Benedetto XVI il Papa della Fede nella Chiesa di Cristo per sempre

“È stato detto:‘Non metterai alla prova il Signore Dio tuo’”(Luca 4,12). Un ultimo bagno di folla per Papa Benedetto XVI (150mila fedeli in piazza San Pietro per la sua ultima Udienza Generale di Mercoledì 27 Febbraio 2013) prima di salire su un angolo del Monte Tabor come gli Apostoli ma, a differenza di loro, per […]

“È stato detto:‘Non metterai alla prova il Signore Dio tuo’”(Luca 4,12). Un ultimo bagno di folla per Papa Benedetto XVI (150mila fedeli in piazza San Pietro per la sua ultima Udienza Generale di Mercoledì 27 Febbraio 2013) prima di salire su un angolo del Monte Tabor come gli Apostoli ma, a differenza di loro, per rimanervi lontano dagli occhi del mondo, ogni giorno vicino al cuore della Chiesa, con le sue energie dedicate a servirla nell’umile preghiera a Dio. Perché il 28 Febbraio 2013 alle ore 20 la Cattedra di San Pietro sarà vacante. “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”. Con queste parole Papa Benedetto XVI ha annunciato, Lunedì 11 Febbraio 2013, in piena libertà, di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma. Un evento senza precedenti in epoca moderna, che rimarca la grande umiltà e libertà del Romano Pontefice. Benedetto XVI sarà ricordato come il Papa della Fede nella Chiesa di Cristo. Ieri, oggi e sempre. Il 265mo Sommo Pontefice di Santa Romana Apostolica Chiesa, Papa Ratzinger, nell’Anno fede ha alfabetizzato i credenti al mistero del Dio Nascosto che si rivela ai più piccoli. Il Santo Padre sale sul Monte del Signore nel silenzio della preghiera. La Madonna, la Madre di Dio, l’Immacolata Concezione che mette il freno alla vera Apocalisse, apparve a Lourdes a Santa Bernadette Soubirous, l’11 Febbraio 1858, per comunicare alla Chiesa il “placet” dell’Altissimo alla proclamazione del dogma “rivelato” qualche secolo prima a Duns Scoto. Il Papa non abbandona la Chiesa. Ogni giorno muoiono 19mila bambini sulla Terra, senza contare gli aborti. Credere che Dio stia alla “finestra” del Cielo soltanto a guardare questo immane olocausto di piccoli, è pura follia. Cristo agisce nella storia dell’umanità, grazie allo Spirito Santo, in “modi” inesprimibili. Anche in una Piazza San Pietro gremita per il saluto a Benedetto XVI. Arrivato a bordo della papa-mobile, il Papa ha offerto il suo commosso commiato ai fedeli accorsi per l’ultima Udienza Generale: decine di migliaia le persone sono venute a Roma da ogni parte del mondo per salutare il Sommo Pontefice. La papa-mobile più volte si è fermata quando dalla folla gli hanno avvicinato dei pargoli. Papa Ratzinger, grazie al “traghettatore” Mons. Georg Gaenswein, li ha presi in braccio per alcuni secondi, baciandoli paternamente sul capo e benedicendoli. La papa-mobile ha compiuto un ampio giro nel perimetro della piazza vaticana affollata di bandiere dell’Austria, del Portogallo, degli Usa, del Messico, della Polonia, dell’Egitto, della Cina, della Bolivia e della Germania. Il Santo Padre ha ringraziato tutti i convenuti a San Pietro, anche quelli collegati via internet e via tv grazie alla “buona stampa”, ringraziando “Dio, che guida e fa crescere la Chiesa. Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio, dove raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale. Tutto e tutti raccolgo nella preghiera per affidarli al Signore. In questo momento, c’è in me una grande fiducia” – ha dichiarato il Papa ripercorrendo con la memoria tutte le tappe del suo pontificato. Fin da quando, quel 19 Aprile 2005, ha accettato di assumere il ministero petrino. “Signore, che cosa mi chiedi?”, fu la domanda di Papa Ratzinger in quella occasione, “se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai. E il Signore mi ha veramente guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. È stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo – ha detto il Papa – che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua e non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore”. L’Altissimo non abbandona la Sua Chiesa. “Un Papa non è mai solo” – ha dichiarato il Sommo Pontefice ringraziando i Padri Cardinali, i suoi collaboratori, la Chiesa di Roma, i fratelli nell’episcopato e nel presbiterato, le persone consacrate e l’intero Popolo di Dio, tutti coloro che nelle ultime settimane hanno inviato lettere e messaggi semplici, grazie anche a internet, dai capi di Stato alle persone più umili. “Queste persone mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio”. Il Papa ha chiesto di ricordarlo davanti a Dio e di pregare per i Cardinali, chiamati al compito di eleggere il nuovo Papa, “e anche per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro”. È stato proprio il vicario del Papa a Roma, il cardinale Agostino Vallini a ribadire, ai microfoni della Radio Vaticana, tutta la vicinanza al Pontefice da parte della “sua” Diocesi. “Non potevamo fare diversamente, è un’esigenza del cuore e della fede – ha spiegato il porporato – non dimentichiamo che il Santo Padre è il Vescovo di questa Diocesi. Roma vuole molto bene al Papa, sente verso di lui un trasporto particolare così che, certo, all’ultimo atto pubblico non poteva mancare”. Il cardinale Vallini, parlando della “scelta” del Pontefice, ha ricordato che “ci ha lasciato un po’ sgomenti tutti e non solo nella Chiesa. Ma riflettendo, a distanza anche di poche ore, si è capita la grande portata di questa scelta, dettata certo dalla rettitudine e dalla grande fede di Papa Benedetto che, con il crescere dell’età e guardando alle esigenze della Chiesa, ha ritenuto di prendere una decisione assolutamente nuova. Lui, però, non va via dalla Chiesa, lui rimane, prega e continua ad esercitare la sua funzione di Pastore orante”. Dichiara il Santo Padre: “Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato! Distinte Autorità! Cari fratelli e sorelle! Vi ringrazio di essere venuti così numerosi a questa ultima Udienza generale del mio pontificato. Come l’apostolo Paolo nel testo biblico che abbiamo ascoltato, anch’io sento nel mio cuore di dover soprattutto ringraziare Dio, che guida e fa crescere la Chiesa, che semina la sua Parola e così alimenta la fede nel suo Popolo. In questo momento il mio animo si allarga per di abbracciare tutta la Chiesa sparsa nel mondo; e rendo grazie a Dio per le «notizie» che in questi anni del ministero petrino ho potuto ricevere circa la fede nel Signore Gesù Cristo, e della carità che circola nel Corpo della Chiesa e lo fa vivere nell’amore, e della speranza che ci apre e ci orienta verso la vita in pienezza, verso la patria del Cielo. Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio, dove raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale. Tutto e tutti raccolgo nella preghiera per affidarli al Signore: perché abbiamo piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, e perché possiamo comportarci in maniera degna di Lui, del suo amore, portando frutto in ogni opera buona (cfr Col 1,9-10). In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita. Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e vive nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia. Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto ferma questa certezza che mi ha sempre accompagnato. In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, che cosa mi chiedi? E’ un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai. E il Signore mi ha veramente guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. E’ stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua e non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore. Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: «Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio d’avermi creato, fatto cristiano…». Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo! Ma non è solamente Dio che voglio ringraziare in questo momento. Un Papa non è solo nella guida della barca di Pietro, anche se è sua la prima responsabilità; e io non mi sono mai sentito solo nel portare la gioia e il peso del ministero petrino; il Signore mi ha messo accanto tante persone che, con generosità e amore a Dio e alla Chiesa, mi hanno aiutato e mi sono state vicine. Anzitutto voi, cari Fratelli Cardinali: la vostra saggezza, i vostri consigli, la vostra amicizia sono stati per me preziosi; i miei Collaboratori, ad iniziare dal mio Segretario di Stato che mi ha accompagnato con fedeltà in questi anni; la Segreteria di Stato e l’intera Curia Romana, come pure tutti coloro che, nei vari settori, prestano il loro servizio alla Santa Sede: sono tanti volti che non emergono, rimangono nell’ombra, ma proprio nel silenzio, nella dedizione quotidiana, con spirito di fede e umiltà sono stati per me un sostegno sicuro e affidabile. Un pensiero speciale alla Chiesa di Roma, la mia Diocesi! Non posso dimenticare i Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, le persone consacrate e l’intero Popolo di Dio: nelle visite pastorali, negli incontri, nelle udienze, nei viaggi, ho sempre percepito grande attenzione e profondo affetto; ma anch’io ho voluto bene a tutti e a ciascuno, senza distinzioni, con quella carità pastorale che è il cuore di ogni Pastore, soprattutto del Vescovo di Roma, del Successore dell’Apostolo Pietro. Ogni giorno ho portato ciascuno di voi nella mia preghiera, con il cuore di padre. Vorrei che il mio saluto e il mio ringraziamento giungesse poi a tutti: il cuore di un Papa si allarga al mondo intero. E vorrei esprimere la mia gratitudine al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, che rende presente la grande famiglia delle Nazioni. Qui penso anche a tutti coloro che lavorano per una buona comunicazione e che ringrazio per il loro importante servizio. A questo punto vorrei ringraziare di vero cuore anche tutte le numerose persone in tutto il mondo che nelle ultime settimane mi hanno inviato segni commoventi di attenzione, di amicizia e di preghiera. Sì, il Papa non è mai solo, ora lo sperimento ancora una volta in un modo così grande che tocca il cuore. Il Papa appartiene a tutti e tantissime persone si sentono molto vicine a lui. E’ vero che ricevo lettere dai grandi del mondo – dai Capi di Stato, dai Capi religiosi, dai rappresentanti del mondo della cultura eccetera. Ma ricevo anche moltissime lettere da persone semplici che mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto, che nasce dall’essere insieme con Cristo Gesù, nella Chiesa. Queste persone non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce. Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, non un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti. Sperimentare la Chiesa in questo modo e poter quasi poter toccare con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo in cui tanti parlano del suo declino. In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi. Qui permettetemi di tornare ancora una volta al 19 aprile 2005. La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. Ho potuto sperimentare, e lo sperimento precisamente ora, che uno riceve la vita proprio quando la dona. Prima ho detto che molte persone che amano il Signore amano anche il Successore di san Pietro e sono affezionate a lui; che il Papa ha veramente fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il mondo, e che si sente al sicuro nell’abbraccio della loro comunione; perché non appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui. Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio. Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui avete accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accompagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione, con quella dedizione al Signore e alla sua Sposa che ho cercato di vivere fino ad ora ogni giorno e che voglio vivere sempre. Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito. Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria Madre di Dio e della Chiesa perché accompagni ciascuno di noi e l’intera comunità ecclesiale; a Lei ci affidiamo, con profonda fiducia. Cari amici! Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che è l’unica vera visione del cammino della Chiesa e del mondo. Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore. Grazie!”. Nei giorni scorsi Benedetto XVI ha ringraziato i Monasteri di vita contemplativa di tutto il mondo per la preghiera che stanno elevando in questo momento particolare della vita della Chiesa. “Tutta la Chiesa – scrive il cardinale Bertone – segue con trepidazione le ultime ore del luminoso pontificato” di Benedetto XVI e attende la venuta del suo Successore che i Cardinali riuniti in Conclave, “guidati dall’azione dello Spirito Santo, sceglieranno, dopo aver scrutato insieme i segni dei tempi della Chiesa e del mondo”. Il porporato rilancia il “pressante” appello alla preghiera rivolto a tutti i fedeli dal Papa “per chiedere di accompagnarlo nel momento della consegna del ministero petrino nelle mani del Signore, e di attendere fiduciosi la venuta del nuovo Pontefice”. Un appello che Benedetto XVI rivolge in modo particolare ai contemplativi, religiosi e laici. “È da voi, dai vostri Monasteri femminili e maschili disseminati in tutto il mondo – rivela il cardinale Bertone – che il Papa “è certo di poter attingere la preziosa risorsa di quella fede orante che nei secoli accompagna e sostiene il cammino della Chiesa. Il prossimo Conclave – sottolinea il porporato – potrà così poggiare, in modo speciale, sulla limpida purezza della vostra preghiera e della vostra lode”. Per il cardinale Bertone “l’esempio più significativo di questa elevazione spirituale, che manifesta la dimensione più vera e profonda di ogni atto ecclesiale, quella dello Spirito Santo che guida la Chiesa”, ci è offerto dallo stesso “Benedetto XVI che, dopo aver governato la Barca di Pietro tra i flutti della storia, ha scelto di dedicarsi soprattutto alla preghiera, alla contemplazione dell’Altissimo ed alla riflessione”. Il Papa ringrazia i contemplativi, ribadendo “quanto amore e considerazione” nutra nei loro confronti. “Non dimenticarlo mai! La Chiesa ci ha generati alla vita dei figli di Dio al fonte battesimale e ci sostiene continuamente col sacrificio, i sacramenti e la Parola. Non potrai mai avere Dio come Padre se non accetti la Chiesa come Madre” – afferma San Cipriano. “Gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse:«Che cosa vuoi?». Gli rispose:«Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno»”(Mt 20,20-21). Papa Benedetto XVI insegna a vivere la Quaresima in comunione ecclesiale superando individualismi e rivalità. Nella Città del Vaticano, il 13 Febbraio 2013 alle ore 17, il Santo Padre ha presieduto il rito della benedizione e imposizione delle ceneri che, seguendo la tradizione, si sarebbe dovuto celebrare nella basilica romana di Santa Sabina, ma – per la grande affluenza di persone ed il desiderio dei Cardinali e Vescovi della Curia romana di accompagnare il Papa nelle ultime cerimonie del suo pontificato – si è tenuta nella Basilica di San Pietro. Nell’omelia il Santo Padre ha dichiarato: “Oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo un nuovo cammino quaresimale, un cammino che si snoda per quaranta giorni e ci conduce alla gioia della Pasqua del Signore, alla vittoria della Vita sulla morte. Seguendo l’antichissima tradizione romana delle stationes quaresimali, ci siamo radunati oggi per la Celebrazione dell’Eucaristia. Tale tradizione prevede che la prima statio abbia luogo nella Basilica di Santa Sabina sul colle Aventino. Le circostanze hanno suggerito di radunarsi nella Basilica Vaticana. Siamo numerosi intorno alla Tomba dell’Apostolo Pietro anche a chiedere la sua intercessione per il cammino della Chiesa in questo particolare momento, rinnovando la nostra fede nel Pastore Supremo, Cristo Signore. Per me è un’occasione propizia per ringraziare tutti, specialmente i fedeli della Diocesi di Roma, mentre mi accingo a concludere il ministero petrino, e per chiedere un particolare ricordo nella preghiera. Le Letture che sono state proclamate ci offrono spunti che, con la grazia di Dio, siamo chiamati a far diventare atteggiamenti e comportamenti concreti in questa Quaresima. La Chiesa ci ripropone, anzitutto, il forte richiamo che il profeta Gioele rivolge al popolo di Israele: «Così dice il Signore: ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti» (2,12). Va sottolineata l’espressione «con tutto il cuore», che significa dal centro dei nostri pensieri e sentimenti, dalle radici delle nostre decisioni, scelte e azioni, con un gesto di totale e radicale libertà. Ma è possibile questo ritorno a Dio? Sì, perché c’è una forza che non risiede nel nostro cuore, ma che si sprigiona dal cuore stesso di Dio. E’ la forza della sua misericordia. Dice ancora il profeta: «Ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male» (v.13). Il ritorno al Signore è possibile come ‘grazia’, perché è opera di Dio e frutto della fede che noi riponiamo nella sua misericordia. Questo ritornare a Dio diventa realtà concreta nella nostra vita solo quando la grazia del Signore penetra nell’intimo e lo scuote donandoci la forza di «lacerare il cuore». E’ ancora il profeta a far risuonare da parte di Dio queste parole: «Laceratevi il cuore e non le vesti» (v.13). In effetti, anche ai nostri giorni, molti sono pronti a “stracciarsi le vesti” di fronte a scandali e ingiustizie – naturalmente commessi da altri –, ma pochi sembrano disponibili ad agire sul proprio “cuore”, sulla propria coscienza e sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta. Quel «ritornate a me con tutto il cuore», poi, è un richiamo che coinvolge non solo il singolo, ma la comunità. Abbiamo ascoltato sempre nella prima Lettura: «Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra. Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo» (vv.15-16). La dimensione comunitaria è un elemento essenziale nella fede e nella vita cristiana. Cristo è venuto «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (cfr Gv 11,52). Il “Noi” della Chiesa è la comunità in cui Gesù ci riunisce insieme (cfr Gv 12,32): la fede è necessariamente ecclesiale. E questo è importante ricordarlo e viverlo in questo Tempo della Quaresima: ognuno sia consapevole che il cammino penitenziale non lo affronta da solo, ma insieme con tanti fratelli e sorelle, nella Chiesa. Il profeta, infine, si sofferma sulla preghiera dei sacerdoti, i quali, con le lacrime agli occhi, si rivolgono a Dio dicendo: «Non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti. Perché si dovrebbe dire fra i popoli: “Dov’è il loro Dio?”» (v.17). Questa preghiera ci fa riflettere sull’importanza della testimonianza di fede e di vita cristiana di ciascuno di noi e delle nostre comunità per manifestare il volto della Chiesa e come questo volto venga, a volte, deturpato. Penso in particolare alle colpe contro l’unità della Chiesa, alle divisioni nel corpo ecclesiale. Vivere la Quaresima in una più intensa ed evidente comunione ecclesiale, superando individualismi e rivalità, è un segno umile e prezioso per coloro che sono lontani dalla fede o indifferenti. «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,2). Le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto risuonano anche per noi con un’urgenza che non ammette assenze o inerzie. Il termine “ora” ripetuto più volte dice che questo momento non può essere lasciato sfuggire, esso viene offerto a noi come un’occasione unica e irripetibile. E lo sguardo dell’Apostolo si concentra sulla condivisione con cui Cristo ha voluto caratterizzare la sua esistenza, assumendo tutto l’umano fino a farsi carico dello stesso peccato degli uomini. La frase di san Paolo è molto forte: Dio «lo fece peccato in nostro favore». Gesù, l’innocente, il Santo, «Colui che non aveva conosciuto peccato» (2 Cor 5,21), si fa carico del peso del peccato condividendone con l’umanità l’esito della morte, e della morte di croce. La riconciliazione che ci viene offerta ha avuto un prezzo altissimo, quello della croce innalzata sul Golgota, su cui è stato appeso il Figlio di Dio fatto uomo. In questa immersione di Dio nella sofferenza umana e nell’abisso del male sta la radice della nostra giustificazione. Il «ritornare a Dio con tutto il cuore» nel nostro cammino quaresimale passa attraverso la Croce, il seguire Cristo sulla strada che conduce al Calvario, al dono totale di sé. E’ un cammino in cui imparare ogni giorno ad uscire sempre più dal nostro egoismo e dalle nostre chiusure, per fare spazio a Dio che apre e trasforma il cuore. E san Paolo ricorda come l’annuncio della Croce risuoni a noi grazie alla predicazione della Parola, di cui l’Apostolo stesso è ambasciatore; un richiamo per noi affinché questo cammino quaresimale sia caratterizzato da un ascolto più attento e assiduo della Parola di Dio, luce che illumina i nostri passi. Nella pagina del Vangelo di Matteo, che appartiene al cosiddetto Discorso della montagna, Gesù fa riferimento a tre pratiche fondamentali previste dalla Legge mosaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno; sono anche indicazioni tradizionali nel cammino quaresimale per rispondere all’invito di «ritornare a Dio con tutto il cuore». Ma Gesù sottolinea come sia la qualità e la verità del rapporto con Dio ciò che qualifica l’autenticità di ogni gesto religioso. Per questo Egli denuncia l’ipocrisia religiosa, il comportamento che vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso e l’approvazione. Il vero discepolo non serve se stesso o il “pubblico”, ma il suo Signore, nella semplicità e nella generosità: «E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4.6.18). La nostra testimonianza allora sarà sempre più incisiva quanto meno cercheremo la nostra gloria e saremo consapevoli che la ricompensa del giusto è Dio stesso, l’essere uniti a Lui, quaggiù, nel cammino della fede, e, al termine della vita, nella pace e nella luce dell’incontro faccia a faccia con Lui per sempre (cfr 1 Cor 13,12). Cari fratelli e sorelle, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale. Risuoni forte in noi l’invito alla conversione, a «ritornare a Dio con tutto il cuore», accogliendo la sua grazia che ci fa uomini nuovi, con quella sorprendente novità che è partecipazione alla vita stessa di Gesù. Nessuno di noi, dunque, sia sordo a questo appello, che ci viene rivolto anche nell’austero rito, così semplice e insieme così suggestivo, dell’imposizione delle ceneri, che tra poco compiremo. Ci accompagni in questo tempo la Vergine Maria, Madre della Chiesa e modello di ogni autentico discepolo del Signore. Amen!”. Dopo la cerimonia il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, ha rivolto un breve saluto al Pontefice, dichiarando: “Beatissimo Padre, con sentimenti di grande commozione e di profondo rispetto non solo la Chiesa, ma tutto il mondo, hanno appreso la notizia della Sua decisione di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore dell’Apostolo Pietro. Non saremmo sinceri, Santità, se non Le dicessimo che questa sera c’è un velo di tristezza sul nostro cuore. In questi anni, il suo Magistero è stato una finestra aperta sulla Chiesa e sul mondo, che ha fatto filtrare i raggi della verità e dell’amore di Dio, per dare luce e calore al nostro cammino, anche e soprattutto nei momenti in cui le nubi si addensano nel cielo. Tutti noi abbiamo compreso che è proprio l’amore profondo che Vostra Santità ha per Dio e per la Chiesa che L’ha spinta a questo atto, rivelando quella purezza d’animo, quella fede robusta ed esigente, quella forza dell’umiltà e della mitezza, assieme ad un grande coraggio, che hanno contraddistinto ogni passo della Sua vita e del Suo ministero, e che possono venire solamente dallo stare con Dio, dallo stare alla luce della parola di Dio, dal salire continuamente la montagna dell’incontro con Lui per poi ridiscendere nella Città degli uomini. Santo Padre, pochi giorni fa con i Seminaristi della sua diocesi di Roma, Ella ci ha dato una speciale lezione, ha detto che essendo cristiani sappiamo che il futuro è nostro, il futuro è di Dio, e che l’albero della Chiesa cresce sempre di nuovo. La Chiesa si rinnova sempre, rinasce sempre. Servire la Chiesa nella ferma consapevolezza che non è nostra, ma di Dio, che non siamo noi a costruirla, ma è Lui; poter dire noi con verità la parola evangelica: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10), confidando totalmente nel Signore, è un grande insegnamento che Ella, anche con questa sofferta decisione, dona non solo a noi, Pastori della Chiesa, ma all’intero Popolo di Dio. L’Eucaristia è un rendere grazie a Dio. Questa sera noi vogliamo ringraziare il Signore per il cammino che tutta la Chiesa ha fatto sotto la guida di Vostra Santità e vogliamo dirLe dal più intimo del nostro cuore, con grande affetto, commozione e ammirazione: grazie per averci dato il luminoso esempio di semplice e umile lavoratore della vigna del Signore, un lavoratore, però, che ha saputo in ogni momento realizzare ciò che è più importante: portare Dio agli uomini e portare gli uomini a Dio. Grazie!”. Il 14 Febbraio 2013 nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre ha incontrato i parroci e il clero della Diocesi di Roma, accompagnati dal Cardinale Vicario Agostino Vallini e dai Vescovi Ausiliari. Benedetto XVI, accolto sulle note del canto “Tu es Petrus”, ha dichiarato: “Eminenza, cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, è per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. E’ sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. E’ un clero realmente cattolico, universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità, la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere la città dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire per il lavoro nella vigna del Signore. Oggi avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’Apostolo al quale il Signore ha detto: “A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa” (cfr Mt 16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt 16,15-16). Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito – l’ho detto mercoledì – quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto. Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto. Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale Frings. Il Cardinale Siri, di Genova – mi sembra nel ’61 – aveva organizzato una serie di conferenze di diversi Cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’Arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero moderno. Il Cardinale mi ha invitato – il più giovane dei professori – a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: “Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”. Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo – mi pare nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio. Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse – non so se sia vero – che avessero letto i testi preparati, nella Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi siamo Vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo. Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo – si cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari. Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al “Collegio dell’Anima”, dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto, abbiamo visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di mons. Etchegaray, che era Segretario della Conferenza Episcopale Francese, degli incontri con Cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente del Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro. Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta “alleanza renana”. E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice – apparentemente semplice – intenzione era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo. Cominciamo con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia. Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali. Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della Creazione, è l’inizio della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della Creazione, noi stiamo sul fondamento della Creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio. Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo. Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato – che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente – era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’era questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: “Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa”, e un vescovo protestante parlava del “secolo della Chiesa”. Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale – anche questo -, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano I. Direi che la discussione teologica degli anni ’30-’40, anche ’20, era completamente sotto questo segno della parola “Mystici Corporis”. Fu una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero “noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi siamo Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola “collegialità”, molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola – forse ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa – per esprimere che i Vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo. Questi erano, diciamo, i due elementi fondamentali e, nella ricerca di una visione teologica completa dell’ecclesiologia, nel frattempo, dopo gli anni ’40, negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: “mistico” sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di “Popolo di Dio”. E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento, che nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola “Laos tou Theou”, corrispondente ai testi dell’Antico Testamento, significa – mi sembra con solo due eccezioni – l’antico Popolo di Dio, gli ebrei che, tra i popoli, “goim”, del mondo, sono “il” Popolo di Dio. E gli altri, noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo figli di Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo, che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto “Popolo di Dio” implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l’elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo. Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio Trinitario – che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e nella vita della Chiesa. Ancora più conflittuale era il problema della Rivelazione. Qui si trattava della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un po’ – diciamo – in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po’ “handicappati” dalla necessità di sottomettersi al Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta: quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che cosa vuol dire Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che adesso non posso mostrare, ma importante è che certamente la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura. E tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima chiarezza. Qui, la battaglia – come ho detto – era difficile, e fu decisivo un intervento di Papa Paolo VI. Questo intervento mostra tutta la delicatezza del padre, la sua responsabilità per l’andamento del Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata l’idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire. Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio mi sembra 14 formule di una frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava, dava ai Padri, la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della formula “non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura”, cioè la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella Commissione dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per mostrare l’indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata. Già il fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la Scrittura risulta dall’illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé questo Canone della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte. Come ho detto, questa era una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e grazie – diciamo – alla luce dello Spirito Santo, che era presente nel Concilio, è stato creato un documento che è uno dei più belli e anche innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto più studiato. Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico, metodo importante, ma mai così da poter dare soluzioni come ultima certezza; solo se crediamo che queste non sono parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra Scrittura. E qui – come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù (cfr vol. I) – c’è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura veramente nello spirito del Concilio. Qui l’applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare. E, infine, l’ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma era ovvio – soprattutto dopo le “passioni” dei cristiani nel tempo del nazismo – che i cristiani potessero trovare l’unità, almeno cercare l’unità, ma era chiaro anche che solo Dio può dare l’unità. E siamo ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l’”alleanza renana” – per così dire – aveva fatto il suo lavoro. La seconda parte del Concilio è molto più ampia. Appariva, con grande urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna, e Chiesa; e con esso i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre religioni. In questo momento, sono entrate in discussione realmente tutte le parti del Concilio, non solo l’America, gli Stati Uniti, con un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi hanno detto al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza e la decisione, la pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del Concilio. Dico: non solo gli americani sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio, ma anche l’America Latina, sapendo bene della miseria del popolo, di un continente cattolico, e della responsabilità della fede per la situazione di questi uomini. E così anche l’Africa, l’Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono cresciuti problemi che noi tedeschi – devo dire – all’inizio, non avevamo visto. Non posso adesso descrivere tutto questo. Il grande documento “Gaudium et spes” ha analizzato molto bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità, e così ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo inaspettatamente, è cresciuto, al di fuori di questo grande documento, un documento che rispondeva in modo più sintetico e più concreto alle sfide del tempo, e cioè la “Nostra aetate”. Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici di questa cosa: temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario. Quando abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al Buddismo, all’Induismo…. E così, invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale. Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia. Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e “Nostra aetate”, connessi con “Gaudium et spes” sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo. Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via. Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!”. Benedetto XVI indica nella Madre di Dio la via della fede:“con il Rosario ci lasciamo guidare da Maria, modello di fede, nella meditazione dei misteri di Cristo, e giorno dopo giorno siamo aiutati ad assimilare il Vangelo, così che dia forma a tutta la nostra vita”. Nel suo ultimo Angelus di Domenica 24 Febbraio 2013, il Papa rivela a 100mila persone riunite in piazza San Pietro le ragioni del suo gesto. “Mi ritiro in preghiera per continuare a servire la Chiesa con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui l’ho fatto fino ad ora”. Con queste parole Benedetto XVI si congeda nell’ultimo Angelus del pontificato. In sette lingue, il Papa ringrazia tutti i fedeli “per l’affetto e la condivisione” dimostratigli in questo “momento particolare” per lui e per la Chiesa. Al suo ultimo affacciarsi dalla finestra del Palazzo Apostolico che lo ha visto benedire per otto anni i credenti della Domenica, il Papa regala un nuovo squarcio su ciò che sarà per lui dalle ore 20 del 28 Febbraio 2013. E il Vangelo della seconda domenica di Quaresima – la Trasfigurazione di Gesù davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni – gli offre l’immagine per la similitudine più suggestiva. Il brano evangelico “particolarmente bello – dichiara il Santo Padre – è una parola di Dio che sento in modo particolare rivolta a me, in questo momento della mia vita: il Signore mi chiama a ‘salire sul monte’, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui l’ho fatto fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze”. Centinaia di milioni di telespettatori collegati in mondovisione con qualsiasi mezzo tecnologico, non vogliono perdersi più alcun momento di queste ore storiche non soltanto per Benedetto XVI e la Terra, ma per l’Universo intero. A chiunque lo ascolti, il Papa consegna un nuovo pensiero di fede, uno degli ultimi di un alto magistero che è entrato nella storia. Non a caso il Papa parla ancora di preghiera. Un gesto umile e semplice, eppure così inascoltato:
“il primato della preghiera, senza la quale tutto l’impegno dell’apostolato e della carità si riduce ad attivismo. Nella Quaresima impariamo a dare il giusto tempo alla preghiera, personale e comunitaria, che dà respiro alla nostra vita spirituale. Inoltre, la preghiera non è un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni, come sul Tabor avrebbe voluto fare Pietro, ma l’orazione riconduce al cammino, all’azione”. Non basta annuire ed applaudire. Il raccoglimento è il preludio al rimboccarsi le maniche per trasformare la carità in fatti, azioni, gesti cristiani. Molti gli striscioni, in tante lingue, testimoniano il loro affetto al “Dolce Cristo in terra”. Uno, a caratteri cubitali, proclama:“Noi ti abbiamo capito e con

tinueremo ad amarti”. La piazza ha già decretato la sua santità. È tutta lì. Nel suo magistero. E lui, Benedetto XVI, esprime la sua dolce gratitudine: “Crazie”. Alfa e Omega del suo pontificato. “Vi ringrazio per l’affetto e la condivisione, specialmente nella preghiera, di questo momento particolare per la mia persona e per la Chiesa. A tutti auguro una buona domenica e una buona settimana. Grazie, nella preghiera siamo sempre vicini!”. Ma non sarà mai più tutto come prima. Né il tempo né lo spazio. Un ultimo saluto, braccia protese verso la folla, poi Benedetto XVI si ritira e la finestra si chiude. Passano pochi istanti e la sua parola torna a viaggiare elettronicamente, a correre sui fotoni degli smartphone, dei tablet, dei social media, degli iPad. I cinguettii (tweet) si moltiplicano con le preghiere rivolte all’Altissimo. Il Papa ha una richiesta speciale: “In questo momento particolare, vi chiedo di pregare per me e per la Chiesa, confidando come sempre nella Provvidenza di Dio”. Poche ore ancora e il pontificato di Benedetto XVI chiuderà il suo corso. L’A­nello del Pescatore verrà spezzato e fuso. La me­moria dell’evento si caricherà di commo­zione. I nostri cuori piangeranno. Chi ha amato Joseph Rat­zinger, e non solo, rifletterà sul ruolo dell’Uomo nell’Universo. Il gesto del Papa stimolerà provocanti dibattiti giuridici e teologici, riflessioni di senso, assenso e dissenso! Non solo tra i suoi studenti, tra chi ha imparato a conoscere il Papa nei suoi ultimi giorni di Pastore della Chie­sa universale. Non solo tra chi, benché lontano dalle sue parole per diversa sensibilità, non ha po­tuto che apprezzare il coraggio profetico di un anziano pontefice, eletto all’età di 78 anni, che ha trasformato la Chiesa per sempre, cristallizzando nell’eternità il “tem­po” terrestre di una rinuncia, dolorosa e sofferta, in un potente accorato grido di aiuto all’Altissimo per le sorti dell’umanità passata, presente e futura. Un gesto carico di respon­sabilità e impegno per tutta la Chiesa terrestre e celeste. Gri­do potentissimo di Papa Ratzinger, carico di fede, speranza e carità nella verità evangelica. Mai come in queste ore i mass-media hanno parlato della Chiesa orante di Cristo capace di annientare il peccato. La vo­lontà di Benedetto XVI di accompagnare la sua uscita, di voler raccontare il suo pontificato per consegnarsi a Dio, sul Monte Tabor, nella verità che rende liberi. La consegna di Papa Ratzinger è la fede in Cristo nella preghiera e nell’umiltà. È lo stile di tutto il pontificato. Le ul­time omelie e le espressioni a brac­cio sono la sua “ca­techesi di congedo”: riassumono le fondamenta della sua ultima enciclica sulla fede mai data alle stampe, che con affetto potrem­mo intitolare Coelestis Veritas, per comunicare la forza inaudita del Papa che discende direttamente dal Cielo, dallo Spirito Santo nascosto, potente, efficace, silenzioso “attore” divino che tutto rinvigorisce e trasfigura in Cristo, il Verbo incarnato. Altro che mancanza di vi­gore! La Santa Chiesa, come la nuova luce che circonda la persona di Papa Benedetto XVI (tutti se ne sono accorti!) mai come in questi giorni così sfolgorante e luminosa, trasmette se­renità e pace. Gesti e parole di con­segna papali, passano e trasformano non soltanto i credenti battezzati ma anche gli atei, gli agnostici, quelli che potremmo definire “infedeli” in cerca di verità. Gesti affidati alla ri­flessione della Chiesa che non po­trà che farne tesoro per ripartire da dove Benedetto XVI si congeda nel suo Ufficio: umile autorità evangelica, preghiera, vocazione, perdono, gratitudine, abbandono totale a Cristo Signore che guida la Sua barca, la Chiesa. Il prossimo Papa, forse più giovane, sarà chiamato a organizzare il tem­po della comunità cristiana dei fedeli laici e religiosi insieme! Senza il recupero della sua ascesi, il credente è perso. Allora, la preghiera diventa spazio comune di fede ed offerta di nuova appartenenza cattolica, cioè universale, mondiale e celeste. Il Cristianesimo è una Persona. Non una dottrina. La vocazione cristiana è me­moria di un incontro personale con l’Altissimo, rimando al primo SI dato al Divin Maestro, che ogni creden­te, dopo San Pietro, deve tenere sempre presente, che deve te­ner presente la Chiesa orante e curiale. Per dare risposte concrete alla domanda di fede e di vita che si eleva al Cielo. La zizzania, la deprecabile sporcizia, va estirpata. Dentro e fuori la Chiesa. I giovani vogliono vivere la fede cristiana nelle loro storie con gratitudine, originando uno stile “rivoluzionario” di vita che nella Chiesa offra al mondo la sua testimonianza di impegno alla gioia. Ciò non esclude che l’offerta di fede possa tradursi, soprattutto nelle Giornate Mondiali della Gioventù create dal beato Giovanni Paolo II e confermate da Benedetto XVI, in richieste formali di impegno alla vita consacrata laicale e religiosa per la missione evangelica nel mondo. La storia dirà quanto di ciò che sta con­segnando in queste ore Benedetto XVI, resterà vitale in un’epoca capace di emozionarsi e dimenticare con altrettanta velocità. In un mondo altrimenti senza speranza. La storia futura non dimenticherà Papa Ratzinger, l’uomo e il teologo, il suc­cessore di Pietro che ha avuto il coraggio della profezia mentre parole mefitiche e insignificanti avanzano nel mondo per creare confusione. Il suc­cessore di Pietro, Vicario di Cristo, è chi ascolta Lui, il Maestro di Galilea, seguendolo con la propria croce dopo aver rinunziato a tutto. È chi è chiamato da Cristo a “confermare” la fede dei suoi fratelli. Preghiamo per l’elezione del 266mo Romano Pontefice. Benedetto XVI, che alle ore 17 lascerà il Palazzo Apostolico in Vaticano per raggiungere Castel Gandolfo a bordo dell’elicottero papale Agusta-Westland AW 139, dalle ore 20 del 28 Febbraio 2013 avrà il titolo di Papa Emerito. O, se preferite, di Romano Pontefice Emerito. Continuerà a portare l’abito bianco, ma sarà una veste talare semplice, senza mantellina e senza scarpe rosse. Non indosserà più l’Anello del Pescatore: il sigillo papale sarà distrutto. Nelle preghiere e, per i più fortunati che lo incontreranno, ci si potrà ancora rivolgere a J. Ratzinger chiamandolo Sua Santità. L’ultimo “atto pubblico” di Papa Benedetto XVI sarà il saluto ai fedeli della Diocesi di Albano, alle ore 17.30 di Giovedì 28 Febbraio, dalla loggia del Palazzo di Castel Gandolfo. Grazie Benedetto XVI. Saliamo insieme sul Monte del Signore. Per noi è bello stare qui con Te, “dolce Cristo in terra”!

Nicola Facciolini

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