L’italica difesa di Schettino

La nave, dopo 20 mesi, giace “dritta” su delle piattaforme e sono ora possibili nuove perizie chieste sia dalla difesa del comandante Schettino che da Codacons, il cui legale rappresentante avvocato Liuzzi, intervistato a Sky Tg24, sospetta “ gravi difetti di funzionamento, in primis delle porte di emergenza e il generatore di emergenza”. Per la […]

La nave, dopo 20 mesi, giace “dritta” su delle piattaforme e sono ora possibili nuove perizie chieste sia dalla difesa del comandante Schettino che da Codacons, il cui legale rappresentante avvocato Liuzzi, intervistato a Sky Tg24, sospetta “ gravi difetti di funzionamento, in primis delle porte di emergenza e il generatore di emergenza”.
Per la prima volta in aula a Grosseto, nel processo che lo vede imputato per il naufragio al Giglio, Francesco Schettino accusa il timoniere, cosa che in precedenza aveva già fatto la sua difesa e dice testuale: “ dal momento in cui ho chiesto al timoniere di mettere i timoni a sinistra, l’errore è stato di non farlo, in quel momento la nave aveva un’accelerazione a destra. Se non ci fosse stato l’errore del timoniere, di non posizionare i timoni a sinistra, ovvero l’errore di scontrarsi, cioè di evitare la derapata non ci sarebbe stato quello schiaffo”.
Nel corso della stessa odierna udienza, però, il perito ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, ha dichiartato che: “con buona probabilità l’impatto ci sarebbe comunque stato, per la velocità della nave e le condizioni avverse in quel momento della dinamica”. Ai pm che chiedevano maggiore precisione sugli effetti di quell’errore, l’ammiraglio ha risposto: “non si può valutare il punto dell’impatto e le risultanze di questo impatto, che tipo di falla, dove e con che ampiezza, ma l’impatto ci sarebbe comunque stato, a giudizio del collegio peritale, viste la vicinanza dello scoglio alla terraferma e – ha concluso – le caratteristiche del moto della nave e quelle meteo.
Dice bene Frabrizio Vincenti quando scrive che comunque la si veda e comunque vada a finiere, il disastro della Concordia, con 38 morti di cui due ancora fra le contorte lamiere della grande nave, è una metafora della nostra provvisorietà e della nostra Nazione, che non ha un governo nella pienezza dei suoi poteri, una sovranità, un sistema industriale degno di tale nome, e che riscopre le sue isole di eccellenza e non sa (rubo il titolo ad un film di Paolo Franchi) che piuttosto è fatta di eroismi senza qualità, sospinta in una eterna giostra esistenziale che a un certo punto ci fa scendere, a volte senza altri giri, come direbbe Tiziano Terzani.
Un’Italia che grida al miracolo della nave sollevata ma non sottolinea che a farlo è stato un team di stranieri e che plaude commossa al prode ufficiale che richiama al dovere il comandante fellone, senza tener conto che egli ha fatto solo il suo dovere e non per questo merita (come in molti hanno detto), la candidatura in parlamento.
L’accusato numero uno resta Francesco Schettino, il comandante, accusato di omicidio plurimo colposo, abbandono della nave e danno ambientale, perché fu lui, come rappresentante della massima istituzione di comando della nave (che è una vera e propria città), a decidere (o accettare la proposta, ma cambia poco) di eseguire quell’inchino scellerato che avvicinò la Concordia all’isola e la fece finire sugli scogli delle Scole. E soprattutto fu Schettino a decidere in “modo assolutamente inadeguato” le operazioni per salvare la nave dopo l’urto e a abbandonarla poco dopo. Se non ci fu una catastrofe si deve solo alla fortuna e alle correnti che portarono il relitto vicino al Giglio e lo adagiarono su un fondale poco profondo. “Quello del comandante della nave da crociera – ha detto il pm Verusio – fu un comportamento sconcertante. E’ stato accertato che al momento dell’impatto il comandante era sulla plancia di comando, governava la nave con il timone a mano, come si fa, in genere, con una barchetta o un gommone sottocosta, senza una rotta tracciata”. La difesa sostiene, invece, che fu Schettino a salvare le vite di migliaia di persone con una manovra eccezionale che però, probabilmente, non fu compresa dal timoniere indonesiano Jacob Rusli (uno degli indagati), che pare non capisse bene né l’inglese né l’italiano e durante la rotta aveva commesso altri errori.
Ma, se fosse vero, avremmo ripetuto quanto Caporetto ci avrebbe dovuto insegnare: fra ufficiali e subalterni occore che si parli la medesima lingua.
Resta la domanda se siano mai esistiti in Italia dei Disko Troop, capaci di farci apprezzare la lealtà e la solidarietà, uomini di poche parole ma di grande coraggio e abilità o non siamo invece campioni di scaricabarile, incapaci di imparare dalle lezioni., ma sempre pronti a non farci carico delle responsabilità, neanche di quelle più grandi.
Vi è un libro che ha rubato il titolo a quello di Kypling, scritto per Chiarelettere da Gianni Dragoni, in cui, ricostruendo un’altra disastrosa vicenda di non eroi italiani (la “bad company” messa insieme da Berlusconi per salvare Alitalia), è scritto che da noi più che coraggiosi “i capitani sono furbi” e lo Stato sia il miglior cliente per “imprenditori” senza scrupoli le cui sole capacità sono arricchirsi collettivizzando i loro debiti grazie a compiacenti politici di destra e di sinistra, con una col pre-tangentopoli che porta alla luce la debolezza e il destino di un popolo di pecore che si credono furbe, incapaci di vedere oltre il presente ed il proprio tornaconto.

Carlo Di Stanislao

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