Italia che (il)va ed altre meridionalità

Berlusconi non si fida di nessuno e si tiene abbottonato sulla linea che seguirà. Letta invece deve fidarsi di tutti e parla in continuazione ripetendo che se lo  lasceranno lavorare tirerà l’Italia fuori dalle secche. Lo sostengono Saccomanni dalla Lituania e Visco dalla Banca D’Italia, il primo garantendo che i conti tengono e terranno senza […]

Berlusconi non si fida di nessuno e si tiene abbottonato sulla linea che seguirà. Letta invece deve fidarsi di tutti e parla in continuazione ripetendo che se lo  lasceranno lavorare tirerà l’Italia fuori dalle secche. Lo sostengono Saccomanni dalla Lituania e Visco dalla Banca D’Italia, il primo garantendo che i conti tengono e terranno senza bisogno di manovre aggiuntive e il secondo parlando di crescita moderata ma evidente.

Intanto vi è un problema in più per il governo che vacilla nonostante i puntellamenti e riguarda i licenziamenti che l’Ilva ha messo in atto forse perché necessari o forse solo per ritorsione nei confronti del blocco dei conti della famiglia Riva per le opere necessarie al risanamento degli stabilimenti di Taranto: 5 miliardi di cui solo uno racimolato sin’ora dalla Guardia di Finanza. L’annuncio shock del 12 settembre del gruppo siderurgico proprietario dell’Ilva, secondo cui vi sono 1500 esuberi nelle società, poiché , secondo la famiglia di imprenditori,  il sequestro da 916 milioni di euro (tra cui 71 milioni di azioni Alitalia) effettuato nei giorni scorsi dalla Guardia di Finanza di Taranto su ordine del gip di Taranto, Patrizia Todisco, rende impossibile chiedere linee di anticipo bancario a garanzia degli stipendi, e che pertanto poeterà alla chiusura  di  tutte le attività di Riva Acciaio, tra cui quelle produttive degli stabilimenti di Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero, Cerveno (Brescia) e Annone Brianza (Lecco) e di servizi e trasporti (Riva energia e Muzzana trasporti), mentre a Taranto  l’unica società interessata sarebbe ‘Taranto Energia’, che conta 114 dipendenti.; è stata una doccia fredda per tutti.

Le proteste dei lavoratori sono immediatamente iniziate, mentre il ministro Zanotto, che si è detto sorpreso della decisione dei Riva visto che non c’è alcun atto nuovo da parte dei giudici dopo il sequestro annunciato a luglio,  ha già incontrato i sindacati e lunedì vedrà il presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante con il quale cui sono stati già contatti telefonici.

A tutti i lavoratori della Riva Acciaio “sara’ concessa la cassa integrazione”, assicura il ministro dopo l’incontro, ma intanto all’Ilva di Taranto è alta la tensione, poiché si teme un “effetto-domino”, che però allo stato sembrerebbe escluso sia perché due leggi – la 231 del 2012 e la 89 del 2013, rispettivamente “Salva Ilva” e commissariamento – “proteggono” l’Ilva stessa, sia perché quest’ultima azienda è una realtà che sta cercando di andare avanti con le proprie gambe.

E’ soprattutto la situazione di Taranto Energia a preoccupare lavoratori e sindacati nello stabilimento jonico: i 114 dipendenti sono senza stipendio perché anche le risorse finanziarie della società che fornisce energia all’acciaieria sono finite nel calderone dei sequestri disposti a inizio settimana dal gip Todisco. La paura è che possa essere staccata la spina e che il grande mostro d’acciaio rimanga senza energia, eventualità per il momento escluse sia da fonti interne all’Ilva che dai vertici governativi. Così come dall’ufficio del commissario Bondi rassicurano che si troverà una soluzione al problema stipèendi. Già oggi a Taranto è in programma un incontro per vedere come assicurare la paga agli addetti di Riva Energia.

In queste ore suonano strane le parole di Letta che, nel suo intervento all’inaugurazione a Bari della Fiera del Levante, dice che il Sud spinge i più attivi ad andarsene e abbandona nel limbo chi resta, mentre potrebbe essere “non il freno del Paese, ma la marcia”, come quei ragazzi che “chiedono strada non per sorpassare con sentimento di rivalsa i più vecchi, ma per costruire”

Ed aggiunge che:  “un giovane meridionale su tre oggi non studia o non ha un lavoro” per ricordare i provvedimenti presi dal suo Governo per una legge sul diritto allo studio e per le risorse destinate alla scuola, alla “cultura e al turismo”.

Suonano strane e vuote queste parole mentre trema l’Ilva e si svuota di prospettive proprio quel Sud profondo che vorrebbe ripartire che è comunque o impedito o aiutato solo a parole.

Nel luglio 2012, Umberto Ranieri, spiegando le ragioni di un nuovo ed ennessimo “Manifesto per il Sud”, sottolineava che non è mai stato vera la tesi, diffusa a piene mani sia dalla destra che dalla sinistra nell’ultimo quindicennio,  secondo cui  lo sviluppo del nord poteva dispiegarsi pienamente solo liberandosi dal peso frenante del sud. Le difficoltà in cui si dibatte il sud sono quelle dell’intero Paese. Il divario di produttività che permane con il centro-nord e le difficoltà a colmarlo sono dovuti alle medesime cause, dallo stato della Pubblica Amministrazione alla carenza nella qualità dei servizi, dalla caduta degli investimenti nella ricerca, al deficit di concorrenza, all’illegalità. Se l’Italia stenta a tenere il passo di altri Paesi, la responsabilità non va imputata al sud, bensì alle conseguenze delle mancate riforme in cui si batte il sistema Italia nel suo complesso, altro che Mezzogiorno “capro espiatorio” di ogni ritardo nazionale. Ecco perché non c’è politica credibile per il sud se non viene concepita come parte di un disegno nazionale in grado di affrontare i nodi della crisi economica, sociale, democratica, che investe il Paese.

Un esempio chiaro è riportato in un articolo del lontano 1999, pubblicato su “il Denaroo”, scritto da Sandro Petriccione e intitolato “Le mancate promese di D’Alema”, in cui si riflette sul fatto che mentre è opinione comune che tra i principali fattori che ostacolano lo sviluppo delle regioni meridionali sia la carenza di infrastrutture ed ogni governo ripete fino alla noia che si vuole provvedere in tempi rapidi all’arricchimento del patrimonio infrastrutturale del Sud, con vasta eco dei sindacati e dei presidenti di regioni che vogliono mostrare alla pubblica opinione che, a differenza del passato, i problemi vengono affrontati con rapidità ed efficacia; di fatto tutti ignorano (o vogliono che si ignori), che il problema non è solo quello dell’ammontare degli investimenti in assoluto, ma anche quello occorrente per superare il gap che ci divide da altre regioni in Italia ed in Europa; sicché, partiti dall’esigenza di rafforzare la dotazione di infrastrutture, materiali e immateriali del Sud, si è sempre giunti alla mesta conclusione che le misure adottate finiscono col contraddire le premesse e che finalità di equilibri di bilancio e interessi di gruppi industriali e finanziari del Nord, hanno sempre avuto la prevalenza sulle esigenze della parte meno fortunata del Paese.

Il 21 Novembre scorso, ad Andria, ho assistito alla presentazione dei libri “Mai più Terroni” e Mezzogiorno a tradimento, con i due autori,  il giornalista Pino Aprile e il Prof. Gianfranco Viesti, che hanno animato un dibattito sulla situazione socio-politica del Sud e, attraverso questa, del Paese.

Ho trascritto una frase significativa del prof. Viesti e la riporto: “L’Italia è sfiduciata, impaurita, preoccupata. In un clima di difficoltà generale, per molti il Sud è ormai un’insopportabile palla al piede, un carico di problemi insolubili a dispetto delle colossali risorse investite: mezzogiorno a tradimento, mangiapane a tradimento. La verità è che spesso chiamiamo ‘Mezzogiorno’ quello che non ci piace o non vogliamo vedere del nostro paese. Risolvere i problemi dello sviluppo meridionale e dell’Italia richiede la stessa strategia”.

“Giù al Sud”, edito da Piemme, è l’ultimo saggio di Pino Aprile, non il secondo tempo di “Terroni”, ma un sequel  con minuziosa e godibile  rendicontazione  di incontri esaltanti che lo scrittore ha avuto  con tantissimi giovani del Sud non condizionati, come i loro padri, da ideologie e utopie, ma pragmatici e soprattutto   decisi a restare.  Alieni totalmente da revanscismi sudisti  o da ipotesi di sganciamento del Sud sulla base di lagnose  rampogne allo Stato nazionale, perché   con i chiari di luna che s’addensano perniciosi sul capitalismo in caduta libera dentro una crisi più fosca di quella del ’29, prefigurando un’ineffabile secessionismo meridionale, quando gli Stati nazionali semplicemente si saranno liquefatti nella loro identità originaria  e quel che ne è residuato sarà  travolto, dalla valanga finanziaria che scompagina il modello di governance a cui l’Occidente è approdato nel dopoguerra, rispondono con chiarezza e con forza alle sciocche istanze   di  Bossi e soci, inculcate  ad un pubblico obnubilato dalla televisione ed ignaro del prezzo di sangue ed altro  imposto al   Sud,  dall’Unità d’Italia ad oggi, sicché, mentre  divampava una crisi internazionale  si svelano  sia  l’insipienza strumentale della Lega che  l’abbaiare alla luna di quelle forze, genericamente definite  neoborboniche, che anziché fare autocritica per le  responsabilità delle classi dirigenti meridionali, scaricavano sull’Unità d’Italia le  proprie frustrazioni, evocando  grottescamente  il   Borbone in funzione salvifica; è possibile immaginare una crescita basata su cultura, turismo e inventiva (che è poi innovazione), senza “regalie” statali, ma anche senza che lo stato, attraverso i furbi investitori del nord, ci ponga mano.

Non solo perché abruzzese, ma perché formatomi una coscienza storica e civile sui testi di meridionalisti esimi come i moderati Pasquale Villari, Giustino Fortunato e Adolfo Amodeo e il meno moderato Antonio Gramsci, ho sempre considerato centrale ed illuminante il saggio di Benedetto Croce: “Storia del Regno di Napoli”, in cui il mio grande conterraneo ci dice che sarebbero stati utili quelli che lui chiama “rimedi empirici” e cioè le riforme, da quella tributaria a quella delle tariffe commerciali,  dai decentramenti amministrativi al rimboschimento, agli acquedotti e ad altri lavori pubblici, agli scambi con l’oriente  da riprendere come ai tempi normanno-svevi, ma ancor più necessaria sarebbe stato utile un radicale cambiamento della “cultura”, facendoci intendere che solo attraverso una “rivoluzione culturale”  si può formare un cittadino responsabile, capace di non vedere solo il proprio utile, ma di pensare al bene comune e sconfiggere, così,   la generale indifferenza per la cosa pubblica, la diffusa pigrizia, la cattiva filosofia del “farsi i fatti propri”, la ritrosia, da parte dei migliori, ad assumere incarichi pubblici per paura, chiamando ad un’opera collettiva, ad una sorta di  mobilitazione di tutti i possibili educatori, a cominciare dai maestri di scuola, ma non solo  essi,  perché ciascuno, nella propria cerchia di influenza, faccia quel che gli spetta di fare  per “promuovere un nuovo e più alto costume, una nuova e più alta disposizione negli animi e nelle volontà, dal modificare in meglio  la società in mezzo a cui si vive, godendo di quest’opera come un artista della sua  pittura o della sua statua, e un poeta della sua poesia”.

Egli cita, fra l’altro, il giudizio lapidario del generale inglese Moore:” non v’ha nessuna parte del mondo così priva di spirito di  pubblico come Napoli”, e il Lamarque che nel 1807, in epoca non sospetta,  aveva affermato sgomento:”Questo reame non somiglia ad alcun’altra parte civile d’Europa”. Ma dice anche che, sebbene “la dissoluzione dei Borboni fu l’ “unico mezzo per conseguire una più larga e alacre vita nazionale,  e  per dare migliore avviamento agli stessi problemi (sic!) che travagliavano l’Italia del mezzogiorno”, questi problemi , a suo giudizio del Croce, non solo vennero subito in luce “ nei primi giorni dell’unità, quando scacciati i Borboni e introdotta la costituzione liberale, il governo della nuova Italia, invece di assistere  al miracolo del bel paese redento, rasserenato e luminoso, si trovò di fronte il brigantaggio nelle province, la delinquenza della plebe nell’antica capitale, la generale indisciplina e abiettezza”; ma furono affrontanti solo con belle parole.

Lorenzo Del Boca in “Indietro Savoia” (Piemme, 2003), cita l’ipotesi di Marcello Veneziani secondo cui, fra l’altro,  il Risorgimento provocò,  per la sua preminente matrice liberale ed anticlericale, anche “la frattura con l’anima religiosa del popolo italiano, la frattura con il mondo rurale e con i valori tipici di una civiltà contadina, la frattura con il Meridione”.

Una frattura che non solo è insanabile, ma denota che Sud e Nord hanno da sempre inconciliabili modi di concepire la vita con i suoi valori e che, pertanto, o se ne rispettano le differenze ideologiche e culturali, le rispettive “credenze” o una delle due parti deve soccombere aderendo alle istanze dell’altra.

Interessanti, a quest’ultimo proposito, le opinioni di Denis Mack Smith e Paolo Mieli.

Dice il primo: “Contrariamente alla versione raccontata sui libri della storia ufficiale il popolo meridionale non partecipò al Risorgimento” e aggiunge il secondo: “La stagione risorgimentale e post-risorgimentale è fatta di migliaia di morti, lotte, spari, massacri. Abbiamo vissuto una lunga guerra civile, di reietti contro buoni. Il popolo, soprattutto dell’Italia meridionale, è stato all’opposizione; lo era dai tempi delle invasioni napoleoniche. C’erano stati moti molto forti, per diciannove anni, sino al 1815 [le cosiddette “insorgenze” contro i francesi che causarono decine di migliaia di vittime]. Il popolo rimase sordamente ostile, perché legato all’autorità borbonica non percepita come nemica e alla Chiesa cattolica, che era una delle fonti istituzionali alle quali abbeverarsi. Il fenomeno ricordato nei nostri manuali come brigantaggio in realtà fu una guerra civile che sconvolse l’intero Sud, gli sconfitti lasciarono le loro terre e alimentarono la gigantesca emigrazione verso l’America”.

Forse questi testi dovrebbe leggere e citare Enrico Letta invece di Ligabue per convincerci che davvero crede nel Sud e nella sua rimona per salvare un’Italia devastata ed abbandonata dai suoi stessi politici, più inclini a guerre e guerricile interne, che alla salvaguarda di cittadini, risorse e differenze.

Invece, il divario fra Sud e Nord continua ad aumentare senza sosta e come ci diceva, già nel 2009, il rapporto Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno): “la situazione è  al limite del collasso e non lascia spazio a sogni o speranze”.

Ora va anche detto che nel Sud il potere statale è sempre stato percepito come qualcosa di estraneo e distante e poiché per mantere a lungo un c’è bisogno di un potere che abbia autorità, autorevolezza e radicamento territorial, di  qualcuno che “tenga le fila”, che detti legge, ancora oggi, in tanti paesi del Sud, vi è un potere mafioso che conta più di quello statale ed il  cui unico scopo è la conservazioone dello status quo.

Ma, poiché come si dice in grecanico calabre: “Lico den troghi lico”, ovvero lupo non mangia lupo, la saggezza popolare che ha una visione più lucida della realtà rispetto a chi, ancora oggi, per risolvere gli incancreniti problemi del Meridione non sa proporre di meglio che il separatismo, a cui si aggiunge l’aggettivo “rivoluzionario” per renderlo forse attraente agli occhi dei più arrabbiati, ha compreso che il problema si risolvere salvaguardando le differenze, proprie ed altrui, incentivando risorse e talenti e successivamente mettendo tutto in comune.

Il separatismo rivoluzionario, che una sorta di leghismo alla rovescia con velleità socialistoidi, di rivoluzionario ha davvero poco e soprattutto ha dimenticato quanto scritto dal suo fondatore Nicola Zitara,  nella raccolta di articoli intitolata “Il proletariato esterno” del 1972: “le masse lavoratrici del Nord e del Sud possono, sì, avere un traguardo finale comune, ma debbono percorrere strade diverse ed autonome, perché autonomi e spesso contrastanti sono gli interessi rispettivi.”

Carlo Di Stanislao

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