Alternative praticabili e non solo consenso

Dice Napolitano che ci volle coraggio ed un grande amore per la Nazione per portare a termine, nel 1976, quello che è passato come il “compromesso storico”, che portò per la prima volta i comunisti nell’area di governo. E trema soprattutto Bersani, gelato dall’uscita del Colle, con l’Unità che sembra accogliere positivamente l’invito del capo […]

Dice Napolitano che ci volle coraggio ed un grande amore per la Nazione per portare a termine, nel 1976, quello che è passato come il “compromesso storico”, che portò per la prima volta i comunisti nell’area di governo. E trema soprattutto Bersani, gelato dall’uscita del Colle, con l’Unità che sembra accogliere positivamente l’invito del capo dello stato, mentre Claudio Cerasa sul Foglio racconta che tra i collaboratori di Bersani c’è chi immagina che il modello sia il “governo di minoranza Andreotti del 1976”, e che quindi un appoggio esterno della destra sia quanto ora richiesto dal Presidente in uscita.
Ma sulla Stampa Amedeo Lamattina dice che il Pdl chiede “pari dignità nell’esecutivo”: non un appoggio esterno, ma un’intesa organica, ipotesi presa con molta prudenza e vari distinguo dal Pd di Bersani.
Ad Agorà, su Rai3, Bersani dice che lui, a suo modo, ha “una proposta di larghe intese2 ma fatta “in un certo modo”, per cui, ciò che lui dirò, probabilmente venerdì incontrando Berlusconi, è che è possibile “un governo di cambiamento su pochi punti “ e che si possa fare “una convenzione sulle riforme presieduta da chi non è al governo” e, ancora “si cerchi insieme un presidente della Repubblica con una larghissima base parlamentare”.
E’ un caso che sui giornali di oggi le lotte e strategie per un governo che non si forma e per una unità inseguita ma mai per davvero, siano accanto ai commenti su Margaret Thatcher, la “Lady di ferro” scomparsa ieri che, ricorda Paola Peduzzi sul Foglio, “non cercava il consenso come fanno i politici, perché sapeva di avere ragione “.
Antonio Polito sul Corriere ricorda la donna con un “extraordinary sense of uniquely being right“, con la consapevolezza straordinaria di avere ragione e che, per questo, era incurante delle critiche.
“Lei legge i giornali che la criticano? – le chiese una volta Berlusconi, secondo il racconto di Antonio Martino sulla Stampa – e lei rispose “Io leggo solo quelli che mi sostengono”.
Un esempio che esalta molti (come il “renziano” Luigi Zingales sulla Stampa, che spiega che quel mix di “integrità e decisionismo” servirebbe anche a sinistra), ma che conta anche molti detrattori: sull’Unità Massimo Salvadori ricorda che l’esplosione incontrollata del settore finanziario iniziò proprio con lei. Mentre il “Sole 24 Ore” ospita il commento di Romano Prodi: le sue politiche, scrive il Professore, “hanno creato le condizioni per l’esplosione della più drammatica crisi finanziaria (e ormai anche economica) del dopoguerra”.
E mentre i “soloni” “soloneggiano” e gli strateghi disegnano strategie, nessuno sembra ricordare le parole di Riccardo Lombardi, ne’filo ne’ anticomunista, il primo prefetto di Milano liberata dal nazi-fascismo, che sognava sin dal 1967, “una società più ricca perché diversamente ricca”, non più povera, in stile ‘francescano’ oggi di moda, ne’ austera e più triste. Ma ‘diversamente ricca’, nel rendere fruibili a tutti quei beni materiali – lavoro, salario, casa – necessari alla sopravvivenza e quei beni immateriali – cultura, istruzione, formazione continua, tempo libero, qualità della vita – indispensabili all’identità’ e crescita personali di ciascuno, a cui la ‘Fondazione Basso’ dedica il convegno ‘Lombardi 2013′, in programma domani e giovedì; che redarguendo De Gasperi nel 1946, ebbe ha dire “[…] Non c’e’ nessun altro problema […] che sia così essenziale come quello della disoccupazione […] Si sacrifichi qualunque altra cosa, si sacrifichino anche dei principi ma il problema della disoccupazione deve essere risolto […] E’ necessario che questa gente abbia il minimo indispensabile per una vita civile”.
Secondo lui, assicurato un lavoro, un salario e una casa decenti, andavano resi disponibili altri ‘beni’, la cultura, l’istruzione, il tempo libero, la formazione continua, la qualità della vita: cose che oggi rientrano nei ‘beni comuni’, universali e relazionali.
Proponeva un’alternativa al sistema capitalistico (“il capitalismo e’ diventato troppo costoso per l’umanità’”) e al neoliberismo (“il mercato va regolato e non lasciato libero”, come avvenne nel ’29) mediante le riforme di struttura e l’intervento attivo dello Stato. Corrispondeva a quella che in ‘Lettere a Marta’, Antonio Giolitti – uno degli ‘amici compagni’, come Bruno Trentin, Vittorio Foa, Fernando Santi, Giuseppe Di Vittorio, Fausto Vigevani, Giorgio Ruffolo – chiamava “l’alternativa credibile, affidabile, praticabile”.
Il “compromesso storico” teorizzato da Berlinguer e reso possibile da Moro, nonostante le “discontinuità” (secondo Vacca) che pure presenta, è, per certi versi, il “catalizzatore” di una tendenza strategica di lunga durata, che nasce dalla storia italiana (e mondiale) della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, allorché, sotto la spinta dei grandi movimenti di massa del 1968-69, matura quella grande avanzata del movimento operaio e democratico, a cui lo Stato italiano e l’alleato americano reagiscono innescando la strategia della tensione. Ed oggi, in Italia e nel mondo, di tensione ve n’è tanta, di ordine economico e sociale, politico ed anche culturale e di modelli.
Sul significato del compromesso storico – e in particolare della “solidarietà nazionale” – ha scritto G. Chiaromonte: “Cercammo di portare al più alto livello di coerenza e concretizzazione la grande svolta avviata, nel 1944, da Togliatti, nel senso di uno sviluppo del PCI da partito di denuncia, di propaganda, di testimonianza, a partito che fa politica, che lotta per avviare a soluzione i problemi delle masse e del paese, a partito di governo. Non potevamo tirarci indietro”.
Il fallimento di quell’encomiabile tentativo, si deve in primo luogo al fatto che il gruppo dirigente comunista peccò di verticismo e politicismo, nel senso che ridusse quella che era una strategia di portata “storica” – e che richiedeva un forte e costante protagonismo di massa – a una serie di incontri, contatti, trattative, che finirono per sfiancare il PCI e logorarlo proprio sul piano dei rapporti di massa, anche a causa delle eccessive mediazioni cui il Partito si sottopose.
Ma oggi, a guardare le statistiche, la più parte degli elettori Pd vuole un governo fatto di larghe intese, concentrato sulla risoluzione dei nodi cruciali del lavoro, delle tasse, della legge elettorale e dei costi della politica e della pubblica amministrazione.
La morte di Moro Moro tolse alla strategia berlingueriana il suo interlocutore, il che in qualche modo le impedì di esplicarsi completamente.
Speriamo che ora qualcuno comprenda che è la base a volere che un dialogo, su temi seri e condivisi, debba essere ripreso.

Carlo Di Stanislao

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