La fede di Papa Francesco per vivere insieme la Pasqua del Signore Risorto

“Gesù mi ha amato e ha consegnato se stesso per me”(Papa Francesco). Nella prima udienza generale di Papa Francesco, Mercoledì 27 Marzo 2013, quasi 30mila fedeli hanno ascoltato dalla viva voce del Romano Pontefice gesuita argentino il significato autentico della Fede cristiana per vivere degnamente la Pasqua del Signore Risorto nella Settimana Santa. Entrato in […]

“Gesù mi ha amato e ha consegnato se stesso per me”(Papa Francesco). Nella prima udienza generale di Papa Francesco, Mercoledì 27 Marzo 2013, quasi 30mila fedeli hanno ascoltato dalla viva voce del Romano Pontefice gesuita argentino il significato autentico della Fede cristiana per vivere degnamente la Pasqua del Signore Risorto nella Settimana Santa. Entrato in piazza San Pietro a bordo della jeep scoperta, Papa Bergoglio ha accolto i fedeli salutandoli amorevolmente con il gesto benedicente, talvolta alzando il pollice in alto, incrociando le bandiere delle varie nazionalità. Papa Francesco ha baciato alcuni bambini, passati in braccio dal personale della sicurezza. Tante le bandiere, i gonfaloni e i messaggi Papa Francesco foto ufficialePapa Francesco Tenerezza di Diosoprattutto dei fedeli giunti dall’Argentina, dal Cile e dal Brasile. “Fratelli e sorelle buon giorno! Sono lieto di accogliervi in questa mia prima Udienza Generale. Con grande riconoscenza e venerazione raccolgo il testimone dalle mani del mio amato Predecessore. Dopo la Pasqua riprenderemo le catechesi per l’Anno della Fede mentre la catechesi di oggi è incentrata sulla Settimana Santa. Con la Domenica delle Palme abbiamo iniziato questa Settimana, centro di tutto l’Anno Liturgico, in cui accompagniamo Gesù nella sua Passione, Morte e Risurrezione”. Insieme a Papa Francesco, tutti si chiedono:“ma che cosa può voler dire vivere la Settimana Santa per noi? Che cosa significa seguire Gesù nel suo cammino sul Calvario verso la Croce e la Risurrezione? Nella sua missione terrena – rivela Papa Bergoglio – Gesù ha percorso le strade della Terra Santa; ha chiamato dodici persone semplici perché rimanessero con Lui, condividessero il suo cammino e continuassero la sua missione; le ha scelte tra il popolo pieno di fede nelle promesse di Dio”. Gesù “ha parlato a tutti, senza distinzione, ai grandi e agli umili, al giovane ricco e alla povera vedova, ai potenti e ai deboli; ha portato la misericordia e il perdono di Dio; ha guarito, consolato, compreso; ha dato speranza; ha portato a tutti la presenza di Dio che si interessa di ogni uomo e ogni donna, come fa un buon padre e una buona madre verso ciascuno dei suoi figli. Dio non ha aspettato che andassimo da Lui, ma è Lui che si è mosso verso di noi, senza calcoli, senza misure. Dio è così: Lui fa sempre il primo, lui si muove verso di noi. Gesù ha vissuto le realtà quotidiane della gente più comune: si è commosso davanti alla folla che sembrava un gregge senza pastore; ha pianto davanti alla sofferenza di Marta e Maria per la morte del fratello Lazzaro; ha chiamato un pubblicano come suo discepolo; ha subito anche il tradimento di un amico. In Lui Dio ci ha dato la certezza che è con noi, in mezzo a noi”. Papa Francesco cita il Vangelo:«Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo»(Matteo 8,20). “Gesù non ha casa – spiega Papa Bergoglio – perché la sua casa è la gente, siamo noi, la sua missione è aprire a tutti le porte di Dio, essere la presenza di amore di Dio”. Il Pontefice ha quindi invitato i fedeli a vivere degnamente la Settimana Santa “il vertice di questo cammino, di questo disegno di amore che percorre tutta la storia dei rapporti tra Dio e l’umanità. Gesù entra in Gerusalemme per compiere l’ultimo passo, in cui riassume tutta la sua esistenza: si dona totalmente, non tiene nulla per sé, neppure la vita. Nell’Ultima Cena, con i suoi amici, condivide il pane e distribuisce il calice “per noi”. Il Figlio di Dio si offre a noi, consegna nelle nostre mani il suo Corpo e il suo Sangue per essere sempre con noi, per abitare in mezzo a noi. E nell’orto degli Ulivi, come nel processo davanti a Pilato, non oppone resistenza, si dona; è il Servo sofferente preannunciato da Isaia che spoglia se stesso fino alla morte (cfr Isaia 53,12)”. “Gesù – afferma Papa Francesco – non vive questo amore che conduce al sacrificio in modo passivo o come un destino fatale; certo non nasconde il suo profondo turbamento umano di fronte alla morte violenta, ma si affida con piena fiducia al Padre. Gesù si è consegnato volontariamente alla morte per corrispondere all’amore di Dio Padre, in perfetta unione con la sua volontà, per dimostrare il suo amore per noi. Sulla croce Gesù «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Ciascuno di noi può dire: ‘Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me’. Ciascuno può dire questo ‘per me’”. Poi il Papa si chiede:“Che cosa significa tutto questo per noi? Significa che questa è anche la mia, la tua, la nostra strada. Vivere la Settimana Santa seguendo Gesù non solo con la commozione del cuore, vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare ad uscire da noi stessi – come dicevo Domenica scorsa – per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci noi per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quelli più lontani, quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione, di consolazione, di aiuto. C’è tanto bisogno di portare la presenza viva di Gesù misericordioso e ricco di amore!”. Si legge nel Vangelo secondo Matteo (26,14-25): “In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariòta, andò dai capi dei sacerdoti e disse:«Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù. Il primo giorno degli Ázzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero:«Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Ed egli rispose: «Andate in città, da un tale, e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”». I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano, disse:«In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli:«Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!». Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose:«Tu l’hai detto»”. Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam. Papa Francesco nella sua prima udienza generale ha citato il Nemico per la quarta volta dall’inizio del Pontificato. I Cristiani sono consapevoli dell’esistenza del Diavolo la cui grande astuzia è sempre stata quella di far credere il contrario? L’Altissimo Dio si rivela a chi vuole. Non chiede “patenti” e “titoli” preferenziali di appartenenza religiosa e dona Tutto. Anche i Suoi Sette Doni. Tra cui la capacità di scacciare i demoni. Lunedì sera 25 Marzo 2013 è iniziata Pesach, la Pasqua degli Ebrei, otto giorni di festa (in Israele sette) in cui si ricorda e si celebra la Liberazione del Popolo ebraico dalla schiavitù d’Egitto. Quest’anno la Settimana Santa ebraica coincide con quella cristiana. Il rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni, ha ricevuto da Papa Francesco il seguente messaggio:“L’Onnipotente, che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto per guidarlo alla Terra Promessa, continui a liberarvi da ogni male e ad accompagnarvi con la sua benedizione. Vi chiedo di pregare per me, mentre io assicuro la mia preghiera per voi, confidando di poter approfondire i legami di stima e di amicizia reciproca”. La Luna Piena pasquale di Mercoledì 27 Marzo delle ore 10:27 italiane, ci ricorda che il calendario civile religioso non è poi così perfetto. La Santa Pasqua è una festività intimamente religiosa, la più importante dell’anno, che assume un significato di forte impatto culturale e spirituale. In ogni Regione d’Italia e del Mondo si conservano antiche tradizioni che perpetuano il senso religioso pasquale. “Ma nishtannà ha laila ha zè miccol ha lelot?” – chiedono i bambini ebrei la notte di Pasqua:“In che cosa è diversa questa sera dalle altre sere?”. Il rabbino rav Jonathan Sacks risponde:“Uno dei più potenti messaggi dell’ebraismo è che il riscatto sia di questo mondo. Ogni volta che aiutiamo il povero a sfuggire la povertà, offriamo una casa al senzatetto, ascoltiamo coloro che non hanno voce, avviciniamo di un passo il Regno di Dio. Il modo migliore per non dimenticare questo messaggio è mangiare ogni anno il pane dell’afflizione, e le erbe amare, per non dimenticare cosa significa non essere liberi”. Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, nel suo messaggio pasquale invia “un augurio non formale, ma autentico e sincero, di serenità, di libertà e di pace. Cari amici, estendo lo stesso augurio a tutto il popolo ebraico e a tutti coloro che si prodigano per la conquista del rispetto e della dignità di ogni essere umano. Tengo a ricordare a me stesso e a voi tutti che in questo mondo, sempre più piccolo e interconnesso, i nostri destini e le nostre sorti saranno sempre più, inevitabilmente, intrecciati e condivisi. Un affettuoso Pesach kasher vesameach”. Pèsach (la radice ‘psch’, Pasqua, esprime l’idea del “saltellare” del gregge, ma il “salto” e il “passare oltre”, Passover, alludono a un chiaro comportamento divino) è il giorno più “difficile” dell’anno ebraico e cristiano. Il momento in cui sorge il dovere di costruire e di conquistare la libertà, la vita, la speranza che illumina la notte dei tempi oscuri. Lo è anche per il mondo cristiano perseguitato ancora oggi sulla Terra, come ci ricorda Papa Francesco. Prima mera coincidenza: la riflessione comune ebraica e cristiana (la Settimana Santa è iniziata per i cattolici Domenica delle Palme 24 Marzo 2013 con la solenne celebrazione di Papa Francesco e di tutti i sacerdoti e religiosi di Cristo sulla Terra). Da Lunedì 25 Marzo (prima sera di Pasqua) gli Ebrei in Italia e nel mondo al tramonto del Sole celebrano il Seder (“ordine”), la cena pasquale, festa della durata di otto giorni fino al 2 Aprile, che ricorda l’uscita degli israeliti dalla schiavitù d’Egitto guidati da Mosè, la fine del faraone, l’attraversamento miracoloso del mar Rosso e l’inizio della lunga marcia ebraica (40 anni) verso la Terra promessa (“Le pietre del tempo, il popolo ebraico e le sue feste” di Clara ed Elia Kopciowski, edizione Ancora, 2001). Una cena consumata in fretta, prima che il pane avesse tempo di lievitare (Esodo 12, 1-20). Agli Ebrei in Egitto fu ordinato di prendere un agnello o capretto per ogni famiglia, da sacrificare alla vigilia di Pèsach (nel senso originario di sacrificio pasquale) simbolo della liberazione dall’Egitto. “In ogni generazione ciascuno deve considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto”, leggono gli Ebrei durante il Seder nell’Haggadà shel Pesach (Narrazione della Pasqua). Il precetto di raccontare ai figli dell’uscita dall’Egitto precede nell’Esodo l’uscita stessa, aprendo una porta sul futuro degli Ebrei e dei Cristiani nel mondo.“E quando i vostri discendenti vi chiederanno: che cosa significa per voi questo rito? Voi risponderete: Questo è il sacrificio pasquale in onore del Signore, il quale passò oltre le case dei figli d’Israele, quando percosse l’Egitto e preservò le nostre dimore”. Il sacrificio pasquale dell’Antica Alleanza deriva, infatti, dal verbo “passare oltre”. L’ebraico “Pasoah” si riferisce all’episodio terrificante in cui l’Angelo della morte, durante la notte della decima piaga, si fermò nelle case degli egiziani colpendone tutti i primogeniti. Ma “Pasach”, passò oltre le case degli Ebrei sugli stipiti delle quali, in segno di riconoscimento, era stato spruzzato del sangue dell’agnello sacrificale. Verso il VI Secolo avanti Cristo, in tutto il mondo mediorientale si diffuse una nuova lingua, l’aramaico. Molti fra gli stessi Ebrei adottarono l’aramaico come lingua corrente. E in aramaico il termine “Pesach” è tradotto con “Pascha”. L’attinenza fra le due parole, “Pascha” e Pasqua, è evidente. Il 14 di Nissan veniva offerto il sacrificio pasquale al Tempio. Solo la sera, che per la tradizione ebraica è già il 15 di Nissan, inizia la festa vera e propria con una cerimonia speciale chiamata Seder. In Israele Pesach dura sette giorni, fuori di Israele otto. Ciò è dovuto al fatto che, anticamente, nella Diaspora, non era facile far pervenire tempestivamente l’esatta data delle ricorrenze: quindi, per evitare errori, le si faceva durare un giorno in più. L’uso è stato mantenuto, nonostante oggi non manchi la possibilità di comunicare tempestivamente la data di inizio della festa, per sottolineare la differenza tra coloro che vivono in Israele e coloro che ne vivono fuori. Il calendario ebraico è basato sui cicli della Luna e non permette di fissare per le feste una data precisa nel calendario solare. Le Sacre Scritture specificano che il Ciaosacrificio deve essere mangiato “con azzime ed erbe amare, con la cintura ai lombi, con i sandali ai piedi, con il bastone in mano”. L’azzima è in ricordo del pane che di lì a poco non farà in tempo a lievitare e l’erba amara serve per ricordare come cosa passata (anche se per gli Ebrei di Mosè è ancora presente) l’amarezza della schiavitù. La festa ha inizio al tramonto del 14 di Nissan, che corrisponde circa al mese tra Marzo e Aprile. Pesach, il momento in cui il popolo dei figli di Israele diviene il popolo libero, rappresenta per gli Ebrei il simbolo della libertà. Libertà è una parola difficile, anche per i Cristiani, che si presta a molteplici interpretazioni ed anche a più di un abuso. La libertà può riguardare il singolo individuo, o interi popoli. Può riguardare lo spirito o il corpo. Esiste anche un concetto assai individualistico di libertà, intesa come possibilità di fare tutto quel che si vuole senza regole né limiti, indipendentemente dai diritti e dalla libertà degli altri. In che modo ognuno di noi è responsabile della propria e dell’altrui libertà? Fino a che punto e con quali modalità siamo tenuti a batterci per la nostra o per l’altrui libertà, senza lasciarci prendere da un assurdo senso di orgoglio che può trasformarci in arroganti arbitri del comportamento altrui, o da un senso di opaca rassegnazione che, rimandando a Dio ogni responsabilità sul comportamento umano, ci consente di lasciare le cose come stanno senza partecipare personalmente alla liberazione di chi è schiavo e oppresso? Schiavo o oppresso da chi o da che cosa? Esiste una libertà morale che coinvolge la nostra coscienza di essere creati “a immagine di Dio” e ci impone un totale rispetto verso noi stessi e verso gli altri. Ma esiste anche una libertà materiale, libertà dalla miseria e dal bisogno, che prevede il diritto a una vita decorosa e dignitosa quale patrimonio indispensabile perché ogni essere creato possa mantenere intatto il rispetto verso se stesso e, di conseguenza, verso il Creato e verso il prossimo: ed è questo l’insegnamento base che gli Ebrei trovano nella Torah la cui consegna segue immediatamente l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto proprio perché l’improvvisa libertà non degeneri in abuso o sopruso. Dunque, la libertà del corpo e la libertà dello spirito. La prima, se si affida unicamente all’istinto non illuminato della ragione e dall’insegnamento, e qui ci si riferisce proprio all’insegnamento della Torah, è paragonabile alla libertà degli animali non illuminati dal “discernimento fra il bene e il male”, e che seguono quindi soltanto il proprio istinto e i loro appetiti. Ma è purtroppo propria anche di tanti uomini, donne, stati, governi e multinazionali che hanno fatto della forza bruta, dell’imposizione indiscriminata della propria volontà su quella degli altri, la loro libertà potente e prepotente. La vera libertà è la seconda, quella spirituale. L’Uomo, o il popolo, che l’abbia fatta propria, cioè resa parte integrante di sé stesso, è libero in eterno e nessuno, mai, potrà più renderlo schiavo. Per i Cristiani la Pasqua non è la festa del pacifismo, della commemorazione passiva, della resa incondizionata alla cultura atea dominante del relativismo etico, dell’ipocrisia e delle forze maligne che agiscono nella Storia. Ce lo ricorda Papa Francesco nell’Omelia della Domenica delle Palme:“Gesù entra in Gerusalemme. La folla dei discepoli lo accompagna in festa, i mantelli sono stesi davanti a Lui, si parla di prodigi che ha compiuto, un grido di lode si leva: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli» (Lc 19,38). Folla, festa, lode, benedizione, pace: è un clima di gioia quello che si respira. Gesù ha risvegliato nel cuore tante speranze soprattutto tra la gente umile, semplice, povera, dimenticata, quella che non conta agli occhi del mondo. Lui ha saputo comprendere le miserie umane, ha mostrato il volto di misericordia di Dio e si è chinato per guarire il corpo e l’anima. Questo è Gesù. Questo è il suo cuore che guarda tutti noi, che guarda le nostre malattie, i nostri peccati. E’ grande l’amore di Gesù. E così entra in Gerusalemme con questo amore, e guarda tutti noi. E’ una scena bella: piena di luce – la luce dell’amore di Gesù, quello del suo cuore – di gioia, di festa. All’inizio della Messa l’abbiamo ripetuta anche noi. Abbiamo agitato le nostre palme. Anche noi abbiamo accolto Gesù; anche noi abbiamo espresso la gioia di accompagnarlo, di saperlo vicino, presente in noi e in mezzo a noi, come un amico, come un fratello, anche come re, cioè come faro luminoso della nostra vita. Gesù è Dio, ma si è abbassato a camminare con noi. E’ il nostro amico, il nostro fratello. Qui ci illumina nel cammino. E così oggi lo abbiamo accolto. E questa è la prima parola che vorrei dirvi: gioia! Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal L'Ultima Cena, mosaico del XIII secolo. Basilica di San Marco, Veneziapossedere tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti! E in questo momento viene il nemico, viene il diavolo, mascherato da angelo tante volte, e insidiosamente ci dice la sua parola. Non ascoltatelo! Seguiamo Gesù! Noi accompagniamo, seguiamo Gesù, ma soprattutto sappiamo che Lui ci accompagna e ci carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia, la speranza che dobbiamo portare in questo nostro mondo. E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza! Quella che ci dà Gesù. Seconda parola. Perché Gesù entra in Gerusalemme, o forse meglio: come entra Gesù in Gerusalemme? La folla lo acclama come Re. E Lui non si oppone, non la fa tacere (cfr Lc 19,39-40). Ma che tipo di Re è Gesù? Guardiamolo: cavalca un puledro, non ha una corte che lo segue, non è circondato da un esercito simbolo di forza. Chi lo accoglie è gente umile, semplice, che ha il senso di guardare in Gesù qualcosa di più; ha quel senso della fede, che dice: Questo è il Salvatore. Gesù non entra nella Città Santa per ricevere gli onori riservati ai re terreni, a chi ha potere, a chi domina; entra per essere flagellato, insultato e oltraggiato, come preannuncia Isaia nella Prima Lettura (cfr Is 50,6); entra per ricevere una corona di spine, un bastone, un mantello di porpora, la sua regalità sarà oggetto di derisione; entra per salire il Calvario carico di un legno. E allora ecco la seconda parola: Croce. Gesù entra a Gerusalemme per morire sulla Croce. Ed è proprio qui che splende il suo essere Re secondo Dio: il suo trono regale è il legno della Croce! Penso a quello che Benedetto XVI diceva ai Cardinali: Voi siete principi, ma di un Re crocifisso. Quello è il trono di Gesù. Gesù prende su di sé… Perché la Croce? Perché Gesù prende su di sé il male, la sporcizia, il peccato del mondo, anche il nostro peccato, di tutti noi, e lo lava, lo lava con il suo sangue, con la misericordia, con l’amore di Dio. Guardiamoci intorno: quante ferite il male infligge all’umanità! Guerre, violenze, conflitti economici che colpiscono chi è più debole, sete di denaro, che poi nessuno può portare con sé, deve lasciarlo. Mia nonna diceva a noi bambini: il sudario non ha tasche. Amore al denaro, potere, corruzione, divisioni, crimini contro la vita umana e contro il creato! E anche – ciascuno di noi lo sa e lo conosce – i nostri peccati personali: le mancanze di amore e di rispetto verso Dio, verso il prossimo e verso l’intera creazione. E Gesù sulla croce sente tutto il peso del male e con la forza dell’amore di Dio lo vince, lo sconfigge nella sua risurrezione. Questo è il bene che Gesù fa a tutti noi sul trono della Croce. La croce di Cristo abbracciata con amore mai porta alla tristezza, ma alla gioia, alla gioia di essere salvati e di fare un pochettino quello che ha fatto Lui quel giorno della sua morte. Oggi in questa Piazza ci sono tanti giovani: da 28 anni la Domenica delle Palme è la Giornata della Gioventù! Ecco la terza parola: giovani! Cari giovani, vi ho visto nella processione, quando entravate; vi immagino a fare festa intorno a Gesù, agitando i rami d’ulivo; vi immagino mentre gridate il suo nome ed esprimete la vostra gioia di essere con Lui! Voi avete una parte importante nella festa della fede! Voi ci portate la gioia della fede e ci dite che dobbiamo vivere la fede con un cuore giovane, sempre: un cuore giovane, anche a settanta, ottant’anni! Cuore giovane! Con Cristo il cuore non invecchia mai! Però tutti noi lo sappiamo e voi lo sapete bene che il Re che seguiamo e che ci accompagna è molto speciale: è un Re che ama fino alla croce e che ci insegna a resurrexitservire, ad amare. E voi non avete vergogna della sua Croce! Anzi, la abbracciate, perché avete capito che è nel dono di sé, nel dono di sé, nell’uscire da se stessi, che si ha la vera gioia e che con l’amore di Dio Lui ha vinto il male. Voi portate la Croce pellegrina attraverso tutti i continenti, per le strade del mondo! La portate rispondendo all’invito di Gesù «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (cfr Mt 28,19), che è il tema della Giornata della Gioventù di quest’anno. La portate per dire a tutti che sulla croce Gesù ha abbattuto il muro dell’inimicizia, che separa gli uomini e i popoli, e ha portato la riconciliazione e la pace. Cari amici, anch’io mi metto in cammino con voi, da oggi, sulle orme del beato Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ormai siamo vicini alla prossima tappa di questo grande pellegrinaggio della Croce. Guardo con gioia al prossimo luglio, a Rio de Janeiro! Vi do appuntamento in quella grande città del Brasile! Preparatevi bene, soprattutto spiritualmente nelle vostre comunità, perché quell’Incontro sia un segno di fede per il mondo intero. I giovani devono dire al mondo: è buono seguire Gesù; è buono andare con Gesù; è buono il messaggio di Gesù; è buono uscire da se stessi, alle periferie del mondo e dell’esistenza per portare Gesù! Tre parole: gioia, croce, giovani. Chiediamo l’intercessione della Vergine Maria. Lei ci insegna la gioia dell’incontro con Cristo, l’amore con cui lo dobbiamo guardare sotto la croce, l’entusiasmo del cuore giovane con cui lo dobbiamo seguire in questa Settimana Santa e in tutta la nostra vita. Così sia”. Ogni Domenica è Pasqua di Risurrezione, per cui i riti e le tradizioni richiamano alla memoria non una semplice Commemorazione di un fatto storico accaduto a Gerusalemme 1983 anni fa, ma la Vita Eterna, la Risurrezione, la sconfitta della morte, di ogni male, del gossip, del chiacchiericcio, dell’inciucio, del malaffare, della corruzione, della crisi economica. La Pasqua è l’inizio della Vita Nuova in Cristo Risorto, Primizia Ciaodella Fede e della Risurrezione della carne. Beato chi non si scandalizza della Croce di Nostro Signore! Scrive Sant’Agostino Vescovo nei “Trattati su Giovanni”(CCL 36, 536-538):“Il Signore, o fratelli carissimi, ha definito la pienezza dell’amore con cui dobbiamo amarci gli uni gli altri con queste parole:«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici»(Gv 15, 13). Ne consegue ciò che il medesimo evangelista Giovanni dice nella sua lettera: Cristo «ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli», (1 Gv 3, 16) amandoci davvero gli uni gli altri, come egli ci ha amato, fino a dare la sua vita per noi. Ora qual è la mensa del grande e del potente, se non quella in cui si riceve il corpo e il sangue di colui che ha dato la vita per noi? È quello che dice anche l’apostolo Pietro:«Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme»(1 Pt 2, 21). Questo significa fare le medesime cose. Così hanno fatto con ardente amore i santi martiri e, se non vogliamo celebrare inutilmente la loro memoria, se non vogliamo accostarci infruttuosamente alla mensa del Signore, a quel banchetto in cui anch’essi si sono saziati, bisogna che anche noi, come loro, siamo pronti a ricambiare il dono ricevuto. Egli, morendo, uccise subito in sé la morte, mentre noi veniamo liberati dalla morte solo mediante la sua morte. Egli non ebbe bisogno di noi per salvarci, ma noi, senza di lui, non possiamo far nulla. Egli si è mostrato come vite a noi che siamo i tralci, a noi che, senza di lui, non possiamo avere la vita”. Questa è la Fede del popolo cristiano cristallizzata nel Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 640, 1096, 731, 1443, 1225, 1449, 1164, 1170, 1169, 1340, 1362-66, 1363, 1680-83, 677, 793). Se analizziamo lo Stemma di Papa Francesco, capiamo il significato e i frutti della consacrazione totale a Gesù. Nei tratti, essenziali, Papa Bergoglio ha deciso di conservare il suo stemma anteriore, scelto fin dalla sua consacrazione episcopale e caratterizzato da una lineare semplicità. Lo scudo blu è sormontato dai simboli della dignità pontificia, uguali a quelli voluti dal predecessore Benedetto XVI (mitra collocata tra chiavi decussate d’oro e d’argento, rilegate da un cordone rosso). In alto, campeggia l’emblema dell’ordine di provenienza del Papa, la Compagnia di Gesù: un sole raggiante e fiammeggiante caricato dalle lettere, in rosso, IHS, monogramma di Cristo. La lettera H è sormontata da una croce. In basso, i tre chiodi in nero, la stella e il fiore di nardo. La stella, secondo l’antica tradizione araldica, simboleggia la Vergine Maria, madre di Cristo e della Chiesa; mentre il fiore di nardo indica San Giuseppe, patrono della Chiesa universale. Nella tradizione iconografica ispanica, infatti, San Giuseppe è raffigurato con un ramo di nardo in mano. Ponendo nel suo scudo tali immagini, il Papa ha inteso esprimere la propria particolare devozione verso la Vergine Santissima e San Giuseppe. Il motto del Santo Padre Francesco è tratto dalle Omelie di San Beda il Venerabile, sacerdote (Om. 21; CCL 122, 149-151), il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di San Matteo, scrive:“Vidit ergo lesus publicanum et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi Sequere me” (Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi). Questa omelia è un omaggio alla Misericordia divina ed è riprodotta nella Liturgia delle Ore della festa di San Matteo. Essa riveste un significato particolare nella vita e nell’itinerario spirituale del Papa. Infatti, nella festa di San Matteo dell’anno 1953, il giovane Jorge Bergoglio sperimentò, all’età di 17 anni, in un modo del tutto particolare, la presenza amorosa di Dio nella sua vita. In seguito ad una confessione, si sentì toccare il cuore ed avvertì la discesa della misericordia di Dio, che con sguardo di tenero amore, lo chiamava alla vita religiosa, sull’esempio di Sant’Ignazio di Loyola. Una volta eletto Vescovo, S.E. Mons. Bergoglio, in ricordo di tale avvenimento che segnò gli inizi della sua totale consacrazione a Dio nella Sua Chiesa, decise di scegliere, come motto e programma di vita, l’espressione di San Beda, “miserando atque eligendo”, che ha inteso riprodurre anche nel proprio stemma pontificio. “Gli Ebrei escono dall’Egitto senza aver meriti propri – rivela Rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano – i meriti li acquisiranno 50 giorni dopo, quando riceveranno la Torah sul Monte Sinai. Nonostante ciò, prima dell’uscita dall’Egitto, vengono comandate al popolo ebraico alcune mitzvot. Come mai? I Chakhamìm, basandosi su un verso dello Shir Hashirìm, dicono che in quel momento il popolo era nudo e aveva bisogno di coprirsi con le mitzvot. Si tratta di un insegnamento importante. Senza mitzvot si è ebraicamente nudi”. Se poi ci si lamenta degli articoli un po’ prolissi e del perché vengano “barbaramente uccisi”, in piena crisi economica, quattro milioni di agnellini pasquali ogni anno solo in Italia, bisogna anche ricordare il numero degli aborti umani perpetrati sulla Terra, altrettanto spaventosi, insieme ai vari traffici di organi e bambini. Decine di milioni ogni anno nel Mondo. Che gridano Giustizia all’Altissimo. Hag Pesach Sameach! Felice Pesach! Happy Passover! Happy Easter! Leshanà habbà beJerushalaim. Buona Pasqua!

Nicola Facciolini

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