Venezia premia, sorprendendo letteralmente

Venezia è una città che sorprende. Sempre.Sorprende per i colori, per il paesaggio, per la sua unicità e per la storia che trasuda in ogni angolo delle calli, nelle gente che la abita, nel loro essere lontani anni luce dai ritmi e dai rumori delle altre città occidentali. E sorprende anche quando organizza e premia. […]

Venezia è una città che sorprende. Sempre.Sorprende per i colori, per il paesaggio, per la sua unicità e per la storia che trasuda in ogni angolo delle calli, nelle gente che la abita, nel loro essere lontani anni luce dai ritmi e dai rumori delle altre città occidentali. E sorprende anche quando organizza e premia.
Ha sopreso anche stavolta e quasi tutti il verdetto della giuria presieduta da Bernardo Bertolucci (accolto sul palco con una stantind avation fino alla commozione), che ha ridato all’Italia, dopo tre lustri, il Leone D’Oro, premiando un documentario insolito e coraggioso: “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi e dimostrando che tale genere, tenuto di solito ai margini, è invece cinema a tutti gli effetti, capace di interessare e fare anche incassi, se sostenuto, come era accaduto nel 2004 con “Fahrenheit 9/11” di Michael Moore, che è diventato un successo strepitoso al botteghino, dopo che per distribuirlo, negli Usa, si dovettero coalizzare una serie di case di produzione ribattezzate da Moore stesso “colazione dei volenterosi”.
E le gioie non si sono esaurite nel Leone D’Oro per il nostro cinema, grazie alla Coppa Volpi andata alla ottantaduenne Elena Coppa, che ha battuto la Dench con una interpretazione indimenticabile in “Via Castellana Bandiera”, scritto e diretto da Emma Dante, nel quale ha un ruolo di coprotagonista con Alba Rohrwacher e la stessa regista.
Ancora per il nostro orgoglio, il premio “Orizzonti” a “Still life” di Uberto Pasolini, ritenuto il miglior regista dalla giuria presieduta dal mitico Paul Schrader,uno che di regia davvero se ne intende.
Quanto agli altri premi, vince il cinema greco e la sua “nouvelle vague nera”, con “Miss Violence”, film che ha diviso la stampa sin dalla sua primissima proiezione, che si porta a casa ben due premi, gli stessi andati a “The Master” un anno fa: Alexandros Avranas vince il Leone d’Argento per la regia, e Themis Panou, padre-orco terribile e inquietante, la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile.
Al favorito della vigilia, il taiwanese Tsai Ming-liang e al suo “Stray Dogs”, va il Gran Premio della Giuria e vince anche la Germania grazie a “The Police Officer’s Wife di Philip Gröning”, film con 59 capitoli di 2-3 minuti ciascuno, intramezzati da didascalie, un film innovativo, girato in modo impeccabile, a cui fa il premio per la regia.
Ha voluto premiera il cinema più ostico ed innovativo, capace quindi di stupire, Bertollucci, assegnando anche il premio Mastroianni per un giovane attore a Tye Sheridan, straordinario in “Joe” di David Gordon Green, che continua a vincere ai festival che contano dopo il premio per la regia ricevuto a Berlino 2013.
Mugugnano i giornalisti per i premi scarsi al cinema d’essai più “vendibile”, soprattutto a “Philomena” che si deve accontentare dell’Osella per la sceneggiatura, mentre nessun premio va a “Tom à la ferme” di Xavier Dolane a e “The Wind Rises” di Hayao Miyazaki.
A questifilm neanche premi collaterali, dal momento che anche quello “Brian” che l’Uaar assegna al miglior film presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ed il Taddei (con giuria presieduta da Piera Detassis direttore di Ciak), sono andati a “Philomena”, film che è molto piaciuto per il modo con cui è raccontata una vicenda reale e che mette in evidenza come le istituzioni ecclesiastiche possano essere strumenti di inaridimento della mente e del cuore, tali da trasformare la fede in puro fanatismo sessuofobico. Certamente il film riceverà molti premi a Toronto e agli Oscar, grazie Judi Dench e Steve Coogan, lei un’irlandese semplice e senza cultura, lui u giornalista raffinato ed erudito ed il tocco Frears, riesce a rendere godibilissimo il dramma con colpi diretti alle istituzioni in un fiolm con tempi perfetti, ed una lezione esemplare sul perdono. Ma, evidentemente, è ancora poco per convincere culturi raffinati come Bertolucci e Schrader, che evidentemente lo hanno considerato (come una certa critica radicale), solo un film discreto ma poco graffiante, fatto soprattutto per piacere un po’ a tutti.
Comunque, si è chiusa premiando il cinema impegnato e difficile e di rottura, l’edizione 2013 che sin dall’inizio si è svolta al’insegna della sperimentazione e che ha dato programmaticamente spazio ad un cinema più intraprendente in termini di linguaggio e di struttura narrativa.
A me personalmente è spiaciuto vedere del tutto esclusi dai premi “Les terrasses” di Merzak Allouache, che riesce a parlare dell’Algeria di oggi con una leggerezza che rende ancora più sconvolgente il racconto della violenza latente in una società dominata dalle ipocrisie e dalle contraddizioni, prenendo di petto i fratelli musulmani (temiamo la fatwa contro Allouach per il collegamento esplicito che il regista-sceneggiatore fa fra la jihad e il traffico della droga), la repressione delle donne, la dittatura e i suoi metodi coercitivi e facendolo in modo puro, originale, non manipolativo, trasparente; e, anche “Under the skin”, film coraggioso con una coraggiosa (e sempre bravissima) Scarlett Johansson nel ruolo di un’aliena che percorre le autostrade deserte a caccia di prede umane, sfruttando la sua bellezza come esca, in un film delle immagini che oppone l’ostentato realismo del vagabondare della seducente creatura, alla fantascienza più sfrenata nelle fasi in cui il tutto assume una piega disturbante. Un film che avrebbe meritato una, pechè “sotto la sua pelle” qualcosa si muove, ed è qualcosa che coniuga il cinema popolare alla capacità di riflessione.
Nelle stesse ore dei premi al Lido, la giuria del Premio Campiello ha assegna quello del 2013 e per la prima volta ad uno scrittore morto, Ugo Riccarelli, autore di “L’amore graffia il mondo”, libro che parla di amore e di sensibilità femminile, ultima fatica, per Modadori, dello scrittore senese scomparso il 21 luglio.
Il romanzo, che ha conquistato i 300 lettori anonimi che lo hanno premiato postumo, a battutto “L’ultimo ballo di Charlot” di Fabio Stassi, “La caduta” di Giovanni Cocco, “Tentativi di botanica degli affetti” di Beatrice Bosini e “Geologia di un padre” di Valerio Magrelli, che spera di rifarsi al SuperMondello.
Il romanzo vincitore ha per protagonista una donna, di nome Signorina, nome che in sé racchiude un destino, con il padre, capostazione in un piccolo paese di provincia,che l’aveva chiamata così ispirandosi al soprannome di una locomotiva di straordinaria eleganza.
E creare eleganza, grazia, bellezza è sempre stato il suo talento. Un giorno dal treno sbuca un omino con gli occhi a mandorla e, con pochi semplici gesti, crea un vestitino di carta per la sua bambola.
L’omino scompare, ma le lascia un dono, un dono che lei scoprirà di possedere solo quando una sarta assisterà a una delle sue creazioni.
Potrebbe essere l’atto di nascita di una grande stilista, ma ci sono il fascismo, la povertà e gli scontri in famiglia.
“L’amore graffia il mondo” è il ritratto appassionante di una donna più forte delle proprie fragilità e del vento della storia: una figura indimenticabile, unica, eppure sorella delle tante donne che ogni giorno come guerriere silenziose rinunciano a se stesse per abnegazione e per amore.
Ma – come “Il dolore perfetto”, con cui Riccarelli ha vinse il premio Strega nel 2004 – questo romanzo è anche la saga di una grande famiglia, con una galleria di personaggi severi o meschini, inermi o tenaci che rimangono incisi nella memoria perché appartengono a un tempo perduto. È la storia dell’amore più assoluto e viscerale, quello tra madre e figlio, e della speranza più visionaria. Ed è la celebrazione della forza dell’immaginazione: quella di una donna capace di trarre un abito dalle pieghe di un foglio di carta, perché bastano pochi semplici gesti per vestire di bellezza il mondo.
Il premio è stato consegnato dal presidente di Confindustria Veneto e del Campiello, Roberto Zuccato, alla vedova dello scritore Roberta Bertone in una serata in cui è cresciuta progressivamente di emozione, prsentata in diretta in diretta su Rai5 e Rainews24, on la nuova conduzione di Geppi Cucciari, in abito nero lungo luccicante, e del sempre impeccabile Neri Marcorè.
Dopo i premi al Lido e al Campiello viene fatto di pensare che Venezia ha sempre accostato cinema e letteratura e che, anche quest’anno, la grande letteratura è stata protagonista alla Mostra del Cinema con molti, moltissimi titoli ispirati a romanzi o a vite di scrittori e i nomi dei registi e degli autori mesc olati fino a confondersi.
Sicché, anche quest’anno come è spesso accaduto in passato, A Venezia (attaccata dai tagli e dalla concorrenza), comunque la scrittura e lo sguardo si coniugano, in momenti di alternata convergenza e divergenza, in quello che potremmo definire a tutti gli effetti (secondo le teorie gaudreaultiane), uno “sguardo intermedio”, nu rapporto controverso e complesso, fatto di reciproche confluenze e influenze, tali da non poter definire con chiarezza i confini che separano i due ambiti.
A Venezia si è di nuovo dimostrato che quanto Truffaut definiva “un amore congiunto” tra libri e film e Calvino sosteneva nella sua “Lezione americana” di Calvino (“Nel cinema l’immagine che vediamo sullo schermo era passata anch’essa attraverso un testo scritto, poi era stata ’vista’ mentalmente dal regista, poi ricostruita nella sua fisicità sul set, per essere definitivamente fissata nei fotogrammi del film”), sono gli elementi di base di quanto maggiormente di valore espressivo.
Come sosteneva nel 2007 Giorgio Tinazzi (“La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura”, edito da Marsilio), a venezia soprattutto, gli intrecci, oltre che tra testi di differente natura, si realizzano anche negli incroci di mestieri: i letterati critici cinematografici, gli scrittori registi, i registi scrittori.
Le identità tra i due mezzi espressivi si legano inestricabilmente, nella doppia penetrazione del cinema nella letteratura (il cinema come esperienza; il cinema come “mondo” dietro la “macchina”; la macchina vissuta in prima persona; il cinema come congegno narrativo; come possibilità; come tecnica; lo spettatore; non restano che pellicole), della letteratura nel cinema (il libro, la scrittura, la lettura), la letteratura come riferimento, come metodo, tenendo in ultimo conto anche del destinatario e del mercato.
A tal proposito, mi aspetto che qualche nostro regista si accorga della possibilità di fare un ottimo film da (ad esempio) “La collina del vento”, vincitore del Campiello 2012, definito da molti un libro epico in cui si intrecciano le storie della famiglia Arcuri con personaggi realmente esistiti quali Paolo Orsi e Umberto Zanotti, storia in parte autobiofgrafica dello scrittore Carmine Abate, nato nel 1954 a Carfizzi, piccola comunità calabrese, tra le poche albanesi in Italia che conserva la lingua arberesh, che ha imparato l’italiano a 6 anni sui banchi di scuola per poi emigrare 10 anni dopo in Germania per seguire il padre, trasferitosi per lavoro e figura di importanza fondamentale nella sua vita, determinante per molte delle sue scelte e che attualmente vive in Trentino, sintesi del Sud che si emancipa e che cerca speranza e di un Nord non sempre attento e accogliente, in una Italia in cerca ancora di unità nonostante le celebrazioni, in cui parte la “guerra” a salvare (o sfasciare) Berlusconi, mentre di esodati, lavoro, giovani, scuola, sanità, nessuno, a parte i diretti interessati, pare occuparsi.
Così il film da fare racconterebbe come sui di noi soffia un vento impetuoso e sconvolgente, che scuote le nostre vite e le nostre certezze , ulula nel buio, canta un antico segreto sepolto e fa danzare le foglie come ricordi dimenticati, che sono le speranze di intere generazioni lasciaste sole, ma anche il simbolo di una terra vitale che non si arrende, nonostante tutto.

Carlo Di Stanislao

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