cui Carlo Jean di Edoardo Ferrazzani, diplomatico esperto di questioni indiane, lo stato italiano ha fatto bene a perseguire non già un rigido approccio giuridico, bensì uno più morbido di natura politico – diplomatico, tenendo conto anche delle difficoltà politiche indiane interne. Infatti, come noto, l’India è una federazione di 28 Stati i quali sono fortemente indipendenti dal centro e spesso anche il colore del governo locale è molto diverso da quello del centro, come accade in Kundera, dove il partito del Congresso è ancora al potere, ma, dopo le elezioni avvenute a marzo, subito dopo il fatto dei due marò, il partito nazionalista indù è in eccellente posizione di forza e in grande crescita.
Fatto importante, ma spesso trascurato in tutta questa incresciosa vicenda che ha portato alla morte di due poveracci e ridotto la libertà di due militari, resta il fatto che nell’Oceano Indiano ci sono le forze navali europee della EU Navfor, della Marina statunitense, cinese, indiana e addirittura sud coreana; eppure il fenomeno piratesco non accenna a diminuire.
Questo perché una sorveglianza marittima su un mare così vasto è quasi impossibile. Due dozzine di unità navali militari sono in condizione di fare ben poco. In più la strategia dei pirati è negli ultimi tempi cambiata: ormai utilizzano delle navi madri, che poi smistano i barchini che attaccano gli obiettivi. La verità è che bisognerebbe andare a colpire i pirati nei propri rifugi e basi a terra. Per il momento nessuno lo ha fatto, salvo gli americani che, pochi giorni dopo i fatti dell’Enrica Lexie, hanno mandato i Navy Seals a salvare un cittadino statunitense ed uno danese, in mano ai pirati, partendo da Gibouti.
C’è anche chi reclama l’applicazione del cosiddetto “metodo russo”, antipirateria: i pirati catturati non vengono imprigionati e prodotti davanti le autorità competenti, bensì abbandonati in mare.
E, pare, che gli attacchi alle navi russe siano diminuiti dalla sua applicazione. Tuttavia vi si obbietta che non si può applicare questo metodo , perché sarebbe rispondere a atto di pirateria con un atto di pirateria, cosa che è assolutamente da escludere da parte di una paese civile.
La pirateria, costa, secondo le stime più accurate, all’economia mondiale circa 7 miliardi di dollari all’anno. Di tale somma, solamente 160 milioni di dollari andrebbero in riscatti per le navi. Peraltrolao nel 2012 il numero di attacchi è diminuito sensibilmente, non tanto per il pattugliamento navale – doveroso nelle zone più pericolose del Golfo di Aden e delle Seychelles – quanto per l’adozione a bordo di misure di protezione passive e attive.
Per quanto riguarda quelle passive, per esempio sono state create delle plance blindate.
I pirati sarebbero sono dissuasi ad attaccare la plancia perché hanno bisogno di poter controllare la nave per poterla tenere in ostaggio.
Attaccando con esplosivi la plancia, c’è il rischio di rendere il naviglio ingovernabile.
Quanto a quelle attive, c’è ovviamente tenere personale militare a bordo o contractor forniti da compagnie private e con funzioni e ruoli molto spesso assimilabili a quelle di mercenari.

Carlo Di Stanislao

Una risposta a “Un tribunale speciale per i nostri marò”

  1. […] APPROFONDIMENTO: http://www.improntalaquila.org/2013/un-tribunale-speciale-per-i-nostri-maro-51805.html […]

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