Giulio Andreotti Padre della Patria, Leader della Repubblica, Maestro del Buongoverno

“Non mi piacciono le biografie da vivo. Però capisco che ci si occupi di me. In fondo, io sono postumo di me stesso”(Giulio Andreotti). L’Italia s’inchina a Giulio Andreotti, tra i protagonisti indiscussi della vita politica, culturale, economica e sociale italiana della seconda metà del XX Secolo e dell’alba del XXI. Colto, intelligente, umile, arguto, […]

Non mi piacciono le biografie da vivo. Però capisco che ci si occupi di me. In fondo, io sono postumo di me stesso”(Giulio Andreotti). L’Italia s’inchina a Giulio Andreotti, tra i protagonisti indiscussi della vita politica, culturale, economica e sociale italiana della seconda metà del XX Secolo e dell’alba del XXI. Colto, intelligente, umile, arguto, co-fondatore dell’Alleanza Atlantica, profondo conoscitore dell’animo umano, di pregi, vizi (oggi spacciati per “nuovi diritti”) e virtù di uomini e donne, il Presidente Giulio Andreotti è stato tra i Politici più importanti della Repubblica Italiana e della Democrazia Cristiana (Dc), il partito-Stato più influente in Occidente durante la Guerra Fredda, latore di veri posti di lavoro a tempo indeterminato e creatore di solide famiglie e imprese italiane. Sicuramente Andreotti è stato Padre della Patria, Leader indiscusso della Repubblica e Maestro del Buongoverno. Ultimo autorevole politico cattolico italiano nello scacchiere internazionale, la Storia già lo annovera tra i più scaltri Conservatori europei: coerente e credibile per la promozione della pace, del benessere, del lavoro e della vita. Sapeva tener testa alla stessa Margaret Thatcher, il Primo Ministro britannico, al Presidente degli Stati Uniti d’America G. Bush, ed a Henry Kissinger, “mostro” sacro del vero potere statunitense mondiale. Il cristiano Andreotti non amava le guerre, neppure quelle definite “umanitarie” a uso e consumo dei produttori dei sistemi d’arma mondiali. Non amava neppure l’aborto e il divorzio ma seppe criticare i promotori cattolici del referendum abrogativo fallimentare che mise in grande difficoltà la Democrazia Cristiana. Presidente del Consiglio dei Ministri per sette volte, senatore a vita, Andreotti ha ricoperto numerosi incarichi di governo come ministro e sottosegretario fin dall’età di 28 anni. Si è spento il 6 Maggio 2013 alle ore 12:25 nella sua abitazione romana all’età di 94 anni. Lascia un immenso archivio di 3.500 faldoni. I funerali, alle ore 17 del 7 Maggio, si sono tenuti nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, a Roma, la sua Parrocchia, a due passi dalla casa del senatore. Aveva compiuto 94 anni il 14 Gennaio scorso. Era stato ricoverato il 3 Maggio 2012 al Policlinico Gemelli di Roma per una crisi respiratoria. Da allora, dimesso dall’ospedale, le sue condizioni erano migliorate ma non si era mai ripreso completamente. Presso il portone del civico 326 di Corso Vittorio Emanuele, la casa di Andreotti dove è stata allestita la camera ardente, si è subito riunita una folla di politici, giornalisti, reporter, cameramen, fotografi e semplici cittadini. Di tutto il mondo. Per Andreotti niente camera ardente al Senato della Repubblica. Niente funerali di Stato come anticipato da Patrizia Chilelli, storica segretaria del Presidente, al suo fianco dal 1989. “Era un grande uomo che mi ha insegnato tanto. Solo chi gli è stato davvero a fianco ha potuto capire l’uomo, non solo il politico”. Numerose le reazioni dopo la diffusione della notizia. La prima dichiarazione è dell’amico democristiano Cirino Pomicino (www.paolocirinopomicino.it/):“Lo stato d’animo è quello di chi ha perduto un amico e un maestro di vita e di politica, nei prossimi anni si vedrà cosa Giulio Andreotti ha dato al Paese”. In effetti, 23 anni dopo, gli Italiani possono benissimo raccogliere i cocci della cosiddetta “Seconda Repubblica”, i cui “frutti” sono serviti a dovere nelle tasche e nelle tavole dei cittadini. Giulio Andreotti delle 400mila preferenze personali romane conquistate porta e porta (e non per nomina parlamentare!) fu l’Italia del boom economico, della spesa pubblica produttiva e delle grandi opere statali. Alla fine della sua lunga parabola politica, sicuramente “tradito” da alcuni suoi “amici” che reputava integerrimi, gli toccò pagare il fio del debito pubblico alle stelle: il potere d’acquisto degli Italiani alle stelle negli Anni Ottanta del secolo scorso, era già un lontano ricordo. Dagli all’untore! Che storia! Sconfitto il terrorismo di ogni matrice, la Dc avrebbe dovuto sbarazzarsi delle mafie tentacolari, salvando gli Italiani e il Partito. Così non accadde e il “mostro” della disinformazione trascinò negli abissi, tra un delitto e l’altro, anche la Balena Bianca! Dopo aver partecipato al primo Ciak del kolossal “Ben Hur” di William Wyler nella Capitale ed all’organizzazione delle Olimpiadi di Roma nel 1960, Giulio Andreotti conquista la cultura italiana e il cinema. Nel film del 1963 “Gli onorevoli” di Sergio Corbucci, con una candidata democristiana interpretata da Franca Valeri, un comunista all’Aroldo Tieri, un liberale alla Gino Cervi e un missino alla Peppino De Filippo, tra i bonariamente presi in giro c’è anche un monarchico interpretato da Totò che diventerà memorabile per il suo martellante “Vota Antonio!”. La cui moglie però vota Dc. “Non c’è rosa senza spine, non c’è governo senza Andreotti!” – spiega. Nel 1973 il Canzoniere del Lazio, gruppo folk revival italiano, fa uscire il suo primo LP che si intitola “Quando nascesti tune”. Tra le canzoni, ce n’è una di protesta con una strofa che canta: “tre/ noi volessimo sapè/ se Andreotti s’è deciso/ de mannacce in paradiso”. Nel 1983 il famoso film surreale e quasi fantascientifico “Il tassinaro” immortala Alberto Sordi nel ruolo di un tassista romano che incrocia personaggi anonimi e famosi. Tra i famosi camei di sé stessi, accanto a Federico Fellini, Silvana Pampanini e Paolo Frajese, c’è naturalmente Giulio Andreotti che, alle insistenti richieste del buon padre di famiglia Sordi per il figlio laureato in cerca di lavoro, propone di risolvere il problema della disoccupazione dei laureati con il numero chiuso alle Università. Nel 1992 Francesco Baccini pubblica l’album “Nomi e cognomi” in cui una della canzoni è dedicata a Giulio Andreotti. Nell’Anno Domini 2000 Andreotti è il protagonista del cartone animato di Mario Verger. Sempre nel 2000 il Divo Giulio fa la pubblicità alla Diners. Nel 2005 la pubblicità ai cellulari della compagnia Tre assieme a Valeria Marini (auguri e autentici figli maschi!) e Claudio Amendola. Nel 2008 a Giulio è dedicato il famoso film “Il Divo” di Paolo Sorrentino, premiato a Cannes. Sarà pure definito dall’interessato “una mascalzonata” per aver tirato in ballo pure la carissima moglie, ma poi ritirerà l’epiteto, rinunciando alla querela ed ammettendo che “se uno fa politica pare che essere ignorato sia peggio che essere criticato”. Non è da tutti assistere alla proiezione della propria gloriosa vita politica, seppur deformata dall’ideologia dominante di chi oggi spudoratamente si vergogna, pur nell’inciucio PD-PDL (altro che Grande Coalizione!), del proprio passato democristiano. Nel 2008 Andreotti incrocia la vita dell’autore di quelle note, firmando la prefazione al suo libro “Grandi Coalizioni”. La prova definitiva che Andreotti in Italia è veramente dappertutto. Come oggi in Cielo, alla presenza dell’Altissimo, con la sua “scatola nera” di Giannelli. Ha 26 anni quando il 5 Aprile del 1945 Giulio Andreotti viene designato a quella Consulta Nazionale che è il primo Parlamento, sebbene cooptato, della nuova Italia democratica. Poi è alla Costituente. Quindi alla Camera. E, dal primo giugno 1991, Senatore a vita. Era rimasto l’ultimo ad aver fatto parte del Potere Legislativo ininterrottamente. Non solo dall’inizio della Repubblica, ma attraverso la Consulta anche dalla fine della monarchia sabauda. Sette volte Presidente del Consiglio: col Quadripartito centrista tra 1972 e 1973; con la Solidarietà nazionale appoggiato dal Pci tra 1976 e 1979; col Pentapartito tra 1989 e 1992. E poi otto volte ministro della Difesa; cinque volte ministro degli Esteri; tre volte ministro delle Partecipazioni Statali; due volte ministro delle Finanze, ministro del Bilancio e ministro dell’Industria; una volta ministro del Tesoro, ministro dell’Interno, ministro dei beni culturali e ministro delle Politiche Comunitarie. Come ministro dell’Interno, a soli 34 anni, fu anche il più giovane nella storia della Repubblica Italiana. Ma era entrato a 27 anni al governo per la prima volta come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di Alcide De Gasperi, il primo Presidente del Consiglio ad avere un ministro donna, Tina Anselmi. La carriera politica di Giulio Andreotti, tuttavia, non si conclusa con la fine della Prima Repubblica e della Dc. Nel 2001 provò a tenere a battesimo l’ancora prematuro esperimento neo-centrista di Democrazia Europea. Nel 2006 fu candidato contro Franco Marini alla presidenza del Senato e nel 2008 ne presiedette comunque la prima seduta come più anziano dei presenti. Nessun altro uomo politico nella Storia dell’Italia degli ultimi 150 anni ha continuato ad attraversare indenne e così a lungo la vicenda istituzionale del Paese. Neanche ai tempi del Regno. Anche per questo motivo nell’immaginario collettivo il Divo è diventato un personaggio quasi immortale che avrebbe dovuto sopravvivere per sempre. Nato a Roma da genitori originari di Segni e rimasto precocemente orfano del padre, Andreotti raccontava di aver vissuto da ragazzo presso una vecchissima zia, classe 1854, “nella casa nella quale io sono nato”. Alcuni dei suoi primi aneddoti da politico in erba riguardano i contatti che tramite De Gasperi ebbe con i vecchi “mostri” sacri dell’Italia liberale: Benedetto Croce, Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando. Quest’ultimo in particolare lo impressionava perché era stato il presidente del Consiglio di cui aveva studiato a scuola che aveva vinto la Grande Guerra nel 1918: un personaggio nato a Palermo nel Regno delle Due Sicilie, nove giorni prima dell’arrivo dei garibaldini. Gli Italiani, i democristiani ma anche gli avversari politici comunisti che lui ha sempre rispettato e mai delegittimato (come è costume tra i politicanti negli ultimi 20 anni), nel contatto con Andreotti hanno sempre incarnato il senso del loro radicamento nella Storia d’Italia. Da giovane era così malandato in salute che quando si presentò per fare il servizio di leva come ufficiale di complemento al Celio un medico lo riformò pronosticandogli “non più di sei mesi di vita”. A parte la sua straordinaria vitalità, sarebbe diventato ministro della Difesa. E dei più temuti. Proprio alla sua permanenza in quel delicato incarico, un mito avrebbe attribuito un armamentario di dossier tali da far tremare mezzo Vecchio Continente. Andreotti è stato un autentico “self-made man” all’italiana. Il Ginnasio al “Visconti”, il Liceo Classico al “Tasso”. Poi a Giurisprudenza invece che a Medicina perché la frequenza non obbligatoria gli permetteva di aiutare il bilancio familiare, lavorando come  avventizio all’Amministrazione Finanziaria. Nel frattempo entra nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana, diventa nel 1939 direttore della rivista Azione Fucina e poi nel 1942 presidente della FUCI al posto di Aldo Moro richiamato alle armi.  Inizia una tesi in Diritto della Navigazione durante la quale finisce alla Biblioteca Vaticana per chiedere materiale sulla Marina Pontificia. “Ma lei non ha niente di meglio da fare?” – gli chiede un impiegato. Si laurea. Poco dopo, con lo spietato regime nazi-fascista ormai agli sgoccioli, Andreotti va a una riunione convocata dall’ex-presidente della Fuci, Spataro, per preparare un nuovo partito cattolico. Ci ritrova “il signore dei libri”, il famoso De Gasperi. “Vieni a lavorare con noi” – gli dice. Nel 1944, al termine della presidenza della Fuci, Andreotti diventa responsabile dei giovani democristiani. È l’inizio della sua carriera che attraverserà oltre 60 anni: tutto il XX Secolo e l’inizio inoltrato del XXI. Subito in cattedra come braccio destro di De Gasperi, di lui il maestro Indro Montanelli racconterà la celebre battuta: “quando entravano in chiesa Ge Gasperi parlava con Dio, Andreotti col prete”. Altrettanto célèbre è la controbattuta del Divo:“ma a me il prete rispondeva” e votava! Molte le “passio” di Andreotti: dal coinvolgimento nel 1958 nello scandalo Giuffrè, in seguito alle accuse di un memoriale giudicato falso, fino all’accusa di rapporto con la mafia, da un’assoluzione in primo grado e una condanna in secondo fu infine scagionato dalla Cassazione nel 2004. Andreotti è stato un personaggio coinvolto in una qualità di vicende giudiziarie e accuse senza precedenti. Gli sconfitti non smetteranno mai di leccarsi le ferite alla luce della Storia. Tanti i misteri irrisolti: dall’aeroporto di Fiumicino ai dossier del Sifar, al caso Giannettini, al golpe Borghese, all’omicidio Pecorelli, alle vicende di Sindona. Eppure, mai nessuno è riuscito a compromettere la sua carriera politica. Lo stesso Andreotti amava scherzarci sopra:“guerre puniche a parte, nella mia vita mi hanno accusato di tutto quello che è successo in Italia”. Ragion per cui è meglio evitare di stare troppo al potere. Del tutto inconsueto per un politico giudicato a torto o ragione “machiavellico”, è il suo famoso senso dell’umorismo da cui non ha mai risparmiato neanche sé stesso. Del tutto inconsueto per la maggior parte dei politici tout court, è pure un profilo da intellettuale che mai l’Italia accademica finirà di ringraziare: Andreotti è autore di una cinquantina di libri. Dalla memorialistica allo studio storico passando per esperimenti di narrativa. Famose le sue battute poi immortalate in aforismi a volte fuori luogo:“il potere logora chi non ce l’ha”. Celebri le sue risposte fulminanti a Roberto Gervaso che gli chiedeva:“sulla lapide di chi scriverebbe fece più male che bene, ma il male lo fece bene e il bene lo fece male?”. Andreotti:“non mi occupo di pompe funebri!”. Un intellettuale scettico ed elitario. “Non credo che nessuno lo abbia mai sentito gridare, né visto in preda all’agitazione” – scrisse di lui Enzo Biagi. “Non ho un temperamento avventuroso e giudico pericolose le improvvisazioni emotive. Lavorare molto m’è sempre piaciuto. È una utile deformazione” – diceva il Presidente di sé. A suo modo era popolarissimo: dall’ostentato tifo per la Roma alle preferenze a raffica (400mila, sudate porta a porta!) che prendeva quando si candidava a deputato. Biagi così lo descrive:“legge romanzi gialli, è tifoso della Roma, e si compera l’abbonamento, frequenta le corse dei cavalli, è capace di passare un pomeriggio giocando a carte, e l’attrice che preferiva, in gioventù, era la bionda Carole Lombard, colleziona campanelli e francobolli del 1870. Padre di quattro figli, ha la fortuna che la sua prole tende a non farsi notare. E neppure la signora Livia, la moglie, di cui non si celebrano né gli abiti né le iniziative. Non c’è aneddotica sulla signora Andreotti”. Eppure gli stessi sostenitori consideravano la sua fama luciferina come parte del suo carisma, a partire dai soprannomi di cui il Presidente ha fatto ideale collezione: il divo Giulio, Belzebù, Zio Giulio, Talleyrand,  Molok, la Sfinge, il Papa Nero, il Gobbo, la Volpe, la Vecchia Volpe, l’Indecifrabile. Ma i suoi avversari erano i primi a sostenere la tesi della sua enorme capacità e intelligenza, sia pure “al servizio di cause sbagliate”. O, più frequentemente, “l’edizione a un potere fine a sé stesso”. Diceva Montanelli:“Mi faccio una colpa di provare simpatia per Andreotti. È il più spiritoso di tutti. Mi diverte il suo cinismo, che è un cinismo vero, una particolare filosofia con la quale è nato. È distaccato, freddo, guardingo, ha sangue di ghiaccio. È autenticamente colto, cioè di quelli che non credono che la cultura sia cominciata con la sociologia e finisca lì”. Giorgio Galli, il politologo, attribuì una volta a Giulio Andreotti un’aura quasi taumaturgica per la sua capacità di essere dappertutto. La bilocazione non c’entra affatto. Giulio era utile “a sinistra, al centro e a destra” contemporaneamente. Uomo dell’abbraccio a Graziani, dei governi appoggiati dal Pci, dell’opposizione al centro-sinistra per il ritorno al centrismo, del ritorno alla collaborazione col Psi, della lealtà atlantica, di Sigonella, dell’antipatia con Craxi e del CAF. La querelle, divenuta cultura giudiziaria e popolare, della sua vicinanza alla Mafia siciliana di Cosa Nostra, sia pure messa assieme al particolare che col suo governo il ministro della Giustizia Claudio Martelli promosse il giudice Giovanni Falcone a protagonista della lotta anti-mafia. Anche la sua fama di personaggio extraterrestre, alieno alle prove di forza, sia pure confrontata al particolare che comunque Andreotti fu con il suo governo l’uomo politico italiano capace di opporre il muro contro muro totale alle Brigate Rosse dopo il rapimento dell’amico Aldo Moro. Tra i tanti passaggi storici di cui fu protagonista Giulio Andreotti ce n’è uno che spesso viene tralasciato ma che la Storia saprà giudicare. Il rapporto tra Moro e lo stesso Andreotti, in particolare una delle leggi che da presidente del Consiglio Andreotti fu costretto a firmare e che all’ex senatore a vita provocò una clamorosa crisi di coscienza. Era il maggio del 1978 e quella legge era la famosa “194” sull’aborto. Scrive Andreotti:“Ebbi una crisi di coscienza e mi chiesi se dovevo firmare quella legge. Ma se io mi fossi dimesso nessun altro democristiano avrebbe potuto firmarla: si sarebbe aperta una crisi politica senza sbocco prevedibile e in un momento grave per il paese. Una crisi che avrebbe forse creato anche complicazioni internazionali. E da parte mia, con le dimissioni, avrei contribuito a un male maggiore di quello che volevo evitare. Così firmai. Sì, quella fu la prima grande legge approvata dopo Moro e in effetti io ricordo che noi rimanemmo molto male, per esempio, che data la tensione che c’era gli altri partiti non vollero nemmeno sospendere per qualche momento le sedute proprio quando eravamo tutti tesi alla ricerca di Moro. Questo fu uno dei motivi anche più aspri di discussione. A mio avviso, era comunque arrivata a livello parlamentare una svolta nella quale il ‘sì’ e il ‘no’ erano ormai maturi. Ritardare, certo, poteva evitare nell’immediato un impatto un po’ traumatico; però avrebbe anche protratto un dibattito su un tema così forte che giustamente interessava tutte le forze politiche e che, dall’altra parte, non poteva naturalmente essere l’unico tema a cui dedicare tutte le nostre forze. In quel contesto – rivela Giulio Andreotti – è corretto dire che riuscire a convergere su una legge di quel tipo fu un segnale politico forte. Dopo tensioni molto forti in un paese c’è, e ci deve essere, un momento di respiro; un raffreddamento che qualche volta porta a vedere meno intensamente anche problemi importanti. Ma siccome la gran parte delle legislazioni del mondo l’aborto lo contemplava, ringraziamo Dio che ce lo siamo levato di torno perché ce lo saremmo ritrovato successivamente e magari avrebbe complicato ancora di più le cose”. Da tempo, quando gli si chiedeva come stesse, il Presidente rispondeva laconico:“Sopravvivo”, senza civetteria, convinto che la sua epoca fosse davvero finita. La voce, lo sguardo, il fisico erano cambiati profondamente, dopo i novant’anni come rivelano le puntate di “Porta a Porta” con le interviste del giornalista aquilano Bruno Vespa. Il Senatore Andreotti era stanco, afflosciato, non incurvato, ma quasi piegato e svuotato. Pure la gobba in grado di scavare la poltrona senatoriale di palazzo Madama, immortalata dal tg satirico Striscia La Notizia, era diventata motivo tragicomico di derisione. Le “dita da pivot” che aveva descritto una volta, ammirata, il suo avvocato Giulia Bongiorno, apparivano ossute, quasi adunche. Mani anziane per un politico tenebroso considerato a lungo senza età. L’uomo delle battute fulminee, della memoria di ferro, della puntualità britannica che finiva per arrivare in anticipo, stava entrando in un’altra dimensione atemporale? Macché. Perfino i due auricolari che portava per compensare la sua sordità senile e che prima apparivano come un paio di orecchini tecnologici, pur sottolineando la fatica di ascoltare, capire e perfino accettare il mondo che lo circondava che non era più il suo, mascheravano la sua lucidità. Finché è stato vivo, Andreotti ha tenuto artificialmente in vita non soltanto la Prima Repubblica capace di resuscitare, di tornare in auge, di riportare l’Italia al glorioso passato del potere d’acquisto dei cittadini, seppur controverso, osservato con una punta di nostalgia da quanti lo confrontano alla crisi di identità di oggi. D’altronde, il Divo era il sopravvissuto per antonomasia: a due guerre mondiali, a sette papi, alla monarchia, al fascismo, alla Prima ed alla Seconda Repubblica, a sei processi per mafia e omicidio, ai sette governi presieduti. Andreotti simboleggiava la Democrazia cristiana come immarcescibile partito-Stato crocevia di una reale complessità italiana che intreccia Vaticano, Stati Uniti, mondo arabo, atlantismo, terrorismo, santi, servizi segreti, mafie e immoralità dilaganti in Europa e in Italia. Nella Dc, tuttavia, Andreotti non aveva mai avuto incarichi. Era un esponente del governo e del parlamento, dei poteri esecutivo e legislativo. E tale è rimasto per sempre. Da quando Alcide De Gasperi, d’accordo con Pio XII, lo nominò sottosegretario a 27 anni, nel 1946. Fino al suo ultimo governo della Prima Repubblica, dal 1989 al 1992. Il professor Andrea Riccardi, ex ministro nell’esecutivo “tecnico” di Mario Monti (2011-13, cioè 18 mesi), una volta ha definito Andreotti “un cardinale esterno”, per scolpire i suoi rapporti organici con il Vaticano, cioè con la Curia romana. E l’ex capo di Stato Francesco Cossiga lo paragonava a una sorta di “segretario di Stato vaticano permanente”, seppure prestato all’Italia. Il socialista Rino Formica lo osservava come un extraterreno:“In lui ci sono duemila anni di storia. Ci sono il sacrificio di Cristo, la papessa Giovanna, i Borgia, l’inquisizione, la diplomazia”. Una sintesi suggestiva e verosimile per l’Italia immersa con l’Europa e il resto del mondo nella Guerra Fredda fino alla caduta dell’Unione Sovietica e del Comunismo nel 1991. Di quell’equilibrio geopolitico Giulio Andreotti fu il sommo interprete e il perfetto regista. In un mondo diviso in due schieramenti ideologici nemici, il Divo si muoveva come nei suoi ministeri con passo felpato, accorto e sempre consapevole che ci potevano essere piccoli strappi, compromessi più o meno inconfessabili, intese col “nemico” come insegna il grande presidente americano John F. Kennedy del quale si celebrano nel 2013 i 50 anni dalla tragica scomparsa con l’apertura dei primi scottanti dossier. Intese sì, quelle di Andreotti, ma a patto che non si superassero gli equilibri atlantici. Così, partendo da questa legge fondamentale, è riuscito a pattinare dai liberali all’accordo con i comunisti e poi con il Pentapartito anticomunista, rimanendo sempre uguale a se stesso, indifferente alle alleanze perché il suo ruolo era quello di difendere, da Conservatore, il più possibile lo status quo, il primato democristiano e soprattutto gli equilibri interni e internazionali di cui i governi italiani erano l’involucro democratico. Ruolo oggi conquistato dalla Germania in Europa. Ma quando i paradigmi sono cambiati, Andreotti si è trovato spiazzato. Nel 1989, tornando a Palazzo Chigi, si era guardato intorno ed aveva detto rassicurato: “Qui non è cambiato niente”. E, invece, stava cambiando tutto: presto si è trovato orfano della guerra fredda, della Dc, delle ambizioni presidenziali sul Quirinale. Alla fine, imputato per mafia e poi per omicidio, in alcuni dei processi più spettacolari e controversi della storia politico-giudiziaria italiana, ne è uscito quasi indenne, con più di un’assoluzione e una prescrizione dei reati di cui era accusato. Chissà, quell’odore di zolfo dal quale prima, quando era al potere, si lasciava avvolgere con civetteria luciferina, e che alla fine lo ha accompagnato come un’ingiusta maledizione esagerata, oggi può ben dirsi che si sia trasmesso ad altri (politicanti allo sbaraglio) ben più “pericolosi” del Divo. Perché la vera Politica è defunta per sempre. Una volta, negli anni Cinquanta del Secolo scorso, chiesero ad Andreotti che avrebbe fatto se avesse avuto un potere assoluto: “Probabilmente qualche sciocchezza” – rispose. Dopo 50 anni, teorizzava che “il potere logora chi non ce l’ha”, profetizzando l’involuzione di un sistema politico nel quale era impossibile l’alternativa. Nel 2009, per i novant’anni ebbe un sussulto di popolarità e di protagonismo. Ma negli ultimi due è vissuto in una bolla di oblio, protetto da una famiglia meravigliosa. Tale è sempre stata la sua discrezione trasmessa a due figlie e due figli. Quando seppe che si stava scrivendo una biografia su di lui, disse:“Non mi piacciono le biografie da vivo. Però capisco che ci si occupi di me. In fondo, io sono postumo di me stesso”. Ma non sarà mai “postumo”. Non più di quanto lo siano già in vita tanti giovani e vecchi politicanti italiani dopo 20 anni o tre mesi di nullità politica. Per questo oggi non è facile convincere il mondo che Andreotti non c’è più. Forse perché rimane, come la memoria di certi potenti dinosauri alla T-Rex, se non come autobiografia, come campione e specchio per lunghi decenni della maggioranza silenziosa, operosa e moderata dell’Italia, della Lira, del Lavoro e dell’Impresa. Del Made in Italy. Sarà per questo motivo che dalla Gran Bretagna alla Spagna, dagli Stati Uniti al Giappone, dall’Australia all’Africa, dall’India all’America latina, la scomparsa di Giulio Andreotti irrompe come “breaking news” sui media internazionali, rimbalzando nella fascia dedicata alle “urgentissime” sui siti della britannica Bbc, dei quotidiani spagnoli El Mundo e El Pais e, oltralpe, della France tv che lo descrive come “figura emblematica della Democrazia cristiana”. In Francia la notizia è in evidenza su Le Figaro mentre in Germania irrompe sulla prima pagina del tabloid Bild. Andreotti fu sempre rieletto alla Camera dei deputati fino al 1991, quando Francesco Cossiga lo nominò Senatore a vita. Tra i leader più votati della Democrazia cristiana, abilissimo nel muoversi tra le numerosi correnti della “Balena bianca”, per i suoi detrattori era solo un politico cinico e machiavellico. Giudizi sprezzanti che lui stesso amava coltivare. “A pensare male si fa peccato ma di solito ci si indovina” – amava dichiarare. Ha difeso Papa Pio XII da ogni attacco. Politicamente il Divo rappresentava l’ala più conservatrice e clericale della Dc. I suoi avversari interni erano i fautori del centrosinistra, come Moro e Fanfani. Vastissima la sua rete di contatti internazionali. Nel 1972 riuscì ad arrivare alla presidenza del Consiglio per dar vita a un governo di centro che fu il più breve della storia repubblicana: solo 9 giorni, dalla fiducia alle dimissioni. Ma Giulio non si scoraggiò e, in seguito, arrivò a guidare per sette volte il governo. Uno addirittura con l’appoggio esterno del Pci. Fu il governo della “non sfiducia” nel 1976, chiamato così perché si reggeva grazie all’astensione dei partiti dell’arco costituzionale. Tutti tranne il Movimento sociale italiano. Bettino Craxi non lo vedeva di buon occhio. Fui lui a coniare il soprannome di “Belzebù”. Ma tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, Andreotti strinse un patto di ferro proprio con il leader socialista. Passeranno alla Storia come gli anni del CAF (dalle iniziali di Craxi, Andreotti e Forlani). Il Pci lo considerava come il peggio del peggio della politica italiana. Nel 1992 non riuscì a farsi eleggere Presidente della Repubblica. Nel 2008 il regista Paolo Sorrentino nel film “Il Divo” lo descriveva come responsabile onnipotente di mille nefandezze. Ma la sua battuta fulminante diventata famosa paralizzò tutti: “una smentita è una notizia data due volte”. L’immenso archivio cartaceo di Andreotti (3.500 faldoni, dal 1944 in poi) che, negli ultimi anni della sua carriera parlamentare, aveva sede nel suo ufficio, è stato acquisito dalla Fondazione Sturzo. Giulio Andreotti è stato la Democrazia Cristiana, pur non essendo stato mai stato segretario della Democrazia Cristiana. Andreotti è stato la Politica italiana: ha condensato il bene e il male degli Italiani. Una personalità straordinaria. Uno statista internazionale conosciuto in tutto il mondo. Un cattolico vero. Un grande statista cristiano che ha sempre creduto nelle Istituzioni. Al di là delle numerose critiche interne, aveva un prestigio internazionale che raramente i politici italiani hanno ricevuto. È stato un artefice della ricostruzione del Paese, un pezzo di vita di questa nazione che collaborò con uomini come De Gasperi, Fanfani e Moro. Il neoeletto Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio alla famiglia:“Sulla lunga esperienza di vita del Senatore Giulio Andreotti e sull’opera da lui prestata in molteplici forme nel più vasto ambito dell’attività politica, parlamentare e di governo, potranno esprimersi valutazioni approfondite e compiute solo in sede di giudizio storico. A me spetta in questo momento rivolgere l’estremo saluto della Repubblica a una personalità che ne ha attraversato per un cinquantennio l’intera storia, che ha svolto un ruolo di grande rilievo nelle istituzioni e che ha rappresentato con eccezionale continuità l’Italia nelle relazioni internazionali e nella costruzione europea”. Il Divo è stato un protagonista della democrazia italiana sin dalla nascita della Repubblica dopo i traumi della dittatura e della guerra, ininterrottamente presente nelle istituzioni e nelle assemblee rappresentative. Con lui se ne va un attore autentico di primissimo piano di oltre sessant’anni di vita pubblica nazionale. Andreotti ha “unto” la Politica italiana. Ha superato con dignità e compostezza il suo calvario giudiziario, uscendone vincitore. I vinti saranno presto dimenticati. Con la morte di Giulio Andreotti scompare un simbolo della nostra vita democratica. Un uomo che è stato capace, con alto senso dello Stato e con un’intelligenza non comune, di segnare tanti momenti fondamentali delle nostre Istituzioni e della vita degli Italiani. Con Giulio Andreotti muore una personalità che ha espresso lo spirito più profondo della Dc. Per lui la mediazione non era l’inciucio bensì l’essenza della politica e andava esercitata con tutti, dal Pci ai grandi gruppi economico-finanziari, dagli alleati politici fino agli uomini del territorio di cui si fidava. Sicuramente Andreotti è l’unico al mondo che ha diritto di chiamarsi uomo politico e statista. Sono pochi gli italiani che lo ricordano. Un uomo di simile statura è più unico che raro. Un politico altamente preparato e onesto, all’altezza dei compiti che gli venivano affidati. È stato capo di Stato e un capo di Stato, come riconoscono tutti, deve tenere i segreti che gli vengono affidati. E gli Ufo alieni extraterrestri non c’entrano affatto, fino a prova contraria. Andreotti ha semplicemente fatto il suo dovere, ha usato poteri e segreti per dare lavoro e benessere al suo popolo. I segreti li aveva e se li è portati via con sé. Perché “chi è un uomo se li porta dietro”. Ragion di Stato? “Il nostro non è mai stato un potere effettivo, altrimenti avremmo salvato Aldo Moro” – rivelò Giulio Andreotti a Sergio Zavoli in un’intervista televisiva Rai nel 1990. Certamente la sua particolare concezione del potere oggi è invidiabile perché è altrettanto innegabile che il Divo abbia mantenuto aperto il dialogo con le forze politiche lontane dal suo pensiero e dall’atlantismo, e che abbia contribuito a consolidare il ruolo e la presenza internazionale dell’Italia, concorrendo così in modo determinante a fare la storia della Repubblica nel mondo. Andreotti è la personalità che forse più di ogni altra ha rappresentato la continuità del ruolo di governo e della centralità politica della Democrazia cristiana nella storia della Repubblica. La sua Ciociaria non lo dimenticherà facilmente. Lo ricorda come “un amico affettuoso e un grande statista” Giuseppe Ciarrapico:“Abbiamo condiviso una vita compresi i momenti terribili, quando la Procura di Palermo si scatenò contro di lui e io testimoniai in Aula per più di un’ora – ricorda – agli investigatori che gli domandarono se ritenesse plausibile che Andreotti fosse uscito da Villa Igiea di soppiatto per recarsi a casa di Ignazio Salvo a incontrare Totò Riina, risposi che non mi pareva un tipo così atletico da calarsi dalle finestre né tantomeno un nuotatore provetto in grado di avventurarsi per mare. Sono felice di averlo difeso”. Andreotti è stato un attore di primissimo piano della Storia italiana dal dopoguerra a oggi. È una grave perdita per il nostro Paese: a Giulio Andreotti dobbiamo la collocazione dell’Italia nell’Occidente democratico libero dalla dittatura comunista, cioè accanto a tutte le Democrazie libere e partecipative della Terra. Oggi i politicanti sono davvero degli omuncoli rispetto al Divo. Nel 2006 contese fino all’ultimo lo scranno di Presidente del Senato a Franco Marini che risultò eletto con 165 voti contro i 156 di Andreotti, sostenuto dal centrodestra. Oggi l’unico padre costituente che ancora partecipa attivamente alla vita politica italiana è il senatore a vita Emilio Colombo, 93 anni. È stato il più anziano tra i grandi elettori a votare. E, insieme a Mario Monti, l’unico senatore a vita ad esprimere il proprio voto. Un altro senatore a vita che non è andato a votare è Carlo Azeglio Ciampi (93 anni). Anche lui per ragioni di salute. Scrisse Andreotti:“Dal settembre 1945 ho iniziato ad annotare ogni giorno – spesso per cenni, alcune volte con una certa ampiezza – eventi e impressioni della vita pubblica. Le prime note commentano l’emozionante seduta inaugurale della Consulta nazionale della quale per l’età fui segretario provvisorio e potei dal banco della presidenza veder seduti personaggi autenticamente storici, come Benedetto Croce e Francesco Saverio Nitti. L’incarico di collegamento tra De Gasperi e Il Popolo mi offriva una fonte diretta di notizie e di commenti, che i colleghi della stampa registravano con non poca invidia”. Con queste parole hanno inizio i Diari di un testimone eccezionale, Giulio Andreotti, che hanno visto la luce negli ultimi mesi da Rizzoli. Il primo Diario è 1947, l’anno delle grandi svolte nella vita di un protagonista e il successivo è del 1948, l’anno dello scampato pericolo. Le fonti e l’interesse sono tali da costituire un documento di storia vissuta con straordinaria intelligenza, gusto del racconto e penetrazione dei motivi, delle idee del grande scontro che si svolse in Italia in quegli anni indimenticati. È giusto ripercorrere queste pagine e tutta quest’epoca: Andreotti compie un’opera di valore ideale e culturale destinata a completare una narrazione che è stata affrontata da molti autori, ma non sempre con adeguato spessore. Non si trattò, infatti, solo di una straordinaria sequenza di avvenimenti, ma di qualcosa di più importante e più profondo, cioè della storia delle idee, del corso formativo dell’Europa moderna e quindi dei partiti politici sia democratici sia autoritari. Il 18 Aprile 1948 la vittoria della Dc sull’alleanza comunisti-socialisti apre il confronto senza quartiere fra Oriente e Occidente, fra i valori dello sviluppo e quelli dell’ideologia, con l’intervento costruttivo della Chiesa. Il dispiegamento di queste forze in campo aperto non mobilitò solo i partiti, ma le idee della formazione dello Stato e delle classi sociali in gioco, delle reciproche collocazioni e dei valori fatti propri, o tradizionalmente interpretati con saggezza. Il 18 Aprile l’Italia si salvo grazie a uomini come Giulio Andreotti. Non fu una semplice vittoria in una competizione elettorale, ma tutto un processo di idee di libertà che l’Italia afferrò con coraggio e penetrazione. Le Parrocchie si mobilitarono. Don Giovanni Saverioni, il compianto parroco aprutino, molto stimato in Abruzzo e nel mondo, mi confessò in un’intervista di nove anni fa cosa c’era allora in gioco soprattutto sul territorio. Rigettare il comunismo per salvare l’Italia. Vinse allora una coalizione di significato laico non contingente, di partito “fra” cattolici, non di “soli” cattolici. La straordinaria vittoria sul “fronte” delle sinistre fu il risultato, come giustamente scrive Andreotti, di “uno scampato pericolo” e anche di “un divario di civiltà”: quella cristiana dell’Ovest contro quella atea dell’Est. Indro Montanelli citava spesso un giudizio dato da Alcide De Gasperi sul giovane Giulio Andreotti:“Un ragazzo talmente capace a tutto, che può diventare capace di tutto”. Anche di scrivere 39 libri in 38 anni vendendo, complessivamente, oltre un milione e seicentomila copie. Un vero e proprio record che colloca Andreotti tra i “long-sellers” dell’editoria italiana, un tema fin troppo sottovalutato della biografia del 7 volte presidente del Consiglio che dal 1971 ha pubblicato con la Rizzoli. Fu proprio il capostipite della casa editrice, Angelo Rizzoli, a permettere al giovane uomo politico di pubblicare la sua rivista “Concretezza” uscita tra il 1955 e il 1976. In 38 anni di fedeltà editoriale, Andreotti pubblica 39 titoli per un totale di 96 edizioni e di un milione e seicentomila copie. Tra i libri del Divo, il maggior successo commerciale è la serie dei “Visti da vicino”, una trilogia pubblicata tra il 1982 e il 1985, cui hanno fatto seguito altri due volumi su Usa e Urss, sempre visti da vicino, per un totale di circa 500mila copie, comprese le edizioni tascabili. Con la consueta ironia, Andreotti racconta nell’introduzione come è nata questa collezione di ricordi e di medaglioni di personaggi:“Quando ebbi l’idea di scrivere piccoli saggi biografici su un certo numero di persone che avevo incontrato nel corso della mia movimentata vita, nutrivo la preoccupazione di poter ritenere interessante per gli altri notazioni e episodi che in fondo avevano colpito me, e non di rado quasi occasionalmente. Fui incoraggiato da un antico ricordo, quando in una conferenza alla Università Gregoriana sentii distruggere un filosofo della solidarietà con il racconto della sua stolta avarizia che lo portava, in casa, a mettere sotto chiave perfino la zuccheriera”. Con “Visti da vicino 3” Andreotti vince nel 1985 il Premio Bancarella. Poi è la volta di altri “best-sellers” del calibro di “Onorevole stia zitto”(1987 e 1989, complessivamente 200mila copie), seguito da un altro “Onorevole stia zitto – atto II” nel 1992 con altre 60mila copie. Quindi il famoso “Il potere logora…”(1990, 150mila copie nelle varie edizioni, l’ultima tascabile è uscita a fine 2008). Tra i saggi politici di maggior successo si ricorda il “Governare con la crisi dal 1944 a oggi”(1991, 100mila copie). La memorialistica di Andreotti ha un carattere spiccatamente seriale: “Diari 1976-1979”(1981), “1947”(2005), “1948”(2005),“1949. L’anno del Patto Atlantico”(2006), “1953”(2007), “2000. Quale terzo millennio?”(2007). Fino alla serie dei “Nonni e dei Nipoti della Repubblica”, pubblicata tra il 2002 e il 2004. Nel 1996 esce “Cosa loro – Mai visti da vicino” scritto durante le lunghe traversie giudiziarie. Andreotti pubblica molti libri di storia repubblicana e di storia della chiesa: “Ore 13: il ministro deve morire”(1976), “La sciarada di Papa Mastai”(1978), “A ogni morte di Papa”(1982), “De Gasperi”(1986), “Sotto il segno di Pio IX”(2000), “Un gesuita in Cina”(2001). Nel 1998 Andreotti sorprende il suo editore. Nel romanzo breve “Operazione via Appia” il Divo racconta la storia di un giovane e ingenuo abruzzese, ex seminarista, che durante il fascismo approda nella Capitale e, grazie alla protezione del ministro Acerbo anche lui abruzzese, trova un lavoro per mezza giornata all’ippodromo di Capannelle. Geniale! Ben presto affianca a questo impiego un nuovo incarico di spionaggio postale in una struttura segreta dov’è suo compito segnalare passi compromettenti o di rilievo contenute nelle lettere e nelle telefonate tra influenti personaggi del regime fascista. Andreotti nel suo romanzo allude a quella particolare struttura, poi assorbita dalla presidenza del Consiglio, che aveva il compito di spiare gli alti gradi del Vaticano e del fascismo e che probabilmente rappresentò il primo nucleo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Il romanzo, in effetti, è per stessa dichiarazione di Andreotti, un mix di invenzione e realtà. Giulio racconta di essersi ispirato alla storia di un compagno di università dal quale, il 25 Luglio del 1943, aveva appreso della caduta di Benito Mussolini. Poco prima proprio in via Appia lo storico Adolfo Giannuli aveva ritrovato, in un archivio dismesso del Viminale, carte sulla presenza in Italia, dall’immediato dopoguerra al 1981, di un servizio segreto clandestino, già operante prima della fine della guerra, il cui nome in codice era “l’Anello”. L’Anello del Potere di tolkieniana memoria? Principale referente politico di questa struttura? Manco a farlo apposta, secondo alcuni componenti della struttura interrogati, proprio Giulio Andreotti che, per rispondere, aveva il dono indiscusso della battuta arguta. L’elenco sarebbe interminabile:“ Il potere logora chi non ce l’ha; a pensar male degli altri si fa peccato. Ma spesso ci si indovina; a parte le guerre puniche mi viene attribuito veramente di tutto; la cattiveria dei buoni è pericolosissima; l’umiltà è una virtù stupenda. Ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi; amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due; aveva spiccato il senso della famiglia. Infatti ne aveva due ed oltre; i pazzi si distinguono in due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato; i miei amici che facevano sport sono morti da tempo; meglio tirare a campare che tirare le cuoia; essendo noi uomini medi, le vie di mezzo sono, per noi, le più congeniali. Due celebri colonne sonore cinematografiche sono degne dell’opera di Giulio Andreotti: quella di “Ben Hur” Wyler e del “Gesù di Nazareth” di Zeffirelli. Perché l’Italia ama mettere in croce i suoi pezzi da novanta! Nel libro “Andreotti, il papa nero”, l’antibiografia del Divo Giulio, scritto da Michele Gambino (Manni editore), se ne capisce il valore storico perché in tanti dimenticano il passato. La storia di Andreotti è lo specchio della storia degli Italiani degli ultimi 60 anni. Una storia confusa, piena di misteri e contraddizioni, che affonda le sue radici nello sbarco delle truppe Usa in Sicilia per mettere a fine della Seconda Guerra Mondiale con l’aiuto della mafia. Una storia che giunge alla celebre caduta del muro di Berlino, si snoda da Sindona a Moro, dall’uccisione di Percorelli a quella del generale Dalla Chiesa, dai militari golpisti alla potentissima P2, dai palazzinari romani ai mafiosi che fanno affari nella Capitale ma anche nel Nord, a Milano e sul territorio ancora adesso. Su questo potente e drammatico sfondo, descritto in maniera efficace da Gambino, si svolge la storia umana e politica di Andreotti, il politico italiano più longevo. L’Autore scava dentro quella storia, cercando prove documentate, studiando a fondo quelle carte di cui tutti hanno sentito parlare ma che pochi hanno letto, tracciando un profilo politico, umano e religioso di questo personaggio di cui si è detto e scritto ancora molto poco. Per consegnarci alla fine non solo la storia del Divo ma anche la nostra storia, di quello che siamo diventati oggi in Europa e nel mondo. Rinnegare Andreotti significa cassare la Storia d’Italia. Nota è la sua amicizia sincera con molti pontefici e la sua generosità con i più deboli che per anni hanno bussato alla sua porta. Nota la sua inimicizia storica con la sinistra così come il suo impegno per la nascita del primo governo appoggiato dai comunisti. Un personaggio composito, difficile da capire e incasellare proprio perché geniale alla Steve Jobs. Se poi meno note sono le misteriose zone di confine in cui pezzi dei servizi segreti e delle gerarchie militari avrebbero svolto compiti di copertura e depistaggi subito dopo la fine della guerra e in cui l’ex senatore a vita (a quei tempi giovane sottosegretario) pare avesse avuto un ruolo più che centrale, sarà la Storia a dimostrarlo: gli archivi, i dossier, le interviste, i libri e gli atti parlamentari possono ancora parlare. “Una dimensione che egli potrà praticare da una posizione di privilegio: dal 1959 al 1974 gli anni cruciali delle schedature illegali, delle deviazioni, dei patti scellerati tra servizi e neofascismo – scrive Gambino – dei generali infedeli promossi ai vertici delle gerarchie, della strategia della tensione, Andreotti è ministro della Difesa per ben otto volte, con sei diversi presidenti del Consiglio. Di fatto, il ventre molle delle istituzioni preposte alla sicurezza si forma sotto la sua gestione politica”. Il profilo dell’Italia e di Andreotti che esce dal libro di Gambino, è quello di un Paese che ha agito per molto tempo su due binari, uno trasparente e uno nascosto. Come in tutti gli stati di diritto, o meno, sulla Terra. Provare per credere. I servizi sono segreti per rimanerlo! Un’esigenza storica, quella degli Usa, vincitori della guerra e salvatori della patria che devono allontanare il pericolo dell’avanzata del comunismo sovietico in uno dei paesi europei con il partito comunista più forte, che pare essersi innestata, con la storia di Andreotti, nell’immagine di un uomo apparentemente innocuo ma potentissimo, insondabile e distante, capace “di accumulare enormi quantità di fondi occulti per mantenere il potere”. Bisogna provarlo. Un uomo che ha dovuto mantenere il potere, suggerisce Michele Gambino nella suggestiva immagine tratteggiata nelle pagine in cui lo paragona al Grande Inquisitore di Dostoevskij dei Fratelli Karamazov, in nome di “una missione più alta”. Gli uomini non devono cercare la verità. “Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta – fa dire Paolo Sorrentino nel suo film “Il Divo” al magistrale Toni Servillo che interpreta Giulio Andreotti – e invece la verità è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta”. Sotto questa radiazione luminosa l’opera di Andreotti nella biografia istituzionale e politica del Paese non è più solo quello che può sembrare “ma – scrive Gambino – ecco che le ombre terribili della sua storia assumono una dimensione quasi filosofica in una visione senza speranza per il mondo…i discendenti del Grande Inquisitore hanno bisogno di uomini che esercitino il potere per loro conto, che governino in loro nome quel gregge di esseri fragili, deboli, corruttibili, chiamati uomini”. Insomma, sarebbero ancora all’opera in Italia! “Certo non è Andreotti ad aver modellato così il Paese. Ma il Paese così com’è, somiglia in maniera impressionante ad Andreotti. La corte dei miracoli che lo ha circondato per decenni – mafiosi e fascisti, palazzinari e massoni, banchieri amici e cardinali poco spirituali, faccendieri e boiardi – è la crema a rovescio del Paese, l’emblema del peggio che diventa classe dirigente all’ombra di un uomo capace di tenere tutti i fili in mano, grazie alla sua rabdomantica conoscenza della debolezza umana, alla sua capacita di manovrare nell’ombra, al suo fare della furbizia una virtù da ‘Bagaglino’. Forse l’Italia sarebbe stata quel che è senza Andreotti, ragioni storiche sono lì a dimostrarlo, ma non poteva essere migliore con Andreotti, perché Andreotti è stato – primo e più a lungo di chiunque altro – il grande sciamano della mediocrità italiana”. Viviamo davvero strani e pericolosi giorni. La Natura aborre il vuoto. Giulio Andreotti è stato anche un grande uomo di sport. Nel 1946, il Comitato olimpico nazionale era prossimo allo scioglimento, così come stabilito nel 1944, quando Giulio Onesti era stato designato commissario straordinario. Ma, subito dopo la guerra, si era fatta strada l’ipotesi di conservare l’ente e per questo era stato organizzato un convegno al ministero delle Finanze il 28 Aprile 1946. Tre cose erano apparse chiare a tutti: che nonostante le commistioni con il fascismo, il Coni aveva solide ragioni per essere conservato; che andava comunque riaffermata l’autonomia dello sport; che andava rivisto e chiarito il profondo legame fra educazione psico-fisica, formazione, educazione ed attività sportiva. Siccome a decidere sarebbe stato il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, in un successivo colloquio con Onesti, l’onorevole Adriano Ossicini aveva prospettato l’ipotesi di andare a parlare della questione con Giulio Andreotti, suo amico d’infanzia, che allora, oltre al ruolo di responsabile del settore giovanile della Dc, svolgeva quello di portavoce di De Gasperi. L’intervento di Andreotti si rivelò decisivo, perché qualche tempo dopo, lo stesso Onesti telefonò a Ossicini dicendo:“Abbiamo vinto, il Coni è salvo”. E il Coni è diventato negli anni un modello osservato con interesse e attenzione in tutto il mondo, soprattutto perché, attraverso il Totocalcio, è stato in grado di autofinanziarsi fino al 2002. Andreotti ha poi avuto un ruolo fondamentale nell’organizzazione dei Giochi olimpici di Roma 1960. A convincere i membri del Cio nella votazione finale del 15 Giugno 1955 (35 voti per Roma, 24 per Losanna) era stata proprio la certezza che l’imponente impegno organizzativo sarebbe stato sostenuto dal governo italiano, garantito dalla designazione di Giulio Andreotti, uno degli uomini politici allora più influenti, all’epoca ministro della Difesa, che aveva accettato la presidenza del Comitato organizzatore. L’incontro organizzato dal Coni il 14 Luglio 2010, per ricordare i 50 anni dall’Olimpiade del ’60, aveva segnato l’ultima uscita pubblica del senatore Andreotti che, accolto da una standing ovation nel salone d’onore del Coni, aveva caldeggiato la candidatura di Roma 2020, ricordando che “nessuna Olimpiade è costata meno di Roma 1960, perché non si fecero spese superflue. Quei Giochi mi hanno regalato gioia ed emozioni”. Quelle che, in qualche modo il Divo ricercava nelle corse di trotto a Tordivalle e di galoppo alle Capannelle. A Ugo Bottoni, l’ammiraglio del trotto, scomparso il 24 Settembre 1973, Andreotti aveva dedicato un capitolo nel secondo volume dei suoi “Visti da vicino” pubblicato nel 1983. La legge n. 91 del Marzo 1981 sul professionismo sportivo, tuttora in vigore, ha la sua origine da un intervento di Andreotti (4 Luglio 1978). È stato anche il politico più rappresentato nella cultura popolare del nostro Paese. Al cinema come in tv, in musica e nei fumetti, dal bianco e nero di Totò alla ieratica trasfigurazione del “Divo” di Sorrentino, perché Giulio si prestava a diventare personaggio pubblico, mai banale, con quelle caratteristiche inamovibili da Commedia dell’Arte: la leggendaria cifosi, gli occhiali quadrati, la voce che mai si increspava, il sorriso sardonico, la battuta libera presto diventata immortale. A partire dagli anni ‘60, quando diventa sempre più profonda la sua confidenza con le leve del potere, Andreotti entra nel “pop”. Prima era lui l’implacabile censore di cineasti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo, nemico numero uno del neorealismo di borgata dei Rossellini e dei De Sica, colpevoli di dare un’immagine del Paese pauperistica e peccaminosa. Allentato il clima dell’Italia Scelbiana degli anni ‘50, l’Ugo Tognazzi dell’avanspettacolo e il Totò versione candidato sono i primi a occuparsene. Sarà poi negli anni ‘70 della sinistra extraparlamentare che la satira si accanirà contro l’eterno primo ministro, bersaglio preferito delle riviste e nei ciclostili. Anche la Rai del potere pubblico non lo trascura: il camaleontico Noschese imita Andreotti talmente bene che l’anziana madre del senatore gli dice:“Ma adesso ti metti a fare il buffone in tv?”. Il Divo, autoironico per natura, poi non rifiuterà di salire sul palcoscenico direttamente. Interpreta infatti sé stesso nel “Tassinaro” del fedele Alberto Sordi e si palesa all’innocuo “Bagaglino” di Pingitore dove Oreste Lionello sarà il suo alter ego per lunghissimi anni. È l’antipasto del declino dell’Italia: la Prima Repubblica volge al termine a colpi di processi, il cantautore Francesco Baccini vuole “salvarlo”, ma non ci riesce. Gli Italiani si consegnano all’oblio dei Berlusconi, dei Bossi e dei post-comunisti, i nuovi “signori del sistema” mega-televisivo galattico. Giulio scivola sullo sfondo del teatro italico. Ma è destino che la sua storia non debba ancora finire: nel 2008 Andreotti ritorna prepotentemente al centro dell’attenzione nello straordinario “Il Divo” di Paolo Sorrentino. Il Giulio-Tony Servillo è il Potere vero, asciutto, essenziale, non televisivo né pubblicamente salottiero, implacabile, automatizzato al punto che il vero Giulio ne rimane quasi spaventato e offeso. “Ma chi ha avuto mai un simile Potere in Italia?”. Per mostrare un po’ più clemenza, alla fine, il film di Sorrentino, volenti o nolenti, lo toglie dalla cronaca e lo consegna alla Storia. Per diventare, come ebbe lui a dire in una delle sue migliaia di battute, “postumo di se stesso”. Ma i suoi nemici dove sono? Giulio Andreotti fu accusato di aver avuto rapporti molto ravvicinati con la mafia. Per esempio, “ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi”. A queste conclusioni sono giunti i giudici della Corte d’assise di Palermo che lo hanno assolto per non aver commesso il reato di associazione mafiosa a partire dal 1982. Ma hanno invece dichiarato prescritto il reato di associazione per delinquere semplice (l’associazione mafiosa non esisteva ancora nel codice penale) commesso almeno fino al 1980. Una sentenza confermata dalla Corte di cassazione, che ha messo l’ultimo sigillo su una vicenda durata dieci anni. Secondo i giudici d’appello, infatti, sarebbe provata la consapevolezza, da parte di Andreotti, dei rapporti tra il suo “luogotenente” in Sicilia Salvo Lima e Stefano Bontate, il capomafia eliminato dai corleonesi di Totò Riina nella guerra di mafia del 1981. E sarebbero da considerarsi provati gli incontri diretti tra lo stesso Bontate e Andreotti in persona, a cui avrebbe sostenuto di aver assistito il pentito Francesco Marino Mannoia. In quegli incontri si discusse il problema del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, considerato un ostacolo dai boss e assassinato il 6 Gennaio 1980. Una vicenda alla quale i giudici dedicano considerazioni importanti. Nelle riunioni con i mafiosi, secondo i giudici d’appello, Andreotti “ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, ad ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui ed a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del Presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza”. Di simili comportamenti che potevano considerarsi un reato accertato fuori tempo massimo, concludeva la Corte, “il senatore Andreotti risponde dinanzi alla Storia”. Questo resta di quel lungo processo, ribattezzato da qualcuno il “processo alla storia d’Italia”, insieme all’assoluzione dal resto delle accuse. Perché il famoso quanto presunto incontro tra Andreotti e Totò Riina (quello del “bacio” raccontato da un altro pentito, Baldassare Di Maggio) secondo i giudici non c’è mai stato, così come non sono stati provati tutti gli altri favori e interessamenti che lo stesso Andreotti avrebbe garantito alla mafia (il Divo ha sempre sostenuto di non amare il bacio degli uomini). Risulta anzi una sorta di riscatto dell’uomo politico, quando contribuì a varare la legislazione antimafia e il governo di cui faceva parte riuscì a far rimpatriare il mafioso Tommaso Buscetta dopo l’arresto in Brasile. Sono gli stessi giudici d’Appello a riconoscere ad Andreotti “un progressivo e autentico impegno nella lotta contro la mafia, che ha in definitiva compromesso la incolumità dei suoi amici e perfino messo a repentaglio quella sua e dei suoi familiari”. Proprio Buscetta, all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio nei mesi di Maggio e Luglio 1992, diede il via con le sue dichiarazioni all’inchiesta sull’ex presidente del Consiglio, che gli sono valsi il processo di Palermo e quello di Perugia per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Da questa seconda vicenda Giulio Andreotti è uscito indenne dopo l’assoluzione di primo grado, una condanna in appello e il ribaltamento della Cassazione che annullò quel verdetto senza rinvio e dunque sancì la definitiva e completa assoluzione. Processi che hanno fatto discutere e hanno diviso l’Italia, ricchi di colpi di scena e di audience televisiva, ai quali l’imputato più illustre della storia d’Italia non s’è mai sottratto, rivendicando in ogni occasione la propria innocenza. Fu Andreotti a chiedere al Senato, nel 1993, di concedere l’autorizzazione a procedere nei propri confronti, e fu lui a voler essere presente in aula, accanto agli avvocati Franco Coppi, Giaoacchino Sbacchi e Giulia Bongiorno, in ogni occasione in cui era richiesta la sua partecipazione. Dall’inizio alla fine del lungo iter giudiziario. Dopo la sentenza dell’appello il Divo presentò ricorso in Cassazione per evitare che restasse la macchia della prescrizione sul reato “commesso” fino al 1980, ma la Corte suprema confermò il verdetto: concludendo il processo giudiziario e lasciando aperto, come annunciato dagli stessi magistrati, quello della Storia. Nella Democrazia cristiana Andreotti diede vita più che alla corrente che prendeva il suo nome, a una potente schiera di politici. Per alcuni è ancora oggi controverso il ruolo di Andreotti nella gestione del sequestro di Aldo Moro. Fu tra i più convinti sostenitori della cosiddetta linea della fermezza dello Stato, rifiutando ogni trattativa diretta con i terroristi comunisti. Ma nei suoi memoriali Moro gli riservò i giudizi più severi:“Non è mia intenzione rievocare la sua grigia carriera. Non è questa una colpa – scrive Aldo Moro – si può essere grigi ma onesti, grigi ma buoni, grigi ma pieni di fervore. Ebbene on. Andreotti è proprio questo che le manca. Le manca proprio il fervore umano. Quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno senza riserve i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è tra questi”. Certamente la verità verrà prima o poi a galla. Perché la storia del Divo si intreccia anche con quella dei presidenti Usa. Andreotti, tuttavia, non fu sempre una delle personalità più gradite agli Stati Uniti d’America. In tutte le cospirazioni, anche romanzate, che hanno attraversato l’Italia compare spesso il nome di Andreotti. Rapporti a volte riscontrati e in altri casi solo ipotizzati. Certi invece i legami con Michele Sindona che definì il “salvatore della lira” e in favore del quale intervenne tentando di salvare dal fallimento la sua Banca Privata Italiana. Andreotti fu certamente il leader politico italiano più amato e odiato dagli Stati Uniti, più corteggiato e disprezzato, più valorizzato e isolato, più sostenuto e combattuto: una duplicità apparentemente schizofrenica e controversa come del resto i rapporti tra Washington e la Democrazia Cristiana durante la Guerra Fredda. Sono i documenti del Dipartimento di Stato su Giulio Andreotti a descrivere tale “complessità” diplomatica e politica. Come ministro degli Interni negli anni Cinquanta e ministro della Difesa dal 1959 al 1966, Andreotti è il leader Dc che si fa apprezzare dalle amministrazioni Eisenhower, Kennedy e Johnson per l’affidabilità atlantica e l’impegno a mantenere la stabilità dell’Italia. Ma poi inizia a smarcarsi in nome del Made in Italy: il Divo sostiene Enrico Mattei e l’industria chimica del Belpaese nel fare concorrenza alle compagnie petrolifere americane nel mondo arabo e, dopo la guerra del Kippur del 1973, Andreotti accelera le intese con le capitali arabe vicine a Mosca, aprendo addirittura agli scambi commerciali con l’Unione Sovietica. Gli Usa scalpitano! Lontana da Washington, l’Italia ondeggia verso il terzomondismo. Alla Casa Bianca, prima Nixon e poi Ford, iniziano a dubitare dell’affidabilità dell’alleato: Italia uguale Andreotti. A Washington sono gli anni di Henry Kissinger, analista di primo pelo, “avversario” del compromesso storico. Quando, alla fine del 1977, l’ennesimo governo Andreotti entra in crisi e il Divo apre ad una maggiore presenza del Pci nella maggioranza, l’Amministrazione del democratico Carter vi vede la conferma che il terzomondismo in politica estera cela la volontà di un patto dell’Italia con Enrico Berlinguer. Mai con l’Urss. Andreotti diventa così un temibile genio politico per gli Usa. Il 1978 è l’anno della svolta perché il pericoloso sbilanciamento di Andreotti verso Berlinguer porta Washington a trovare nel socialista Bettino Craxi il nuovo alleato politico più affidabile e importante. Il valzer politico di Andreotti insospettisce tutte le cancellerie occidentali: vengono lette dai dispacci redatti in via Veneto e dalle analisi del Dipartimento di Stato Usa come la cartina al tornasole delle ambiguità politiche di una Dc inaffidabile, divisa, corrotta ancorché resti un alleato indispensabile nel Patto Atlantico. Pesano le ombre di molti scandali, a cominciare da quello Lockheed che travolge il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Gli anni Ottanta rafforzano Andreotti che guida la Comunità Europea nella Dichiarazione di Venezia del 1980 sul Medio Oriente. Il Divo va oltre. Apre all’Olp di Yasser Arafat ancora intenta a perseguire la distruzione di Israele. Quando si tratta di ospitare i famosi Euromissili per fronteggiare i micidiali SS-20 (bombe all’idrogeno) sovietici in Europa dell’Est, a farlo è il governo guidato da Bettino Craxi con Giovanni Spadolini ministro della Difesa. Andreotti è il ministro degli Esteri che affianca e sostiene Craxi nel braccio di ferro di Sigonella (Ottobre 1985) con l’Amministrazione del repubblicano Reagan che consente al terrorista Abu Abbas di fuggire in Jugoslavia nonostante l’assassinio del passeggero Leon Klinghoffer compiuto sulla motonave italiana “Achille Lauro”. Secondo gli storici, è indicativo come nelle carte Usa quella battaglia diplomatica sia considerata una “sconfitta” più per Andreotti che per Craxi, nei confronti del quale prevale il riconoscimento per gli Euromissili. Decisivi, senza sparare una sola testata termonucleare, per determinare il crollo dell’economia dell’Urss comunista. Da alleato di ferro dell’America agli inizi degli anni Settanta, quindici anni dopo Andreotti è diventato un partner inaffidabile. Quando la tempesta di Tangentopoli lo travolge, l’Amministrazione del democratico Clinton non versa una sola lacrima. Ma con l’insediamento in Via Veneto dell’ambasciatore Reginald Bartholomew, prevale un approccio più critico a Mani Pulite e meno accusatorio nei confronti di Andreotti. A riprova del fatto che le vicende politico-istituzionali italiane sono talmente intrecciate a quelle statunitensi (più di quanto si creda) che oggi si fa fatica a pensare a un’Italia davvero indipendente, libera e sovrana nel mondo. Anche solo sotto il profilo energetico e industriale.  Giulio Andreotti, con il suo lunghissimo cursus honorum, ha attraversato questa voglia di indipendenza, di libertà e di sovranità? È stato da sempre dipinto come l’uomo simbolo dello Scudocrociato: l’incarnazione e la quintessenza del partito-Stato conservatore che avrebbe prima o poi aperto la via al bipartitismo istituzionale come nelle più grande democrazie occidentali. Così non è stato. Andreotti, da cattolico romano, ha cercato di fare il “miracolo”, preparando una strada difficile, all’epoca pura fantapolitica, che oggi Enrico Letta è chiamato a incarnare coraggiosamente nella presidenza del Consiglio dei ministri, nel PD e nel PDL. Per sdoganare i “padroni” e liberare gli Italiani. Il Cattolicesimo, sia come fede sia come universalismo, fu la dimensione in cui Andreotti visse e dalla quale prese le mosse, rafforzata dalla vicinanza di tutti i papi, da Pio XII al beato Giovanni Paolo II, il vincitore del comunismo. La laicità politica di Andreotti è sempre stata in perfetta sintonia con la visione della Chiesa Cattolica Apostolica. Nessuno all’epoca si sarebbe mai sognato di far sostituire a un presidente del Consiglio un suo sottosegretario, spostandolo da un ministero all’altro, per volere di qualche “gaia” multinazionale immorale. Nessuno ai tempi di Andreotti lo avrebbe mai consentito. Lui, uomo di destra, aderì all’apertura ai comunisti, perché quelli erano i nuovi orientamenti della Chiesa sulla politica orientale. Il Divo ha lavorato fedelmente con De Gasperi, ha fatto da tramite tra De Gasperi e il Vaticano. Ma erano diversi, lui era quasi un “cardinale esterno”. La sua profonda fede e la sua pratica religiosa che lo portava ad aiutare con grande generosità i poveri, i bisognosi, le persone in difficoltà, non ebbero eguali. La Messa quotidiana di Giulio Andreotti è il segno della fede cris

tiana vissuta autenticamente nella propria vocazione laicale. Il Divo non aveva la visione di Moro o il riformismo di Fanfani, perché era l’uomo dell’azione esecutiva di governo. La sua caratteristica era la mediazione con la realtà presente. Pratica poco diffusa al giorno d’oggi. Lealtà e fiducia erano le due parole-chiave della Politica italiana nel mondo. Oggi rimane solo il gretto servilismo con l’annesso tradimento! Quella caratteristica di mediazione è stata la forza di Giulio Andreotti. Per alcuni anche il suo limite perché sconfinava nello scetticismo. Umile, non ha mai dato sfoggio del suo potere. Non amava le feste. Per lui il dialogo, la mediazione, la trattativa era sempre possibile su tutto. Infatti l’Andreotti più grande è quello della politica estera, con la sua capacità di creare una rete di rapporti personali e politici costruiti sulla stima, sul rispetto, sulla fiducia, sulla lealtà e sul prestigio reciproci. È stato un grande ministro degli Esteri capace di trovare, durante la Guerra Fredda, uno spazio originale per la presenza italiana nello scacchiere internazionale. In particolare nell’infuocato Mediterraneo che oggi rischia di far scoppiare la Terza Guerra Mondiale per mancanza di uomini e donne di tale levatura intellettuale e morale. Come può l’Europa farsi rispettare nel mondo se essa stessa per prima mina alle fondamenta il Diritto? I rapporti personali e politici di Andreotti con personaggi internazionali scomodi, come Assad, Arafat e lo stesso Gheddafi, dimostrano che era dell’idea che bisognasse parlare e negoziare con tutti. Era questo il “cuore” del suo pragmatismo e del suo realismo politico. Oggi praticamente assenti in Italia e in Europa. Se non si è rispettati in patria, non si verrà mai ascoltati nello scacchiere internazionale. E le guerre finiranno per sconfiggere la diplomazia e la pace mondiale. Andreotti era un vero uomo di pace. Da ministro della Difesa, era convinto che gli eserciti non dovessero mai combattersi. La sua arma era il negoziato. Mai il Divo avrebbe consentito l’impiego operativo di militari italiani in un teatro bellico contaminato dagli effetti di armi (“alleate”) come quelle all’uranio impoverito, senza le necessarie informazioni e precauzioni di sicurezza. Eppure Andreotti, sempre così pronto a negoziare, non lo fece nei giorni del sequestro Moro. “Papa Woytila stimava Andreotti – rivela il professor Andrea Riccardi – e lo sostenne durante la sua difficile vicenda processuale. Non così buoni erano i rapporti con il cardinale vicario Ugo Poletti, specie dopo che questi organizzò il Convegno sui mali di Roma. Un appuntamento che si trasformò in una vera e propria denuncia da parte dei cattolici sul malgoverno cittadino delle giunte democristiane. Andreotti non la prese bene. E mi raccontò che per fargli fare la pace con Poletti, intervenne lo stesso Giovanni Paolo II, che li convocò entrambi nel suo studio.
Era, a suo modo, un politico molto moderno: utilizzava lo sport, il calcio, i libri, la televisione, le amicizie con gli attori, le battute, per accrescere la sua popolarità. Il modo di pensare e di fare politica di Andreotti non concedeva nulla al populismo, del quale aveva orrore”. Eppure, da politico così scaltro e accorto, alla fine degli anni Ottanta non si accorse che la Dc e la Prima Repubblica stavano per implodere. “In effetti fu così. In modo diverso, Scalfaro, Cossiga e De Mita si accorsero della crisi epocale che si stava avvicinando. Lui no. Forse non gli fu estranea una certa identificazione tra la Dc e l’eternità della Chiesa”. Nelle reazioni, anche autorevoli, alla morte di Andreotti si nota spesso una sospensione del giudizio. In molti hanno affidato la valutazione complessiva dello statista scomparso ai posteri o alla storia. “È una figura molto complessa C’è l’Andreotti della politica italiana, c’è l’Andreotti internazionale e, infine, c’è l’Andreotti di tutti i giorni, con la sua pietas e la sua carità verso i poveri. È un uomo che ha molto avuto, ma anche molto sofferto. Credo che la sua storia debba essere in gran parte ancora scritta”. Ma la sua vita terrena si conclude nella sua Parrocchia. In un telegramma alla moglie Livia Danese, il cardinale Segretario di Stato di Sua Santità Tarcisio Bertone, esprime “sentita partecipazione al grave lutto per la perdita di così autorevole protagonista della vita politica italiana, valido servitore delle istituzioni, uomo di fede e figlio devoto della Chiesa”. Il parroco di san Giovanni de’ Fiorentini, don Luigi Veturi, ricorda come il Senatore in passato “tutte le mattine andava a messa, era un fervente parrocchiano e quando si recava all’estero la prima cosa che faceva era quella di farsi portare in chiesa, in qualsiasi luogo o città si trovasse. Partecipava attivamente alla liturgia insieme alla sua amatissima moglie Livia e spesso, nelle festività più importanti, leggeva sull’altare i brani del Vangelo. Negli ultimi tempi la malattia non gli consentiva questa quotidianità, e allora andavo io a casa sua a portare a lui e alla moglie la comunione. È stato lucido fino all’ultimo giorno, anche se sabato, quando sono andato da lui per la comunione, l’ho visto più stanco del solito ma sempre sorridente e sereno”. I cardinali Camillo Ruini e Achille Silvestrini, ricordano la figura di Andreotti. “Sono sempre rimasto colpito – dichiara il cardinale Ruini – dalla sua saggezza, dal suo senso dell’umorismo e anche dalla sua maniera discreta ma tenace di tenersi agganciato ai valori cristiani. Andreotti non nascondeva la sua fede, non nascondeva il suo credo. Era una persona che sapeva contemperare bene il ruolo istituzionale con le sue convinzioni di credente”. Per il cardinale Silvestrini “è stato un grande statista, non si capisce la storia d’Italia del Novecento senza il ruolo fondamentale di Giulio Andreotti. Eccellente esponente del cattolicesimo politico italiano, vero servitore dello Stato e fedele figlio della Chiesa”. Le dichiarazioni ufficiali della Chiesa sono copiose. “Penso che sia stato un grande uomo politico perché fondamentalmente è stato un grande cristiano – rivela l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, monsignor Luigi Negri – tutte le volte che l’ho visto nelle diverse circostanze quando era sistematicamente attaccato nel mondo indegno con cui in Italia si attaccano quelli che sono stati magari messi di proposito in difficoltà, mi ha sempre colpito la sua straordinaria dignità: una dignità umana e cristiana”. Ricorda l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione, che conobbe il Senatore quando era cappellano del Parlamento:“Giulio Andreotti sarà ricordato certamente per le grandi vicende della storia italiana, io amo ricordarlo per i suoi momenti di silenzio e di preghiera semplice nella piccola chiesetta di san Gregorio Nazianzeno, e per i colloqui avuti con lui passeggiando nel chiostro di vicolo Valdina. Andreotti è una personalità che ha amato il proprio paese e che ha vissuto la sua esperienza di politico come una vocazione e soprattutto come testimonianza profonda di un credente”.
L’Italia sarà per sempre grata a Giulio Andreotti.

Nicola Facciolini

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