Terapia del dolore, gli italiani non sanno a chi rivolgersi

Chiedono che il dolore cronico sia curato, ma non sanno che esistono centri specialistici a cui rivolgersi. Hanno meno pregiudizi verso gli oppiacei, ma considerano gli antinfiammatori i farmaci di riferimento. È l’immagine degli italiani davanti al dolore scattata dalla Fondazione Isal attraverso l’analisi del questionario proposto nel 2012, in occasione della seconda edizione della […]

Chiedono che il dolore cronico sia curato, ma non sanno che esistono centri specialistici a cui rivolgersi. Hanno meno pregiudizi verso gli oppiacei, ma considerano gli antinfiammatori i farmaci di riferimento. È l’immagine degli italiani davanti al dolore scattata dalla Fondazione Isal attraverso l’analisi del questionario proposto nel 2012, in occasione della seconda edizione della Giornata “Cento città contro il dolore” e presentato con una relazione al Parlamento. Distribuito in 54 città italiane e compilato da 5.500 persone, il questionario aiuta a capire quanto sia presente il dolore nella vita degli italiani e quale sia la loro consapevolezza su terapie e centri di cura disponibili. “I risultati indicano come sia cambiato l’atteggiamento verso il dolore e la cura – spiega William Raffaeli, presidente della Fondazione Isal – I giovani, in particolare, chiedono un sollievo immediato, a prescindere da quale sia la causa del dolore, e non hanno più tabù verso l’uso degli oppioidi. Maggiori resistenza, invece rimangono da parte degli anziani”.
Il 63 per cento degli intervistati (con punte dell’80 per cento tra i 30 e i 50 anni) ritiene che il dolore vada curato in ogni caso, anche prima di una diagnosi che ne individui le cause. Solo per il 6 per cento il dolore va trattato esclusivamente in caso di tumori, mentre il 2 per cento afferma che le persone con dolore non necessitano di cure mediche. Gli antinfiammatori sono ritenuti dal 39 per cento i farmaci più utili, seguiti dal paracetamolo (24 per cento). “Questo dato evidenzia quanto siano necessarie un’educazione civica e un’adeguata formazione sul tema dell’appropriatezza degli analgesici – continua Raffaeli – Un dato incoraggiante viene invece dal terzo posto occupato dagli oppiacei, consigliati dall’Organizzazione mondiale della sanità per il trattamento del dolore cronico di intensità moderata o severa, e dalla mancanza di ‘oppiofobia’ nella fascia di età tra i 30 e i 50 anni”. Alla domande se prenderebbe morfina in caso di un dolore forte che non passa con il tempo, ha risposto ‘sì’ il 53 per cento degli intervistati. Il 13 per cento lo farebbe solo in caso di dolore oncologico. Si dichiara contrario agli oppiacei il 38 per cento degli over 70.
Nel 2012 la Fondazione Isal ha sondato anche l’incidenza del dolore al rachide, una delle patologie più diffuse. La conferma arriva dal 77 per cento di italiani di tutte le età che risponde di avere o di aver avuto mal di schiena. Tra questi, il 18 per cento ne soffre più volte all’anno e il 15 per cento in maniera continuativa, percentuale che sale al 23 per cento nella fascia tra 50 e 70 anni. Il 76 per cento dichiara anche di conoscere qualcuno che ha gravi problemi alla schiena. Rispetto al dolore, il 45 per cento degli intervistati è consapevole dell’esistenza di un dolore che non dipende da alcuna causa evidente e che è una malattia in sé. Ben più ampia (84 per cento) la fascia di popolazione sensibile alle conseguenze che il dolore cronico può avere sulla qualità della vita, come insonnia, stress, depressione e perdita del lavoro. Gli italiani sono, quindi, sensibili al dolore e quando ne soffrono chiedono di essere curati. Risulta per questo grave la disinformazione sui centri di terapia del dolore presenti sul territorio: il 35 per cento degli intervistati ne ignora l’esistenza, il 42 per cento ne è venuto a conoscenza da amici e parenti, solo il 23 per cento dal medico di famiglia. “Serve più informazione da parte delle istituzioni per far conoscere ai cittadini la rete per la terapia del dolore – conclude Raffaeli – ma serve anche una maggiore disponibilità da parte dei medici a fare fino in fondo il loro lavoro, indirizzando chi soffre verso centri specialistici e cure appropriate”. (lp)

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