Italia tripolare dalle Elezioni Politiche 2013, analisi scientifica del voto degli Italiani

“La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, nunzia dell’antichità”(Marco Tullio Cicerone). Vince chi governa. Tertium non datur. In Italia e nell’Universo Mondo. I numeri sono l’anima della Democrazia, non necessariamente dei “mostri” passati e futuri della Storia. Spiriti, fantasmi, tradimenti, ingiustizie, rumori sospetti? È la “casa” stregata […]

“La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, nunzia dell’antichità”(Marco Tullio Cicerone). Vince chi governa. Tertium non datur. In Italia e nell’Universo Mondo. I numeri sono l’anima della Democrazia, non necessariamente dei “mostri” passati e futuri della Storia. Spiriti, fantasmi, tradimenti, ingiustizie, rumori sospetti? È la “casa” stregata dagli Italiani quella post psico-elettorale A.D. 2013, degna dell’Urlo di Munch. È la fotografia del Belpaese delle meraviglie politiche dove tutto è elettoralmente possibile. Anche mandare a casa chi negli ultimi 20 anni ha fatto del male ai propri cittadini, violentandoli psicologicamente, moralmente, economicamente. Si vergognino, si inginocchino e chiedano scusa! Quanti suicidi lavoratori, imprenditori e disoccupati avremmo potuto evitare prima e durante la crisi economica? Per edificare una nuova architettura costituzionale nazionale, non necessariamente infestata da spiriti sospetti, serve il coraggio dei giovani parlamentari in difesa della Libertà e della Democrazia. Altro che Circo Italia! Alla luce dei fatti, PD e PdL pare abbiano perso ogni credibilità internazionale razionale, tra i mercati e la gente. Allora, si riconosca agli Italiani quel che è degli Italiani (Ar
. Altro che entusiasmi. Miasmi! Ai sondaggisti non dicevano la verità, perché dirsi elettore di Berlusconi non è segno di finezza, ti espone al ludibrio dei monopolisti del buon gusto. Ma c’erano. E il sistema dell’informazione incredibilmente non se n’è accorto. Quello dei partiti tradizionali della sinistra non se n’è accorto. Quello dei “padroni” dei sondaggi non se n’è accorto. Gli analisti, invece, sapevano tutto. Avevano dato per morto Berlusconi e il berlusconismo. Ma tacevano, per scelta. Sbagliavano. E per penitenza dovrebbero andare inginocchiati sui ceci insieme ai loro padroni. Ma non lo faranno. E daranno la colpa ai politici, ai giornalisti, all’elettorato folle! Ne deploreranno la rozzezza, la credulità, la volgarità, l’essenza naturaliter delinquenziale. E ancora una volta non avranno capito. Che la sovranità appartiene al popolo. Che poi è perfettamente vero che il centrodestra versava in una crisi mortale e che Berlusconi ha dovuto fare il fenomeno in tv per rianimare la mummia putrescente: un corpaccione stordito, disorientato, frammentato in agguerritissimi clan, diviso da faide intestine, in attesa di rielezione. Gente impresentabile di nuovo in Parlamento. Alcuni pensavano che quella parte che era stata maggioranza lungo tutti questi vent’anni si sarebbe dissolta come neve al Sole senza reagire, avrebbe lasciato campo libero a chi non ha mai saputo (o fatto finta di non) capire ciò che avveniva nel territorio spirituale e mentale di questo centrodestra. Davvero potevano pensare che battute mediocri sui tacchini o polli volanti non identificati e sullo smacchiamento del giaguaro, quasi concordate a tavolino in buona compagnia di un buon bicchiere di birra di puro malto e di una piadina fumante, non avrebbero irritato, indignato, reso furibondo chi in questi anni aveva scelto Berlusconi, sognando un lavoro, e che quest’anno non lo avrebbe fatto più, ma poi l’ha scelto per paura, per timore, pur di non dargliela vinta a chi fa ironie sull’Imu e sull’Irap? Così è stato nel 2006. Così è stato anche nel 2013. Perché così sono gli Italiani. Il centrosinistra dato per vincente nel 2006 farfugliava sulla tassazione delle “rendite finanziarie” e sul conflitto di interessi. Tutti i banchieri e i possessori di Bot si sono spaventati. Oggi il centrosinistra ha scaraventato nel recinto infetto dell’evasione potenziale tutto l’umore antitasse. Ha sbagliato su tutta la linea. E sbaglia a non considerare che Berlusconi, invece, su quel terreno non avrebbe mai sbagliato. E si leggono pensose e penose analisi sui costumi degli Italiani del futuro già su Giove, su Talita e su Alfa Centauri. E si almanacca ancora sulle due Italie, quella buona e corretta e quella brutta, sporca e cattiva. E ci si chiede come mai, quasi all’unanimità, nessuno aveva previsto che il berlusconismo, ammaccato ed elettoralmente assai dimagrito, esiste ancora. E che i girotondi di giubilo attorno al Quirinale quando Berlusconi si era recato dal Presidente Napolitano per rassegnare le dimissioni nel Novembre 2011, mascherati o meno da Dottor Who, erano una grande e sacrosanta festa di popolo, ma non la veglia funebre di un fenomeno politico molto più resistente dei nervi troppo fragili di chi aveva solo da tirare il pallone in rete e invece ha sbagliato l’occasione più facile. Quella di ereditare i consensi di Berlusconi. Quelle monetine oggi ricadono su di loro. Perché non c’è miglior alleato di Berlusconi degli antiberlusconiani professionisti. La mummia è viva e vegeta. Ma per loro no. L’incubo degli Italiani è appena ricominciato. Francia o Spagna purché si mangia? La coalizione di centrodestra si presentava alle Politiche 2013 in formato molto esteso. Numerose erano le liste apparentate, la maggior parte delle quali senza possibilità di ottenere seggi. Alla fine, alla Camera, sono solo tre quelle che vi sono riuscite: il PdL e la Lega Nord come liste sopra soglia, e Fratelli d’Italia come ripescato. Il PdL ha ottenuto 98 deputati, la Lega 18, FdI 9. Al Senato, invece, solo il PdL è riuscito a superare la soglia in tutte le regioni, come prevedibile, e ha ottenuto 98 eletti. La Lega è riuscita ad ottenere seggi in Piemonte, Lombardia e Veneto, oltre ad aggiudicarsi il ripescato in quota proporzionale in Trentino Alto Adige, per un totale di 18 senatori. Magro bottino. Come sono lontane le imprese di Bossi! Degli altri partiti, è riuscito ad ottenere un seggio in Calabria la lista Grande Sud. Nel complesso, dunque, il PdL ha ottenuto 196 seggi, la Lega 36, FdI 9 e GS solo uno. I parlamentari uscenti del PdL erano 302, ma ad essi si aggiungeva tutta una schiera di movimenti e piccoli partiti che nel complesso facevano lievitare questa Area PdL ad un totale di 383 deputati  e senatori. Lo spazio a disposizione per questa galassia politica si è, dunque, quasi dimezzato per i berlusconiani: da 383 a 206 (i 196 eletti del PdL, 9 di FdI e l’eletto di GS). Che fine hanno fatto i parlamentari uscenti? Di questi 383 parlamentari complessivi, 128 (il 33,4 per cento) non hanno trovato spazio in nessuna delle liste di centrodestra. Dei rimanenti, 154 (il 40,2 per cento) sono stati rieletti, e 101 invece non vi sono riusciti. Di questi 154 rieletti, uno è uscito dall’Area PdL: Tremonti, infatti, è passato alla Lega. Dunque, ben 153 dei 206 nuovi eletti (il 74,3 per cento) della cosiddetta Area PdL sono parlamentari uscenti: una percentuale più che doppia rispetto a quella della media complessiva del nuovo Parlamento. Questi 153 riconfermati si distinguono in 144 rieletti nelle liste del PdL, e in 9 rieletti in quelle di FdI. Anche nello schieramento di centrodestra ci sono stati dei plurieletti. Ve ne sono stati 3 nel PdL (Berlusconi, Alfano, Barani), e 3 in FdI (La Russa, Meloni, Rampelli). Che hanno dovuto optare per una delle loro posizioni eleggibili, dando così luogo ai ripescaggi. Per ipotesi si considerano come eletti tutti i possibili ripescati. Il numero complessivo di eletti per il PdL sale così a 199 e per FdI a 12. Fra gli eletti della lista PdL, i parlamentari uscenti sono 144 (il 72,4 per cento). Le donne sono in tutto 39, poco meno del 20 per cento: una quota nettamente più bassa di quella media del nuovo Parlamento, ma che comunque è superiore del 16,5 per cento del PdL uscente, cosa non scontata vista la contrazione della rappresentanza. In FdI gli uscenti sono 9. Nell’analisi della composizione politica dell’Area PdL si nota quanto e in che direzione essa è cambiata rispetto al Parlamento uscente della XLI Legislatura. Nel partito del PdL, dei 296 esponenti eletti in Italia (non considerando cioè i 6 eletti all’estero) 219 (il 74 per cento) provenivano da Forza Italia, 55 (il 18,6 per cento) da Alleanza Nazionale, 11 dalle componenti neodemocristiane, 5 da altre microcomponenti e 6 erano personalità indipendenti. Oggi, su 188 esponenti del partito rieletti, la componente di Forza Italia è ulteriormente aumentata sotto il profilo percentuale, sino a diventare sostanzialmente egemone. Gli ex AN, già ridimensionati dall’addio di Fini, si sono divisi fra coloro che sono andati con Meloni e La Russa in FdI e coloro che, come Gasparri e Matteoli, hanno scelto di rimanere alla corte di Berlusconi. Resiste la componente democristiana, mentre fra le altre ottiene rappresentanza solo il Nuovo PSI di Caldoro con Lucio Barani. Sono 5 gli indipendenti. La componente residuale dell’Area PdL, come prevedibile, esce molto ridimensionata da questa consultazione. Da una settantina di esponenti a poco più di una ventina. Del resto, molti dei movimenti che la componevano coincidevano nella sostanza con i parlamentari che li avevano fondati, e dunque sono semplicemente scomparsi una volta che i loro fondatori hanno perso il posto in lista, o una volta che essi lo hanno trovato, ma in liste troppo piccole per ottenere seggi. A parte la componente ex AN che si è accasata in FdI e l’eletto di Grande Sud in Calabria, hanno ottenuto l’elezione solo 10 candidati di altre micro-formazioni, “imbucati” nelle liste del PdL: fra essi spiccano naturalmente i famosi Antonio Razzi (eletto in Abruzzo) e Domenico Scilipoti. Grandi protagonisti della satira di Crozza e Striscia La Notizia. Anche la Lega Nord, uscita molto ridimensionata da queste elezioni, passa da 80 parlamentari a 36. Degli 80 uscenti, 30 non si sono ricandidati e 28 lo hanno fatto ma senza ottenere il seggio. Solo 22 (il 27,5 per cento) hanno conquistato la riconferma, cui si aggiunge Tremonti. Sono pertanto 23 su 36 gli eletti leghisti che erano già presenti nelle camere uscenti: il 62,2 per cento. Un tasso di ricambio basso in confronto a quello medio, ma che non è comunque bassissimo se si pensa al dimezzamento dei posti a disposizione. Solo 5, infine, le donne leghiste elette, tutte al Senato. Nessun escluso di grande rilievo: ottengono l’elezione alla Camera sia Bossi sia Salvini, e l’elezione al Senato sia Calderoli sia Tremonti. Se si esaminano i risultati delle elezioni politiche e regionali nella Roma Capitale, attraverso la lettura dei flussi elettorali, risultano più chiare le tendenze nazionali, in particolare ricostruendo in termini di “bacini” elettorali 2008-2013 i risultati delle due concomitanti consultazioni e i movimenti intercorsi fra queste. Ciò è di particolare interesse alla luce di quanto accaduto: i risultati delle politiche e delle regionali sono assai diversi fra loro, ed entrambi risultano piuttosto distanti da quelli del 2008. Cinque anni or sono, alle precedenti elezioni politiche, il centrosinistra di Veltroni aveva prevalso di circa di due punti sul centrodestra, in una competizione nettamente bipolare (43,7 contro il 41,4 per cento). Il Pd aveva il 39,2 per cento, mentre l’alleata Idv il 4,6 per cento. La Sinistra arcobaleno aveva ottenuto il 3,4 per cento con l’Udc al 4,3 per cento. L’affluenza era risultata pari all’80,4 per cento in linea con la media nazionale. Oggi anche a Roma, alla vigilia delle Amministrative 2013, la competizione è multipolare: la coalizione di Bersani ha raccolto esattamente un terzo dei voti validi, confermandosi al primo posto. Il M5S si è attestato al 24,3 per cento, Berlusconi al 23,4 per cento e Monti si è fermato al 9,7 per cento. L’astensione infine è aumentata, ma meno che nel resto d’Italia. Alle Politiche 2013 non sono andati a votare il 22,7 per cento degli elettori romani, contro il 24,8 per cento di tutto il Belpaese. Decisivo nel determinare tale divergenza il traino delle elezioni regionali. Nella competizione maggioritaria fra i candidati alla Presidenza della Regione, quello del centrosinistra (Zingaretti) ha sfiorato la maggioranza assoluta con il 45,5 per cento. Ha ottenuto oltre 170mila voti in più di Bersani alla Camera. Anche Storace ha preso più voti di Berlusconi, ma meno di 20mila. In termini percentuali il suo risultato è pari al 24,9 per cento. Ad essere penalizzato è stato il candidato del M5S (Barillari) che si è fermato al 20,1 per cento, smarrendo 120mila preferenze rispetto alla Camera. Molto negativo anche il risultato della Bongiorno che ha preso meno della metà dei 155mila voti della coalizione di Monti alla Camera e si dovuta accontentare del 4,3 per cento. Da un simile quadro appare evidente che molti elettori abbiano avuto comportamenti difformi nelle due elezioni. Alle Regionali l’elezione diretta del Presidente e il conseguente premio di maggioranza in Consiglio ha favorito la bipolarizzazione della competizione, ovvero la concentrazione dei voti sui due candidati dei poli principali. La strategia del voto utile sembra avere favorito maggiormente il centrosinistra. Grazie al maggioritario che qualcuno vorrebbe abolire nelle elezioni politiche, temendo la nascita del Partito Conservatore con un vero Leader occidentale. Se si analizzano i movimenti di cittadini elettori che hanno determinato il risultato osservato, con le destinazioni dei diversi elettorati del 2008, si osserva che il PD ha confermato circa due terzi dei propri voti e presenta il massimo valore di fedeltà. Ha ceduto un elettore su dieci al M5S, qualcosa di più verso l’astensione e un 6 per cento a Monti. Il PdL è stato rivotato da circa la metà dei suoi elettori del 2008, uno su cinque ha scelto invece il M5S, mentre uno su dieci ha votato Monti. Analoghe a quelle del PD le cessioni all’astensione. Degli elettori Udc del 2008 solo un terzo ha votato Monti, un quarto si è invece astenuto. Il M5S è infine riuscito a rimobilitare una quota significativa di astenuti. Il M5S ha preso un terzo circa dei propri voti dal PdL, un quarto dal centrosinistra e altrettanto dall’area del non voto. Anche Monti sembra aver pescato maggiormente dal centrodestra: proviene da qui la metà circa dei suoi voti, mentre solo un terzo da elettori di Veltroni. Passando alle analisi relative alle Regionali, si osserva che Zingaretti non ha perso praticamente nessuno dei voti di Bersani. L’ex Presidente della Provincia di Roma ha poi preso oltre due quinti degli elettori di Monti e un quinto di quelli del M5S. Da questi due ingressi arrivano rispettivamente il 9 e il 13 per cento dei suoi voti. Barillari ha comunque raccolto il consenso dei due terzi degli elettori del M5S alla Camera, mentre invece la Bongiorno meno di uno su tre, con un’ulteriore significativa defezione verso Storace (14 per cento) che ha un tasso di conferma dei voti delle Politiche piuttosto alto, ma comunque inferiore a quello del vincitore. Viene sconfitto ampiamente fra le fuoriuscite di tutti gli elettorati: in rapporto di 3 a 1 sia fra i montiani sia fra i grillini. Anche fra gli elettori di partiti minori, sono il doppio quelli che hanno scelto Zingaretti. Se si analizza la composizione 2008 degli elettorati delle Regionali, dal confronto si capisce cosa avevano votato nel 2008 coloro che hanno oggi scelto Monti e Grillo alla Camera, ma non il rispettivo candidato alle Regionali, e quali sono i “bacini” che hanno premiato maggiormente Zingaretti rispetto a Bersani. I “traditori” della Bongiorno sono piuttosto equamente distribuiti nei diversi “bacini” 2008. Si sono sostanzialmente dimezzate tutte le entrate. Quanto al M5S, non vi sono significative differenze fra i coefficienti verso la lista alla Camera e Barillari per gli elettori 2008 di Pdl, Udc e Sa. Sono invece dimezzati quelli dal non voto e dal Pd. Anche gli elettori dell’Idv sono stati meno attratti da Grillo alle Regionali: dieci punti in meno. La metà ha votato Zingaretti contro il terzo di Bersani. Il candidato presidente del centrosinistra è stato votato dal 10 per cento in più degli elettori 2008 del Pd rispetto al segretario alla Camera.  Zingaretti ha conquistato quote significative del centrodestra: un decimo del PdL e un terzo dell’Udc. Infine è stato maggiormente premiato dai “rimobilitati”. Anche a Roma è forte la capacità del M5S di pescare trasversalmente all’asse sinistra-destra del 2008. In questo caso la maggior parte dei suoi voti proviene dal bacino berlusconiano. In assenza della Lega, che al Nord sembra essere stata la maggiore contributrice dell’avanzata grillina, si registra uno spostamento consistente di elettori del PdL. Questo fenomeno è analogo a quello osservato a Palermo. Chiare sono le direttrici di voto utile in uscita dal M5S e dalla coalizione di Monti, che hanno avvantaggiato Zingaretti su Storace nella corsa alla presidenza della Regione. La Barca Italia è ancora la corazzata del centrodestra berlusconiano. Il nocchiero non cambia. La coalizione di PdL e Lega Nord ha vinto alla Camera, al Senato e anche alle Regionali. Certo, considerando la storia elettorale lombarda della Seconda Repubblica, un simile risultato potrebbe apparire scontato e facilmente pronosticabile alla vigilia. Ma tale non era, per diverse ragioni. La vittoria di Pisapia alle Comunali milanesi del Maggio 2011 aveva segnato una prima, allora davvero inattesa, vittoria del centrosinistra. L’anno successivo lo stesso era accaduto a Monza, il capoluogo della provincia cui appartiene Arcore. Poi le inchieste della Magistratura che nell’ultimo anno hanno coinvolto figure di spicco del centrodestra lombardo, a cominciare dal Presidente Formigoni nel suo quarto mandato consecutivo. Infine, la crisi politica interna alla maggioranza del Pirellone che aveva portato alle elezioni Regionali anticipate, prima della frettolosa ricomposizione dell’alleanza fra Berlusconi e Maroni, con quest’ultimo candidato alla Presidenza, poi risultato vincente. Tutto questo lasciava intendere che fosse possibile un ribaltamento degli storici rapporti di forza. Così non è stato. Oggi i partiti della coalizione guidata da Berlusconi hanno ottenuto poco più di 2 milioni di voti, pari al 35,7 per cento dei validi totali. Cinque anni fa avevano invece la maggioranza assoluta con oltre 3,3 milioni di voti: il calo è di 1,3 milioni di voti. Di questi solo 200mila ascrivibili al calo regionale dell’affluenza. PdL e Lega hanno entrambi perso fra il 43 e il 45 per cento dei voti ottenuti nel 2008. La notizia è però un’altra. Molto grave per la Democrazia. Il centrosinistra ha fallito l’occasione storica di avanzare sfruttando le momentanee debolezze del tradizionale avversario. Ha subito anch’esso un arretramento, seppur più contenuto rispetto a quello del centrodestra. Veltroni aveva raccolto quasi un terzo dei voti, mentre oggi Bersani si è fermato il 28,2 per cento, con una flessione di quasi 4 punti percentuali. In termini assoluti i voti in meno sfiorano i 360mila. In particolare il Pd ha perso quasi il 15 per cento dei voti del 2008. La magra consolazione è quella di confermarsi il primo partito in tutte e tre le arene. La coalizione di Monti ha registrato un risultato migliore che nel resto del Belpaese: il 12,1 per cento in Lombardia. I 3 partiti hanno preso in totale quasi 700mila voti, aumentando di oltre una volta e mezzo i voti dell’Udc del 2008. Tale crescita è oltre il doppio di quella dell’Italia nel suo complesso. Anche in Lombardia il vero trionfatore è il Movimento 5 stelle, seppur con il risultato percentuale più basso fra tutte le regioni italiane. Eccezion fatta per il Trentino Alto Adige e la Val d’Aosta. Si è infatti fermato poco sotto il 20 per cento dei voti, 6 punti percentuali in meno della sua media nazionale. In particolare due fattori possono avere giocato a sfavore di Grillo in Lombardia: l’acclarata decisività del premio regionale al Senato, potrebbe avere indotto alcuni suoi potenziali elettori a fare voto utile in favore di uno dei due “front-runner” e poi confermare tale scelta alla Camera. A conferma di questo è possibile leggere il più marcato calo, rispetto alla media nazionale, registrato dal M5S al Senato. Il secondo fattore sono le elezioni Regionali, in particolare l’elezione diretta e in un turno unico del Presidente che, grazie al sistema maggioritario secco, ottiene in dote la maggioranza assoluta del Consiglio. La candidata del M5S alla Regione Lombardia ha preso 6 punti percentuali in meno rispetto alla Camera, smarrendo quasi un terzo dei voti. Di nuovo è possibile che qualche elettore incerto sul voto al Movimento di Grillo abbia deciso di votare Ambrosoli o Maroni alle Regionali 2013 e poi sia stato più fedele alla Politiche 2013. Ambrosoli ha sfiorato il 40 per cento dei voti maggioritari ed è riuscito a prendere oltre mezzo milione in più rispetto a Bersani ed addirittura 200mila voti in più di Veltroni nel 2008, quando i votanti erano stati molti di più. Anche Maroni va molto meglio della coalizione alla Camera, quasi 400mila voti in più. Non riesce però del tutto ad arginare la generale flessione del centrodestra. Il leader leghista ha raccolto, infatti, 300mila voti in meno di quelli di Formigoni nel 2010, quando i votanti furono un milione di meno. La flessione sfiora i 15 punti percentuali. Oggi la Lombardia appare una regione competitiva che ha molto da insegnare. Dovremo aspettare le future elezioni per capire se il centrodestra saprà riconquistare i suoi consueti livelli di consenso o se, invece, siamo all’inizio di una svolta elettorale. Alle Politiche 2013 la coalizione centrista guidata da Mario Monti si presentava agli elettori con due formati diversi fra Camera e Senato. Alla Camera, dove era presente sotto forma di coalizione, ha superato di un soffio la soglia del 10 per cento e così facendo ha permesso che ottenessero seggi due liste: Scelta Civica, che ha ottenuto 39 seggi, e l’Udc, come prima ripescata sotto il 2 per cento, che ne ha ottenuti 8. È rimasta esclusa invece la lista di Fli, con capolista Gianfranco Fini. Al Senato, dove la coalizione si presentava sotto forma di lista unica, essa ha superato la soglia dell’8 per cento solo in 12 regioni (tutte tranne Lazio, Abruzzo, Calabria, Sicilia e Sardegna) ottenendo un totale di 18 seggi. Ha poi ottenuto tre seggi all’estero (due alla Camera e uno al Senato) il MAIE che nella scorsa legislatura è stato sempre nell’area terzopolista. Infine, in due collegi senatoriali del Trentino Alto Adige hanno ottenuto l’elezione due esponenti di due partiti dell’area di Dellai, vicina a Monti. Considerando montiani sia gli eletti del MAIE sia quelli dell’area dellaiana, i parlamentari eletti dell’area montiana sono in tutto 71. Fra questi 71 eletti, 6 hanno ottenuto più di una elezione: si tratta di Alberto Bombassei per la lista Scelta Civica alla Camera, Lorenzo Cesa, Mario Catania e Gianpiero D’Alia per la lista Udc alla Camera, e Pietro Ichino e Pier Ferdinando Casini per la lista unica la Senato. Come noto, essi optando per una delle loro posizioni eleggibili danno così luogo ai ripescaggi. Il numero complessivo di eletti montiani sale così a 77. Coloro che nel Parlamento uscente si identificavano nella proposta politica montiana erano in tutto 104 parlamentari:  43 dell’Udc, 31 di Fli e 30 esponenti dell’area liberale e popolare, la gran parte dei quali proveniente da una lenta e costante erosione dei gruppi parlamentari di PD e PdL. Di questi 104 parlamentari, solo 16 sono riusciti a trovare spazio in posizioni che si sono rivelate eleggibili: 10 sono esponenti dell’Udc (due di essi rinunciano per il meccanismo delle opzioni), 2 sono finiani (di cui uno eletto all’estero) e 4 ex PD (fra cui Linda Lanzillotta, esponente di Italia Futura). Pertanto, solo il 21 per cento (16 su 77 eletti, salve le opzioni) circa della pattuglia parlamentare montiana, è composto da deputati uscenti ricandidati. In questo svolge un ruolo decisivo la corposa componente di Scelta Civica, lista interamente priva di parlamentari uscenti. Poche, appena 13, le donne. L’analisi della composizione politica della pattuglia montiana che siede in Parlamento nella XVII Legislatura, escludendo dal computo i 6 eletti all’estero che si ispirano più o meno direttamente a questo schieramento (uno di loro è un finiano, 3 sono del MAIE), rivela che la componente maggiore del polo montiano è costituita dai montezemoliani di Italia Futura: essi sono in tutto 24. Molto rappresentata anche la componente cattolica ispirata dal ministro Riccardi, cattolico, che conta 17 membri. Sono 10 gli eletti scelti direttamente da Monti, mentre sono in tutto 5 gli ex PD e gli ex PdL (Merloni, Maran e Ichino i primi, Albertini e Mauro i secondi). Uno solo il finiano eletto in Italia (Benedetto Della Vedova), mentre sono 14 gli Udc, fra i quali Casini, Buttiglione, Cesa, Binetti e il ministro Catania. L’Italia, per quasi cinquant’anni, ha avuto tassi di partecipazione elettorale assolutamente alti, sconosciuti in quasi tutte le altre Democrazie liberali occidentali: dal 1948 al 1976 il tasso di partecipazione elettorale registrato in occasione delle elezioni politiche è rimasto sopra il 90 per cento. A partire dalle elezioni del 1979, fino a quelle del 2001 comprese, le comparazioni diacroniche con le fasi precedenti e successive diventano purtroppo difficili perché nel computo degli elettori vengono inseriti gli Italiani residenti all’estero, che avendo tassi di partecipazione bassissimi, abbassano sensibilmente il dato percentuale dei votanti. Appare comunque evidente che i tassi, pur rimanendo altissimi, entrano proprio in occasione dei primi Anni ‘80 del secolo scorso in una fase di calo. Tuttavia, se nella fase finale della Prima Repubblica si è assistito a cali abbastanza repentini (1983, 1992) ma anche a rimbalzi significativi (1987), a partire dall’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica, da una parte il calo è divenuto una costante, dall’altra esso si è manifestato in modo più accentuato in occasione delle elezioni fissate ad una scadenza anticipata rispetto a quella naturale della legislatura (1996, 2008). Una componente significativa di questo calo della partecipazione, che ha interessato sia la Seconda Repubblica sia la parte finale della Prima, è connessa inevitabilmente al crollo della tensione ideologica del sistema politico italiano dopo quasi mezzo secolo di “lotta” fra visioni del mondo violentemente contrapposte. Si tratta, cioè, di un fenomeno in gran parte anagrafico, connesso al ricambio generazionale: coorti demografiche anziane, socializzate in periodi di forte contrapposizione ideologica e di grande forza organizzativa dei partiti, e pertanto caratterizzate da altissimi tassi di partecipazione elettorale, sono state progressivamente erose e sostituite da coorti demografiche giovani, spesso non ideologizzate e molto lontane dalla militanza politica attiva tradizionale. Una seconda component, che ha caratterizzato in particolare l’ultimo ventennio, pare invece connessa alla percezione dell’inefficienza del nuovo sistema politico ed alla disillusione che questa ha progressivamente creato in alcuni settori dell’elettorato. Il calo della partecipazione accelererebbe in occasione delle elezioni anticipate perché è proprio in tali circostanze che tale inefficienza e tale disillusione si manifestano con maggiore evidenza. Ma entrambe queste chiavi di lettura non bastano a spiegare il dato registrato nel 2013: un tasso di partecipazione del 75,2 per cento. Cioè 5,3 punti percentuali in meno rispetto al 2008, al termine di una legislatura durata sostanzialmente tutti e cinque gli anni previsti. Un dato impressionante che non ha precedenti nella storia del Belpaese: le ultime legislature quinquennali si erano chiuse con cali della partecipazione tre volte inferiori. È impossibile non mettere in relazione questa velocissima accelerazione con la profonda crisi politica dell’Italia, dei suoi “leader”, dei suoi obsoleti “sistemi”, ed in particolare con quanto è successo nell’ultima parte della XVI Legislatura appena conclusa: il totale ed incondizionato passo indietro (resa di fronte ai mercati!) dei vecchi partiti di fronte all’instabilità finanziaria nel Novembre 2011, il loro assenso alle politiche di “austerity” del governo tecnico nel corso dell’annata successiva (2012), la loro campagna elettorale al contrario fortemente critica nei confronti di tali politiche del Governo Monti pur sostenute e votate in Parlamento, il mancato rinnovamento interno dei due poli principali (PD e PdL), l’incapacità di riformare la legge elettorale e i Regolamenti parlamentari (in senso maggioritario secco, con la fondazione del Partito Conservatore), il susseguirsi tambureggiante di scandali giudiziari e morali nazionali e internazionali di ogni tipo a livello pubblico e privato tra i politici, anche sul territorio, il clima populista, guerrafondaio e anti-casta che ha caratterizzato gli ultimi anni, gli attacchi incostituzionali alla Magistratura, il sostanziale “tradimento” della vocazione costituzionale italiana al mantenimento della pace nel mondo con missioni civili, e non militari (oltre 10mila soldati sul campo su molti teatri operativi!) giudicate assurde e dispendiose. Fenomeni ancora in atto e senza soluzione di continuità. L’effetto combinato di questi elementi hanno prodotto una sorta di fallimento istituzionale, un corto circuito del sistema politico della Seconda Repubblica, persino nella sua ultima declinazione quasi bipartitica (l’assetto generato dalle elezioni politiche del 2008 avrebbe dovuto condurre naturalmente alla fondazione del Partito Conservatore ed alla riforma costituzionale federalista e semi-presidenziale) ed una sua quasi totale delegittimazione. La reazione dell’elettorato c’è stata! Ed una parte di questa “rivoluzione” si è concretizzata in un semplice fatto: due milioni e mezzo di votanti in meno. Che hanno detto: basta! Lo evidenzia il dato della partecipazione disaggregato a livello provinciale sul territorio nazionale, tra la percentuale di votanti alla Camera nelle recenti elezioni e la differenza tra l’affluenza registrata nel 2013 e quella rilevata cinque anni fa. In ben una provincia su quattro, la partecipazione è stata inferiore al 70 per cento. La totalità di questi casi si colloca nel Mezzogiorno continentale ed insulare, nel quale si salvano solo poche eccezioni. Nelle regioni centrali, la partecipazione presenta dati superiori alla media (75,2 per cento) nel Lazio e nella “zona rossa”, con punte nel cuore più identitario di quest’ultima: la Toscana centrale ed orientale, le Marche e l’Umbria settentrionali, la Romagna e l’Emilia sino a Reggio. Al Nord, invece, si identifica una chiara distinzione fra il Nord-Est, e in particolare la Lombardia orientale e il Veneto, dove la partecipazione resta attorno o sopra l’80 per cento, e il Nord-Ovest, in particolare il varesotto, il comasco e le province del Piemonte orientale, in alcune delle quali si scende addirittura sotto la media nazionale. Restano sopra quest’ultima, ma di poco, le province metropolitane di Milano e Torino. L’articolazione geografica del calo della partecipazione rispetto al 2008 evidenzia come le zone più colpite siano sostanzialmente due: il Sud sia continentale sia insulare, soprattutto la Sicilia, e la zona compresa fra Lombardia e Piemonte. La partecipazione ha, invece, tenuto in confronto alle scorse elezioni in buona parte delle “regioni rosse” e del Triveneto, così come nelle aree metropolitane di Roma e Torino. Le liste che alla Camera correvano apparentate al PD erano tre: SEL, Centro Democratico e la SVP che correva solo nella regione Trentino Alto Adige. Tutte e tre hanno superato la soglia richiesta ed hanno ottenuto rappresentanza: SEL ha superato la soglia del 2 per cento, CD è stato il primo ripescato sotto tale soglia, la SVP ha superato la soglia del 20 per cento circoscrizionale prevista per i partiti rappresentativi della minoranze linguistiche. SEL ha ottenuto 37 seggi, CD ne ha ottenuti 6, la SVP 5. È il record storico di sempre per il partito altoatesino, avvantaggiato dalla pessima prestazione complessiva della coalizione di cui fa parte. Al Senato, le liste apparentate al PD nelle varie regioni erano un po’ più numerose: SEL è riuscita a superare la soglia del 3 per cento in sole 6 regioni (Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Sardegna) ottenendo 7 seggi. La lista Megafono, legata a Crocetta, ha superato la soglia nell’unica regione in cui si era presentata, la Sicilia, ottenendo un seggio; Centro Democratico, così come le altre due liste presentate, quella del PSI e quella dei Moderati, non hanno superato la soglia in nessuna delle regioni in cui concorrevano. La SVP ha vinto come sempre a mani basse nei due collegi uninominali di Merano e Bressanone, in cui correva con un proprio candidato. Fra i 44 eletti di SEL, due hanno ottenuto più di una elezione: si tratta di Nichi Vendola e di Laura Boldrini (eletta Presidente della Camera). Per cui il numero complessivo di eletti è in realtà 46. Fra gli eletti di SEL non vi è alcun deputato uscente, essendo il partito di Vendola nato nel corso della scorsa legislatura come reazione al fallimento della Sinistra arcobaleno che rimase fuori dal Parlamento nel 2008. Le donne elette sono 13, il 28,3 per cento. Una “quota” percentuale nettamente inferiore alle attese, dovuta al fatto che le posizioni eleggibili si sono rivelate ben al di sotto delle previsioni sia alla Camera sia soprattutto al Senato. Candidate che credevano di essere state collocate in alto in lista si sono poi scoperte collocate troppo in basso a scrutinio ultimato! SEL è un partito che deriva dalla fusione di più soggetti politici: lo spezzone vendoliano di Rifondazione comunista, la gran parte di Sinistra Democratica, ovvero la corrente di sinistra degli ex DS contraria alla nascita del PD, la metà circa dei Verdi, una piccola corrente dei Comunisti Italiani. Può essere interessante dar conto della misura in cui tali provenienze politiche sono rappresentate nella nuova pattuglia parlamentare del partito di Vendola. Su 46 eletti gli ex esponenti del PRC sono 19, gli ex esponenti di Sinistra democratica sono 16, mentre solo 3 sono gli ex Verdi. Sono 4 gli esponenti della società civile inseriti in lista da Vendola, lo stesso numero degli esponenti “nativi” che si sono iscritti a SEL senza avere esperienze politiche precedenti. Dei 46 eletti, 14 provengono dal listino di nomi che non sono passati per le primarie, scelti direttamente dal segretario. Tale listino era stato composto da 14 esponenti dei vertici organizzativi del partito (Vendola incluso) e da 9 esponenti della società civile. Ma la componente esterna pare sia stata penalizzata in modo molto maggiore di quella interna dal pessimo risultato elettorale, essendo stata collocata quasi completamente al Senato. Dei 14 “nominati interni” ne sono stati eletti 10. Dei 9 “nominati esterni” ne sono stati eletti solo 4. Centro Democratico ha ottenuto 6 seggi che sono andati a 4 uscenti ricandidati (Tabacci, Formisano, Pisicchio, Bruno) ed a un nuovo eletto (Capelli in Sardegna). Il sesto componente è frutto della scelta di Tabacci. L’eletto siciliano della lista Crocetta è il parlamentare uscente del PD Beppe Lumia, uno dei democratici con più di 15 anni di mandato parlamentare a cui la direzione del PD aveva concesso la “deroga” per la ricandidatura. La SVP ha ottenuto 5 deputati e 2 senatori. Di questi, solo Zeller è un parlamentare uscente, mentre l’unica donna è Renate Gebhard. Nel gruppo è entrato anche un candidato del Partito Autonomista Trentino Tirolese, gemello trentino della SVP: si tratta di Mauro Ottobre. Tale partito, al Senato, ha presentato un altro candidato, Franco Panizza, che è risultato eletto nel collegio di Trento, con il sostegno sia del centrosinistra sia dei montiani. Dunque le elezioni politiche del 24 e 25 Febbraio 2013 hanno prodotto un vero e proprio terremoto nel sistema politico italiano stravolgendo completamente la vita dei partiti tradizionali principali, minacciando l’utilità delle “primarie” fai da te del PD (cioè non istituzionali), i fragili equilibri emersi nel 2008 e le speranze degli Italiani per una riforma federale e presidenziale dello Stato. Il sistema quasi bipartitico di 5 anni fa sembra essersi frantumato sotto la spinta disgregatrice del Movimento 5 Stelle e della nascita di altre forze politiche che hanno accresciuto il livello di frammentazione, quasi invocando l’antico sistema proporzionale sconfitto dagli Italiani nel 1993 con un Referendum; il sistema bipolare che aveva caratterizzato la storia della Seconda Repubblica, sembra oggi rimpiazzato da uno strano sistema a tre poli competitivi; la mobilità elettorale ha raggiunto il livello massimo della storia della Repubblica, come ci suggeriscono sia l’indice di volatilità aggregata sia le stime dei flussi elettorali rilevate in diverse città. Insomma, è un bel casino. Per comprendere la portata di questi cambiamenti forse involutivi o rivoluzionari, è utile entrare nel dettaglio dei risultati elettorali, scendendo fino al livello Comunale attraverso l’utilizzo di un indicatore tanto semplice quanto immediato: il conteggio del Primo Partito per Comune. L’analisi è stata condotta sugli 8.018 comuni italiani (Valle d’Aosta esclusa), disaggregati per zona geopolitica e dimensione demografica del comune, confrontando i risultati del 2013 con quelli del 2008. La geografia del Primo Partito per Comune nel 2008 faceva emergere nettamente il dominio di PdL e PD. Il partito di Berlusconi vinceva in 4.587 comuni, mentre quello di Veltroni in 2.435 su 8.047. In caso di parità di voti in un comune fra due o più partiti, il comune viene assegnato a entrambi, per questo il totale dei comuni è leggermente maggiore del numero di comuni sui quali è stata condotta l’analisi del Cise. Complessivamente i due partiti maggiori vincevano in più dell’87 per cento dei comuni italiani. Questo dominio era particolarmente evidente nella “zona rossa” in cui il PD risultava primo in 3 comuni su 4 e nel restante 25 per cento era davanti il PdL. Tertium non datur. Ma anche al Sud, in cui il PdL conquistava il 70 per cento dei comuni mentre il PD il 27 per cento e nel Nord-Ovest, in cui la presenza della Lega si fermava ai microcomuni fino a 5mila abitanti, mentre PdL e PD insieme prevalevano in quasi il 96 per cento degli enti. La situazione si presentava più eterogenea nel Nord-Est, grazie alla presenza degli autonomisti altoatesini della Svp, in grado di conquistare 113 comuni e soprattutto per via del forte radicamento della Lega Nord nei piccoli e piccolissimi centri di quest’area. Il Carroccio risultava primo in ben 766 comuni (il 28,5 per cento), tutti concentrati in enti inferiori ai 50mila abitanti, superando il numero di vittorie del PD. In generale, nessuna delle altre forze politiche nazionali (Idv, Udc, Sa, La Destra) raggiungeva i 30 comuni vinti e i pochi enti conquistati si concentravano per lo più all’interno della categoria dei comuni inferiori ai 5mila abitanti del Sud. Grazie ai risultati delle Politiche 2013, il quadro risulta radicalmente cambiato. Innanzitutto è ben visibile l’aumento della frammentazione: ben 17 liste sono in grado di vincere in almeno un comune. Nel 2008 erano 10. Inoltre il nuovo “equilibrio tripolare” emerge con chiarezza: il partito che vince in più comuni è il PD (2.800) che accresce il suo bottino rispetto al 2008 pur avendo perso quasi 8 punti percentuali a livello nazionale (dal 33,2 al 25,4 per cento). Un dato che già di per sé rivela il radicale mutamento della struttura della competizione avvenuto tra il 2008 e il 2013. Il Movimento 5 Stelle conquista ben 2697 comuni su 8.097 (il 33,3 per cento), un risultato clamoroso per un partito alla sua prima prova elettorale e privo del tradizionale radicamento nei piccoli centri del Belpaese. I grillini risultano primi in 2.400 comuni italiani inferiori ai 15mila abitanti, mostrando una distribuzione assolutamente equilibrata lungo le 5 categorie di dimensione demografica, tipica di un partito compiutamente nazionale. Il terzo attore del sistema è il PdL, il partito più ridimensionato in termini di comuni vinti: ne deteneva il 57 per cento. Oggi scende a meno del 25 per cento, con una perdita di oltre 2.500 comuni. La sconfitta del PdL di Berlusconi è ben evidenziata dall’arretramento nelle città: nel 2008 era primo in 26 grandi centri su 46, oggi ne vince appena 4, tutti concentrati al Sud. Nei medi centri urbani il declino è di simile portata: il partito di Berlusconi passa da 65 a 26 vittorie, 23 delle quali riguardanti città meridionali. In pratica considerando tutto il Centro-Nord del Belpaese il PdL vince in appena 3 enti superiori ai 50mila abitanti su un totale di 67 in Italia. Non solo, ma allargando lo sguardo fino a comprendere tutti i comuni superiori ai 15mila abitanti, l’avvicinamento del principale attore del centrodestra italiano al profilo marcatamente “village oriented” tipico ad esempio della Lega, si fa più evidente: su 391 comuni superiori del Centro-Nord il PdL è primo in appena 22 (il 5,6 per cento). Nelle più grandi Democrazie liberali occidentali (Usa, Gran Bretagna, Francia) le conseguenze politiche sarebbero lapalissiane. Numeri preoccupanti e decisamente opposti al trend registrato al Sud, in cui, nonostante le forti perdite in termini percentuali, il partito di Berlusconi, cioè dei “moderati”, è ancora la forza politica più vincente, dal momento che risulta prima in 1.042 comuni, più della metà del suo bottino nazionale. Nelle regioni meridionali, a quanto pare, l’arretramento urbano visto al Centro-Nord ancora non si nota: il PdL è il primo partito in 156 comuni superiori su 333 (il 46,8 per cento), a fronte dei soli 22 conquistati nel Centro-Nord. Se il PD cresce in termini di comuni vinti, la distribuzione geografica delle sue vittorie si modifica rispetto al 2008. Il predominio nella “zona rossa” rimane inattaccabile, ma gli enti vinti nelle regioni rosse sono 638, cioè 90 in meno rispetto a 5 anni fa. In quest’area il più insidioso competitore dei democratici non è il PdL di Berlusconi, ridotto ad appena 63 comuni (176 in meno rispetto al 2008), ma il Movimento 5 Stelle che vince nel 27 per cento dei comuni italiani, sfidando apertamente la leadership del partito erede del Pci soprattutto nelle 16 città medie (50-100 mila abitanti) in cui il conteggio delle vittorie vede il PD avanti 9 a 7 sui grillini, mentre le 15 grandi città sono tutte appannaggio del partito di Bersani, proprio come nel 2008. A fronte di una perdita di città nella “zona rossa” il PD compie un grande balzo in avanti nel Nord-Est. Un dato significativo. Qui, complice il forte calo della Lega Nord, che perde più di 500 comuni rispetto al 2008 e rimane maggioranza relativa solo in un comune superiore ai 15mila abitanti (5 anni fa erano 24), il PD diventa il partito con più comuni vinti nell’area (934, cioè 370 in più rispetto al 2008). Bersani fa il pieno nei medi e grandi centri, conquistandone 22 su 26. Anche qui il Movimento 5 Stelle appare come la seconda forza politica più vincente, con 706 comuni ed una notevole concentrazione nei piccoli centri, storica area di consenso della Lega Nord, in cui Grillo supera anche il PD con 245 vittorie. I “moderati”, gli imprenditori tartassati, gli artigiani, hanno cambiato partito. Il Nord-Est si presenta come l’area più eterogenea dal punto di vista del colore politico dei comuni, dal momento che questa è l’area produttiva italiana di forza relativa della lista Scelta Civica di Monti (90 comuni vinti nel  Nord-Est su 102 complessivamente conquistati in Italia) nonostante la presenza degli autonomisti della Svp (116 comuni vinti). Nel Nord-Ovest (Piemonte e Liguria) la situazione è più omogenea. Qui il Pd perde 42 comuni, mentre il PdL subisce un tracollo (meno 929 comuni) pur restando di poco sopra i Democratici. A beneficiarne è sempre il Movimento 5 Stelle che diventa la forza politica dominante dell’area nord–settetrionale italiana, con ben 824 comuni vinti, il 56 per cento del totale. Più di un comune su due nel Nord-Ovest ha abbracciato la proposta del Genovese Beppe Grillo. Il dato è ancor più impressionante se si pensa che quest’area è caratterizzata dalla presenza diffusa di un tessuto di piccolissimi comuni: su 1.413 enti inferiori ai 15mila abitanti i grillini ne conquistano 789 municipalità, una cifra incredibile per un partito privo di radicamento tradizionale sul territorio, alla sua prima prova elettorale. Tutto grazie a Internet. Nel Sud, in cui il PdL nonostante le forti perdite e un dimezzamento in termini di comuni vinti, rimane la forza di maggioranza relativa, il partito di Bersani guadagna 121 comuni (da 800 a 921) e rimane la seconda forza del Mezzogiorno. Si assiste tuttavia a uno spostamento della forza del Partito Democratico che, contrariamente al resto del Belpaese, arretra nelle città (è primo solo in 13 comuni superiori ai 15mila, nel 2008 in 23) ed avanza nei piccolissimi centri. Con 832 vittorie il PD è la forza dominante nei microcomuni. Il Movimento 5 Stelle, invece, vince in 902 comuni mostrando un profilo marcatamente urbano, a differenza di quanto avveniva nel Nord: qui il partito di Grillo ha la maggioranza relativa in 163 enti superiori ai 15mila abitanti e, soprattutto, in 11 grandi città su 17. Come già era accaduto nel 2008, è proprio nel Sud, e in particolare nei microcomuni di quest’area, che si concentrano la quasi totalità delle vittorie di alcuni piccoli partiti: Fratelli d’Italia, La Destra, Grande Sud, Udc, Centro democratico, Sel e Rivoluzione Civile. Il complesso quadro politico-istituzionale italiano sarà decisivo sia per la formazione del nuovo Governo sia per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Nulla è scontato. Tutto è possibile. Verrà applicato il metodo politico utilizzato da Bersani per l’elezione dei presidenti di Camera e Senato. Il Capo dello Stato viene eletto dal Parlamento riunito in seduta comune insieme a tre delegati per ogni Regione (uno per la Valle d’Aosta). Cioè da 630 deputati più 315 senatori più 58 delegati regionali più 4 senatori a vita, che fanno un totale di 1.007 Grandi Elettori. Nelle prime due votazioni servono i due terzi dei voti, dalla terza basta la maggioranza assoluta. Occorre un’alta personalità, di grandissimo prestigio, magari uno scienziato, capace di farsi garante in Italia e nel mondo dell’unità nazionale e della vita di ciascun cittadino Italiano. Le Istituzioni della Repubblica sono un mezzo, e non fine, per la promozione della libertà, della giustizia e della pace per ogni cittadino. Nel lavoro produttivo per ogni persona titolare di un credito alla nascita e di tutti i diritti riconosciuti dalla Carta costituzionale. Non di un debito. L’Italia ha bisogno di un Presidente della Repubblica che ponga al centro della sua vigorosa azione costituzionale sempre la persona e l’impresa. Non il Palazzo. Non i partiti. La persona nello Stato di diritto.
© Nicola Facciolini

Una risposta a “Italia tripolare dalle Elezioni Politiche 2013, analisi scientifica del voto degli Italiani”

  1. Nicola Facciolini ha detto:

    E’ una sintesi “ardita” di uno Speciale di 26 pagine. Spero si capisca!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *