In morte di Alberto Bevilacqua

In apertura abbiamo messo una foto, del 2006, scattata quando accettò di presiedere il “Premio Teramo per un racconto inedito”, invitato dal prof. Giammario Sgattoni. Alle sue spalle un manifesto con “Il Guerriero di Capestrano”, simbolo a noi abruzzesi molto caro, la cui datazione non è ancora terminata e che a sorpresa, ai lati del […]

In apertura abbiamo messo una foto, del 2006, scattata quando accettò di presiedere il “Premio Teramo per un racconto inedito”, invitato dal prof. Giammario Sgattoni. Alle sue spalle un manifesto con “Il Guerriero di Capestrano”, simbolo a noi abruzzesi molto caro, la cui datazione non è ancora terminata e che a sorpresa, ai lati del suo corpo, su ciascun lato dei due ‘supporti’ che inquadrano la statua, mostra incise due lance e sul pilastrino destro e verticalmente, porta un’iscrizione che per decenni si è ritenuta in una lingua osco-peligna o in una di quelle lingue locali delle popolazioni di origine indoeuropea stanziate in Abruzzo prima dell’arrivo dei Romani; oggi attribuita ad una lingua  sud-picena, ma non ancora completamente chiarita nel suo significato, come in fondo da chiarire è l’autentico contributo che Bevilacqua ha dato alla letteratura in versi e prosa e al cinema, negli ultimi 40 anni.
Alberto Bevilacqua, scrive il suo primo romanzo, “La Polvere sull’erba”, nel 1955. Sciascia ne legge il dattiloscritto: vorrebbe pubblicarlo, ma ritiene che possa provocare uno scandalo. Sarà pubblicato per la prima volta nel 2000, nella collana Tascabili Einaudi.
Intellettuale impegnato e presente nella vita italiana fin dagli inizi degli anni Sessanta, regista cinematografico, giornalista critico del costume, polemista, con la sua produzione narrativa Alberto Bevilacqua ha sempre riscosso un grande successo di pubblico, ricevendo i maggiori premi letterari.
Filologo di se stesso, nel 2007 pubblicò “Poesie” (a cura di Alberto Bertoni, Mondadori) e Giorgio Di Rienzo ne scrive come di un rimescolamento ed una reinterpretazione, con tagli ed aggiunte dall’ “Amicizia perduta” del 1961 a Tu che mi ascolti del 2003, con frammenti dei giovanili (e inediti) “Poemi del fango”, per accorgersi che, in fondo, lo hanno interessato sempre le stesse cose e il suo è stato uno scavare un pozzo profondo ma sugli stessi temi: passione, amore, seduzione, ideali, storia e poco altro.
L’ho amato per i suoi primi romanzi: “La Califfa”, “Questa specie di amore”, “Una città in amore”, “Gli occhi del gatto” e per i film tratti dai primi due, entrambi con Ugo Tognazzi; per la raccolta di poesie “Crudeltà”; poi molto meno, per cui credo che sia stato uno che ha iniziato bene ma dissipato il suo talento, sia come scrittore che al cinema, con una essenza fatta di finezza letteraria e descrittiva che è diventata poi, e troppo spesso, solo mestiere.
Mi ha sorpreso di nuovo nel 2003, con il suo “Attraverso il tuo corpo”, recupero di quanto possedeva all’inizio, romanzo-saggio dove unisce ad una narrazione assolutamente ricca di suspance e di ritmo, la scelta di un tema di grandissima difficoltà e finezza letteraria, ma soprattutto di straordinaria attualità, perché il vero messaggio non è ricostruire gli anni italiani di Lawrence ma di proporre il suo genio in un’ottica nuova e assolutamente inerente al mondo di oggi, pur senza forzarne le tematiche di fondo.
Ne nasce un ritratto di artista tanto intrigante e misterioso quanto umano e si scopre, con sorpresa, che Bevilacqua lo ha scoperto mentre era intento a scrivere le sue poesie cosmologiche e lo ha apprezzato soprattutto per il poco conosciuto “L’Apocalisse”, dove sono scritte tutte le cose che stanno avvenendo nel mondo di oggi, con una capacità profetica immensa ed insieme una disperata confusione.
Come romanziere ha vinto tutto ciò che è importante Bevilacqua: Strega, Campiello, Bancarella, ma forse, come lui stesso ebbe a dire, è stato soprattutto un poeta, con la prima raccolta “L’amicizia perduta” del 1961 e l’ultima (edita da Einaudi) del 2011: “La camera segreta”, un punto di arrivo che induce a ripercorrere, con qualche citazione pertinente, la prestigiosa attenzione critica riservata all’attività poetica dell’autore: giudizi che si riassumano favorevoli ed anzi entusiasti, di Miguel Ángel Asturias, Jorge Luis Borges, Giovanni Testori, Carlo Salinari ed altri ancora.
Il 26 gennaio 2013 venne ricoverato presso la clinica privata Villa Mafalda di Roma per l’aggravarsi di uno scompenso cardiaco. Si riprese nonostante complicazioni nel corso della degenza e con molte polemiche fra i medici e la moglie, che l’avrebbe voluto trasferire in un ospedale pubblico e più attrezzato.
E’ morto alle prime luci dell’alba, oggi, a 79 anni, nella Roma che aveva eletto a nuova patria dopo il periodo della nativa Parma, dove ha scritto libri che non ho capito come “Il curioso delle donne”, “I sensi incantati”, “Gialloparma”, “Tu che ascolti”, ma anche concepito il film “Questa specie d’amore”, Davide di Donatello e stupenda interpretazione di Tognazzi e Jean Serberg, certamente una delle piú convincenti rappresentazioni di un rapporto di coppia apparso sugli schermi.
Un autore dagli esiti molteplici, Bevilacqua, altissimi a volte e a volte incerti, nella scrittura come al cinema, con ottime cose come “La Califfa” ed altre dubbie (nonostante i premi) come: “Attenti al buffone, Bosco d’amore, Le rose di Danzica (miniserie per la tv), La donna delle meraviglie, Tango blu e Giallo Parma.
Un narratore che ha iniziato con una linea tra Giovanni Arpino e Piero Chiara, i cui ed ha proseguito con una scrittura quasi onirica, con al centro della vicenda non solo personaggi ma luoghi, soprattutto la sua Parma (a cominciare dal glorioso e antifascista Oltretorrente), di cui diverrà contraltare Roma, dal boom economico in poi, dalla vita gaudente alle storie noir, attraverso il racconto di complesse, vitali, sensuali psicologie soprattutto femminili.
Esemplare resta ”La Califfa”, ovvero Irene Corsini, che nel suo vitalistico vibrare tra fierezze e abbandoni, inaugura la galleria di questi grandi personaggi femminili, mentre l’industriale Annibale Doberdò incarna un’emblematica figura dell’imprenditore di provincia anni ’60.
Dal romanzo il film come detto con Ugo Tognazzi e Romy Schneider, uno dei capolavori della grande commedia all’italiana, agrodolce nel suo sviluppo e che rivedremo stasera, per commemorarne l’Autore, su Sky Cinema Classics HD alle ore 21.00 e in replica martedì 10 alle ore 13.35.
Girato appena dopo l’autunno caldo, con sorprendente è il primo film a soggetto direttamente collegabile a quei mesi drammatici. Ed è il primo film all’apparenza politicamente “riformista” che mostra (o meglio inventa) un nuovo tipo di industriale, sganciato dagli schemi cinematografici usuali e che diventa la tesi del film. Dal titolo il posto d’onore è per la donna, la Califfa, ma il vero protagonista è Doberdò, l’industriale nuovo, “illuminato”, un tipo di industriale che risale in letteratura addirittura agli Utopist dell’800, ad Owen, Saint-Simon Cabet e ancora a Disraeli, ministro e scrittore inglese, che politicizzò questa nuova figura ne suoi romanzi “Coningsby” e “Sybil or The Two Nations”, con lo stesso Dickens ne esaltò la portata umamitaria nella figura dei fratelli Cheerybee in “Nicholas Nickleby”, un self made-man che ha conosciuto la miseria durante infanzia e giovinezza, che accetta di rilevare la fabbrica in fallimento di un amico e di cogestirla con gli operai non tanto da una coscienza almeno vagamente storica sulla crisi inevitabile di una classe, quanto dal rimorso per il suicidio dell’ amico (che si rifiutò di aiutare) unito all’agile corpo guizzante di una dipendente intrepida. (Amore e Morte decadenti ma inaffondabili motori del Tutto, anche di ciò che avviene in fabbrica).
Il film è del ’70, la colonna sonora (in 23 temi) di Emnio Morriocone, Romy Scheineder è bellissima e Ugo Tognazzi vi recita da fuoriclasse.
Chi sono i “cattivi” e chi i “buoni” ? Bisogna ricercare il dialogo-compromesso, o il conflitto violento?
Fin dove i(propri) fini giustificano i mezzi (violenti) ? Un romanzo ed un film con tante domande e poche risposte definitive, ma una forte spinta alla riflessione, fino a mettere in dubbio le proprie verità di parte.
Capire le ragioni dell’altro e trovare una via comune, dove ciascuno cede qualcosa per acquisirne un’altra : questa chiave davvero sì “rivoluzionaria” si rivelerà impossibile, perchè in fondo, nessuna delle due parti è disposta a cedere e chi ci prova,verrà minacciato ed eliminato parimenti dalle parti contrapposte. Solo Irene e Doberdò “progrediscono”, ma ciascuno, per far questo, perderà qualcosa e pagherà un prezzo altissimo per la propria “rivoluzione”.
In una intervista a Mirella Serra de La Stampa, in una sorta di amarcord estivo, Bevilacqua, nel 2010, ricordava che Romy Scheineder ci mise tempo a comprendere il personaggio ed entrare nella parte, perdeva spesso la pazienza, si arrabbiava, diceva che era stanca e che voleva rinunciare. Poi, per darsi coraggio, di tanto in tanto allungava la mano verso un bicchiere di vino fresco. Gia’ molto nota per la serie dei film dedicati all’imperatrice Sissi, diminutivo di Elisabetta di Baviera, moglie di Francesco Giuseppe, aveva accettato di indossare i panni di una prosperosa ed esuberante bellezza della Bassa Padana.; ma da aristocratica asburgica a proletaria il passo era lungo.
Tuttavia poco a poco nacque un’intesa, sotto le luci dei riflettori o con la complicità del leggero vino bianco dei castelli, una complicata, e non sempre pacifica relazione sentimentale tra lei e il neoregista e le cose cominciarono a progredire. Negli ambienti del cinema era descritta come una ragazza viziata, capricciosa, e invece quella che mi trovavo davanti era una persona estremamente ambigua, al contempo determinata e insicura. Mi apparve esemplare il suo rapporto con Visconti. Lui la trattava come una principiante benche’ fosse un’ attrice molto popolare. E lei era visibilmente intimorita, ma non si lasciava soggiogare. Anni dopo questo primo incontro lessi su un giornale una dichiarazione di Romy che sosteneva di essere stata innamorata di Visconti, nonostante la ben nota omosessualita’ del regista. Da ollara Orson Welles e Otto Preminger, in film in cui da lei volevano solo sorrisi, mossette, cappellini e velette .
“La califfa” fu per lei una occasione di cambiare faccia, cercare una strada che la rinnovasse completamente. Nella storia della popolana alla ricerca di benessere economico e di elevazione sociale, vide alla fine una opportunità da cogliere. Quando cominciarono a girare sul Po, le burrasche e la tensione non mancarono. Imprevedibile, a volte estroversa, altre volte scostante, la Schneider sapeva essere affascinante e indisponente insieme. Come quando rallento’ per ore il ritmo delle riprese e pianto’ un durissimo capriccio perche’ non voleva assumere una posa scomposta a tavola, cosi’ come era previsto dalla sceneggiatura. Volarono parole grosse e ci vollero tutte le arti del regista per convincerla a cambiare opinione.
Poi le cose cambiarono, la sintonia fra lei e Bevilacqua cresceva di giorno in giorno ed il film prendeva il volo. Fino all’inaspettato atto di coraggio dell’ attrice che sconvolse la troupe, quando si lancio’ tra le lamiere, durante l’ incendio della macchina di Doberdo’, per salvare un uccellino, ferendosi e piagandosi le mani realmente e non solo come era previsto per finzione dalla sceneggiatura.
Diceva di lei Bevilacqua che possedeva assieme un tratto androgino, attraverso cui esercitava una forza di attrazione non solo sugli uomini ma anche sulle spettatrici, una caratteristica che la riuniva alla Dietrich. E poi la leggera disarmonia del suo corpo la rendeva molto erotica, anche a causa della notevole carica di violenza che aveva dentro di se’. Sul set o in una relazione sentimentale nel partner vedeva sempre e comunque un avversario, sicché la grazia sensuale si alternava a tremendi scatti di furore e tutto questo creava sequenze di rara intensità.
Donne dolci e seduttive, un contrasto che è tipico del femminile di Bevilacqua, nato da una madre remissiva e che adorava, come racconta in “Lui che ti tradiva” (Mondadori, 2006), libro nel quale però confessa anche di essere stato violentato a sei anni e mezzo da una “donna apparsa dal nulla, un’orchessa” accompagnata da due cani che lo costrinse mentre era sdraiato “nudo sotto il sole sulla riva del grande fiume”.
Peccato che non l’abbia scoperto Bigas Luna, che avrebbe trasformato in splendido cinema il suo connubio fra eros e melodramma, fra forse potranno parlare in cielo di un qualche programma con al centro l’eros, naturalmente, insidioso ed invitante, ma anche, attraverso lui, il destino di dolore che accomuna gli uomini, la vita fonte del male, l’indifferenza del creato, l’inutilità della Storia, il poco amore e la molta solitudine, l’invettiva e l’eloquenza dei sentimenti, il martirio della nevrosi, la bestemmia e la preghiera.
Fosse stato per me l’avrei ricordato con “Questa specie d’amore”, film che ricevette il David di Donatello 1972 come miglior film, ex aequo con “La classe operaia va in paradiso” (peraltro trionfatore a Cannes), con un Tognazzi che interpreta due ruoli – padre e figlio – piuttosto differenti ed entrambi chiaramente riusciti, la produzione di Cecchi Gori che non bada a spese: con un paio di star internazionali nel cast (Fernando Rey e Jean Seberg), Ennio Morricone a occuparsi della colonna sonora (la fotografia di Roberto Gerardi (Matrimonio all’italiana di De Sica, ma anche a fianco di Damiani, Lattuada, Festa Campanile) e il montaggio di Alberto Gallitti,, anch’esso tratto da un romanzo (del 1966) di Bevilacqua , con la provincia verace (la coppia male assortita e in perenne conflitto, soprattutto sul piano psicologico, nonchè i riflessi sociali di tale conflitto.
Mi sembrò esagerato quando, nel 2007, si parlò di lui come candidato al Nobel, ma comunque resta per me un autore fondamentale, che mi ha stuzzicato vaghezze e tentazioni da voyer, con momenti che ti fanno sprofondare nel fango ed altri che ti fanno risalire, con al cento la donna quel mistero che da sempre cerchiamo di dipanare.

Carlo Di Stanislao

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