Papa Francesco incontra San Francesco nella sofferenza dei Cinquecento Martiri di Lampedusa

“Nel nome di San Francesco, vi dico: non ho né oro né argento da darvi, ma qualcosa di molto più prezioso, il Vangelo di Gesù. Andate con coraggio! Siate testimoni della fede con la vostra vita: portate Cristo nelle vostre case, annunciatelo tra i vostri amici, accoglietelo e servitelo nei poveri”(Papa Francesco). È chiaro il […]

“Nel nome di San Francesco, vi dico: non ho né oro né argento da darvi, ma qualcosa di molto più prezioso, il Vangelo di Gesù. Andate con coraggio! Siate testimoni della fede con la vostra vita: portate Cristo nelle vostre case, annunciatelo tra i vostri amici, accoglietelo e servitelo nei poveri”(Papa Francesco). È chiaro il messaggio di Papa Francesco ai giovani dell’Umbria, valido per i cristiani di tutto il mondo. È forte soprattutto perché giunge al termine di una giornata di “full immersion” francescana, Venerdì 4 Ottobre 2013, vissuta nei luoghi del Santo all’insegna del ritorno alle origini della Chiesa apostolica imbevuta della spiritualità del serafico San Francesco. Una Chiesa che cresce per “attrazione gravitazionale” (espressione di Benedetto XVI) della “testimonianza del popolo di Dio – insegna Papa Francesco – che nulla ha a che fare con il proselitismo. Per questo è necessario uscire da sé stessi e andare verso le  vere periferie esistenziali”. Anche insegnando il Segno della Croce, a coloro, piccoli e grandi, che non lo conoscono nel mondo. Un discorso valido anche per le Clarisse, le monache contemplative chiamate ad essere non tanto, o almeno non solo  votate a “una vita ascetica, penitente perché questa non è la strada di una suora di clausura cattolica, neppure cristiana. Gesù deve essere al centro della vostra vita – spiega Papa Bergoglio – della vostra penitenza, della vostra vita comunitaria, della vostra preghiera ed anche della universalità della preghiera.  Le suore di clausura sono chiamate ad avere grande umanità, un’umanità
eri, delle delusioni, della disperazione, della speranza”. Così Papa Francesco, a colloquio con Scalfari, ribadisce che “l’ideale di una Chiesa missionaria e povera, incarnato da San Francesco 800 anni fa, rimane più che valido oggi per ridare speranza ai giovani, aiutare i vecchi, aprire verso il futuro, diffondere l’amore. Poveri tra i poveri. Dobbiamo includere gli esclusi e predicare la pace. Questa è la Chiesa che hanno predicato Gesù e i suoi discepoli. Per questo il Vaticano II decise di aprire alla cultura moderna, questo significava – come i padri conciliari sapevano – ecumenismo religioso e dialogo con i non credenti. Ma dopo di allora – osserva Papa Bergoglio – fu fatto molto poco in quella direzione. Io ho l’umiltà e l’ambizione di volerlo fare”. Il Papa affronta molte altre questioni sollecitato da tante domande di Scalfari, anzitutto sull’idea di Bene e di Male e sull’autonomia della Coscienza. “Il mondo è percorso da strade – spiega il Papa – che riavvicinano e allontanano, ma l’importante è che portino verso Bene. E se ciascuno ha una sua idea di Bene e del Male, deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male: basterebbe questo per migliorare il mondo”. E la Chiesa lo sta facendo? – chiede Scalfari. “Sì – risponde Papa Francesco – le nostre missioni hanno questo scopo: individuare i bisogni materiali e immateriali delle persone e cercare di soddisfarli come possiamo. Questo è l’amore per gli altri, amore per il prossimo, lievito per il bene comune, che viene oscurato dal narcisismo, una sorta di disturbo mentale che colpisce di più persone che hanno molto potere. Anche i capi della Chiesa – ammette Papa Bergoglio – sono stati narcisi, lusingati e malamente eccitati dai loro cortigiani. La corte è la lebbra del papato. Non la Curia nel suo complesso – chiarisce Papa Francesco – ma quella che negli eserciti è l’intendenza che gestisce i servizi che servono alla Santa Sede, che ha un difetto: è Vaticano-centrica, cura gli interessi, ancora in gran parte temporali del Vaticano e trascura il mondo che ci circonda. Non condivido questa visione – afferma Papa Francesco – e farò di tutto per cambiarla, perché la Chiesa deve tornare ad essere una comunità del popolo di Dio e perché i presbiteri, i parroci, i vescovi sono al servizio del popolo di Dio. Tra i più gravi mali nel mondo in questi anni – ammonisce Papa Francesco – sono la disoccupazione dei giovani e la solitudine dei vecchi. Vecchi che hanno bisogno di cure e compagni” e giovani di lavoro e speranza, ma non hanno né l’uno né l’altra, e il guaio è che non li cercano più, perché sono stati schiacciati sul presente. Ma si può vivere – s’interroga accorato il Papa – senza memoria del passato e senza desiderio di proiettarsi nel futuro costruendo un progetto, un avvenire, una famiglia? È possibile continuare così?”. È “questo – fa notare Papa Bergoglio – il problema più urgente e più drammatico che la Chiesa ha di fronte a sé, perché questa situazione non ferisce solo i corpi ma anche le anime. E la Chiesa deve sentirsi responsabile sia delle anime che dei corpi. Le ricordo – dice il Papa a Scalfari salutandolo – che la Chiesa è femminile”. Come Dio, ci ricorda il Beato Giovanni Paolo II. “La Chiesa deve sentirsi responsabile. In larga misura quella consapevolezza c’è – afferma il Pontefice – ma non abbastanza. Io desidero che lo sia di più. Non è questo il solo problema che abbiamo di fronte ma è il più urgente e il più drammatico”. L’incontro con Papa Francesco avviene nella sua residenza di Santa Marta, “in una piccola stanza spoglia, un tavolo e cinque o sei sedie, un quadro alla parete. Era stato preceduto da una telefonata che – racconta Scalfari – non dimenticherò finché avrò vita. Erano le due e mezza del pomeriggio. Squilla il mio telefono e la voce alquanto agitata della mia segretaria mi dice: «Ho il Papa in linea glielo passo immediatamente». Resto allibito mentre già la voce di Sua Santità dall’altro capo del filo dice: «Buongiorno, sono Papa Francesco». Buongiorno Santità – dico io e poi – sono sconvolto non m’aspettavo mi chiamasse. «Perché sconvolto? Lei mi ha scritto una lettera chiedendo di conoscermi di persona. Io avevo lo stesso desiderio e quindi son qui per fissare l’appuntamento. Vediamo la mia agenda: mercoledì non posso, lunedì neppure, le andrebbe bene martedì?». Rispondo: va benissimo. «L’orario è un po’ scomodo, le 15, le va bene? Altrimenti cambiamo giorno». Santità, va benissimo anche l’orario. «Allora siamo d’accordo: martedì 24 alle 15. A Santa Marta. Deve entrare dalla porta del Sant’Uffizio». Non so come chiudere questa telefonata e mi lascio andare dicendogli: posso abbracciarla per telefono? «Certamente, l’abbraccio anch’io. Poi lo faremo di persona, arrivederci». Ora son qui. Il Papa entra e mi dà la mano, ci sediamo. Il Papa sorride e mi dice: «Qualcuno dei miei collaboratori che la conosce mi ha detto che lei tenterà di convertirmi». È una battuta gli rispondo. Anche i miei amici pensano che sia Lei a volermi convertire. Ancora sorride e risponde: «Il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso. Bisogna conoscersi, ascoltarsi e far crescere la conoscenza del mondo che ci circonda. A me capita che dopo un incontro ho voglia di farne un altro perché nascono nuove idee e si scoprono nuovi bisogni. Questo è importante: conoscersi, ascoltarsi, ampliare la cerchia dei pensieri. Il mondo è percorso da strade che riavvicinano e allontanano, ma l’importante è che portino verso il Bene». Santità, esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce? «Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene». Lei, Santità, l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa. «E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo». La Chiesa lo sta facendo? «Sì, le nostre missioni hanno questo scopo: individuare i bisogni materiali e immateriali delle persone e cercare di soddisfarli come possiamo. Lei sa cos’è l’“agape”?». Sì, lo so. «È l’amore per gli altri, come il nostro Signore l’ha predicato. Non è proselitismo, è amore. Amore per il prossimo, lievito che serve al bene comune». Ama il prossimo come te stesso. «Esattamente, è così». Gesù nella sua predicazione disse che l’agape, l’amore per gli altri, è il solo modo di amare Dio. Mi corregga se sbaglio. «Non sbaglia. Il Figlio di Dio si è incarnato per infondere nell’anima degli uomini il sentimento della fratellanza. Tutti fratelli e tutti figli di Dio. Abbà, come lui chiamava il Padre. Io vi traccio la via, diceva. Seguite me e troverete il Padre e sarete tutti suoi figli e lui si compiacerà in voi. L’agape, l’amore di ciascuno di noi verso tutti gli altri, dai più vicini fino ai più lontani, è appunto il solo modo che Gesù ci ha indicato per trovare la via della salvezza e delle Beatitudini». Tuttavia l’esortazione di Gesù, l’abbiamo ricordato prima, è che l’amore per il prossimo sia eguale a quello che abbiamo per noi stessi. Quindi quello che molti chiamano narcisismo è riconosciuto come valido, positivo, nella stessa misura dell’altro. Abbiamo discusso a lungo su questo aspetto. «A me – diceva il Papa – la parola narcisismo non piace, indica un amore smodato verso se stessi e questo non va bene, può produrre danni gravi non solo all’anima di chi ne è affetto ma anche nel rapporto con gli altri, con la società in cui vive. Il vero guaio è che i più colpiti da questo che in realtà è una sorta di disturbo mentale sono persone che hanno molto potere. Spesso i Capi sono narcisi». Anche molti Capi della Chiesa lo sono stati. «Sa come la penso su questo punto? I Capi della Chiesa spesso sono stati narcisi, lusingati e malamente eccitati dai loro cortigiani. La corte è la lebbra del papato».
La lebbra del papato, ha detto esattamente così. Ma qual è la corte? Allude forse alla Curia? – ho chiesto. «No, in Curia ci sono talvolta dei cortigiani, ma la Curia nel suo complesso è un’altra cosa. È quella che negli eserciti si chiama l’intendenza, gestisce i servizi che servono alla Santa Sede. Però ha un difetto: è Vaticano-centrica. Vede e cura gli interessi del Vaticano, che sono ancora, in gran parte, interessi temporali. Questa visione Vaticano-centrica trascura il mondo che ci circonda. Non condivido questa visione e farò di tutto per cambiarla. La Chiesa è o deve tornare ad essere una comunità del popolo di Dio e i presbiteri, i parroci, i Vescovi con cura d’anime, sono al servizio del popolo di Dio. La Chiesa è questo, una parola non a caso diversa dalla Santa Sede che ha una sua funzione importante ma è al servizio della Chiesa. Io non avrei potuto avere la piena fede in Dio e nel suo Figlio se non mi fossi formato nella Chiesa e ho avuto la fortuna di trovarmi, in Argentina, in una comunità senza la quale non avrei preso coscienza di me e della mia fede». Lei ha sentito la sua vocazione fin da giovane? «No, non giovanissimo. Avrei dovuto fare un altro mestiere secondo la mia famiglia, lavorare, guadagnare qualche soldo. Feci l’università. Ebbi anche una insegnante verso la quale concepii rispetto e amicizia, era una comunista fervente. Spesso mi leggeva e mi dava da leggere testi del Partito comunista. Così conobbi anche quella concezione molto materialistica. Ricordo che mi fece avere anche il comunicato dei comunisti americani in difesa dei Rosenberg che erano stati condannati a morte. La donna di cui le sto parlando fu poi arrestata, torturata e uccisa dal regime dittatoriale allora governante in Argentina». Il comunismo la sedusse? «Il suo materialismo non ebbe alcuna presa su di me. Ma conoscerlo attraverso una persona coraggiosa e onesta mi è stato utile, ho capito alcune cose, un aspetto del sociale, che poi ritrovai nella dottrina sociale della Chiesa». La teologia della liberazione, che Papa Wojtyła ha scomunicato, era abbastanza presente nell’America Latina. «Sì, molti suoi esponenti erano argentini». Lei pensa che sia stato giusto che il Papa  li combattesse? «Certamente davano un seguito politico alla loro teologia, ma molti di loro erano credenti e con un alto concetto di umanità». Santità, mi permette di dirle anch’io qualche cosa sulla mia formazione culturale? Sono stato educato da una madre molto cattolica. A 12 anni vinsi addirittura una gara di catechismo tra tutte le parrocchie di Roma ed ebbi un premio dal Vicariato. Mi comunicavo il primo venerdì di ogni mese, insomma praticavo la liturgia e credevo. Ma tutto cambiò quando entrai al liceo. Lessi, tra gli altri testi di filosofia che studiavamo, il Discorso sul metodo di Descartes e rimasi colpito dalla frase, ormai diventata un’icona, «Penso, dunque sono». L’io divenne così la base dell’esistenza umana, la sede autonoma del pensiero. «Descartes tuttavia non ha mai rinnegato la fede del Dio trascendente». È vero, ma aveva posto il fondamento d’una visione del tutto diversa e a me accadde di incamminarmi in quel percorso che poi, corroborato da altre letture, mi ha portato a tutt’altra sponda. «Lei però, da quanto ho capito, è un non credente ma non un anticlericale. Sono due cose molto diverse». È vero, non sono anticlericale, ma lo divento quando incontro un clericale. Lui sorride e mi dice: «Capita anche a me, quando ho di fronte un clericale divento anticlericale di botto. Il clericalismo non dovrebbe aver niente a che vedere con il cristianesimo. San Paolo che fu il primo a parlare ai Gentili, ai pagani, ai credenti in altre religioni, fu il primo a insegnarcelo». Posso chiederle, Santità, quali sono i santi che lei sente più vicini all’anima sua e sui quali si è formata la sua esperienza religiosa? «San Paolo è quello che mise i cardini della nostra religione e del nostro credo. Non si può essere cristiani consapevoli senza San Paolo. Tradusse la predicazione di Cristo in una struttura dottrinaria che, sia pure con gli aggiornamenti di un’immensa quantità di pensatori, di teologi, di pastori d’anime, ha resistito e resiste dopo duemila anni. E poi Agostino, Benedetto e Tommaso e Ignazio. E naturalmente Francesco. Debbo spiegarle il perché?». Francesco – mi sia consentito a questo punto di chiamare così il Papa perché è lui stesso a suggerirtelo per come parla, per come sorride, per le sue esclamazioni di sorpresa o di condivisione – mi guarda come per incoraggiarmi a porre anche le domande più scabrose e più imbarazzanti per chi guida la Chiesa. Sicché gli chiedo: di Paolo ha spiegato l’importanza e il ruolo che ha svolto, ma vorrei sapere quale tra quelli che ha nominato sente più vicino all’anima sua? «Mi chiede una classifica, ma le classifiche si possono fare se si parla di sport o di cose analoghe. Potrei dirle il nome dei migliori calciatori dell’Argentina. Ma i santi…». Si dice scherza coi fanti, conosce il proverbio? «Appunto. Tuttavia non voglio evadere alla sua domanda perché lei non mi ha chiesto una classifica sull’importanza culturale e religiosa ma chi è più vicino alla mia anima. Allora le dico: Agostino e Francesco». Non Ignazio, dal cui Ordine Lei proviene? «Ignazio, per comprensibili ragioni, è quello che conosco più degli altri. Fondò il nostro Ordine. Le ricordo che da quell’Ordine proveniva anche Carlo Maria Martini, a me ed anche a lei molto caro. I gesuiti sono stati e tuttora sono il lievito – non il solo ma forse il più efficace – della cattolicità: cultura, insegnamento, testimonianza missionaria, fedeltà al Pontefice. Ma Ignazio che fondò la Compagnia, era anche un riformatore e un mistico. Soprattutto un mistico». E pensa che i mistici sono stati importanti per la Chiesa? «Sono stati fondamentali. Una religione senza mistici è una filosofia». Lei ha una vocazione mistica? «A lei che cosa le sembra?». A me sembra di no.
«Probabilmente ha ragione. Adoro i mistici; anche Francesco per molti aspetti della sua vita lo fu ma io non credo d’avere quella vocazione e poi bisogna intendersi sul significato profondo di quella parola. Il mistico riesce a spogliarsi del fare, dei fatti, degli obiettivi e perfino della pastoralità missionaria e s’innalza fino a raggiungere la comunione con le Beatitudini. Brevi momenti che però riempiono l’intera vita». A Lei è mai capitato? «Raramente. Per esempio quando il Conclave mi elesse Papa. Prima dell’accettazione chiesi di potermi ritirare per qualche minuto nella stanza accanto a quella con il balcone sulla piazza. La mia testa era completamente vuota e una grande ansia mi aveva invaso. Per farla passare e rilassarmi chiusi gli occhi e scomparve ogni pensiero, anche quello di rifiutarmi ad accettare la carica come del resto la procedura liturgica consente. Chiusi gli occhi e non ebbi più alcuna ansia o emotività. A un certo punto una grande luce mi invase, durò un attimo ma a me sembrò lunghissimo. Poi la luce si dissipò io m’alzai di scatto e mi diressi nella stanza dove mi attendevano i cardinali e il tavolo su cui era l’atto di accettazione. Lo firmai, il cardinal Camerlengo lo controfirmò e poi sul balcone ci fu l’Habemus Papam». Rimanemmo un po’ in silenzio, poi dissi: parlavamo dei santi che lei sente più vicini alla sua anima ed eravamo rimasti ad Agostino. Vuole dirmi perché lo sente molto vicino a sé? «Anche il mio predecessore ha Agostino come punto di riferimento. Quel santo ha attraversato molte vicende nella sua vita e ha cambiato più volte la sua posizione dottrinaria. Ha anche avuto parole molto dure nei confronti degli ebrei, che non ho mai condiviso. Ha scritto molti libri e quello che mi sembra più rivelatore della sua intimità intellettuale e spirituale sono le Confessioni, contengono anche alcune manifestazioni di misticismo ma non è affatto, come invece molti sostengono, il continuatore di Paolo. Anzi, vede la Chiesa e la fede in modo profondamente diverso da Paolo, forse anche perché erano passati quattro secoli tra l’uno e l’altro». Qual è la differenza, Santità? «Per me è in due aspetti, sostanziali. Agostino si sente impotente di fronte all’immensità di Dio e ai compiti ai quali un cristiano e un vescovo dovrebbe adempiere. Eppure lui impotente non fu affatto, ma l’anima sua si sentiva sempre e comunque al di sotto di quanto avrebbe voluto e dovuto. E poi la grazia dispensata dal Signore come elemento fondante della fede. Della vita. Del senso della vita. Chi è non toccato dalla grazia può essere una persona senza macchia e senza paura come si dice, ma non sarà mai come una persona che la grazia ha toccato. Questa è l’intuizione di Agostino». Lei si sente toccato dalla grazia? «Questo non può saperlo nessuno. La grazia non fa parte della coscienza, è la quantità di luce che abbiamo nell’anima, non di sapienza né di ragione. Anche lei, a sua totale insaputa, potrebbe essere toccato dalla grazia». Senza fede? Non credente? «La grazia riguarda l’anima». Io non credo all’anima. «Non ci crede ma ce l’ha». Santità, s’era detto che Lei non ha alcuna intenzione di convertirmi e credo che non ci riuscirebbe. «Questo non si sa, ma comunque non ne ho alcuna intenzione». E Francesco? «È grandissimo perché è tutto. Uomo che vuole fare, vuole costruire, fonda un Ordine e le sue regole, è itinerante e missionario, è poeta e profeta, è mistico, ha constatato su se stesso il male e ne è uscito, ama la natura, gli animali, il filo d’erba del prato e gli uccelli che volano in cielo, ma soprattutto ama le persone, i bambini, i vecchi, le donne. È l’esempio più luminoso di quell’agape di cui parlavamo prima». Ha ragione Santità, la descrizione è perfetta. Ma perché nessuno dei suoi predecessori ha mai scelto quel nome? E secondo me, dopo di Lei nessun altro lo sceglierà? «Questo non lo sappiamo, non ipotechiamo il futuro. È vero, prima di me nessuno l’ha scelto. Qui affrontiamo il problema dei problemi. Vuole bere qualche cosa?». Grazie, forse un bicchiere d’acqua. Si alza, apre la porta e prega un collaboratore che è all’ingresso di portare due bicchieri d’acqua. Mi chiede se vorrei un caffè, rispondo di no. Arriva l’acqua. Alla fine della nostra conversazione il mio bicchiere sarà vuoto, ma il suo è rimasto pieno. Si schiarisce la gola e comincia. «Francesco voleva un Ordine mendicante e anche itinerante. Missionari in cerca di incontrare, ascoltare, dialogare, aiutare, diffondere fede e amore. Soprattutto amore. E vagheggiava una Chiesa povera che si prendesse cura degli altri, ricevesse aiuto materiale e lo utilizzasse per sostenere gli altri, con nessuna preoccupazione di se stessa. Sono passati 800 anni da allora e i tempi sono molto cambiati, ma l’ideale d’una Chiesa missionaria e povera rimane più che valida. Questa è comunque la Chiesa che hanno predicato Gesù e i suoi discepoli». Voi cristiani adesso siete una minoranza. Perfino in Italia, che viene definita il giardino del Papa, i cattolici praticanti sarebbero secondo alcuni sondaggi tra l’8 e il 15 percento. I cattolici che dicono di esserlo ma di fatto lo sono assai poco sono un 20 per cento. Nel mondo esiste un miliardo di cattolici e anche più e con le altre Chiese cristiane superate il miliardo e mezzo, ma il pianeta è popolato da 6-7 miliardi di persone. Siete certamente molti, specie in Africa e nell’America Latina, ma minoranze. «Lo siamo sempre stati ma il tema di oggi non è questo. Personalmente penso che essere una minoranza sia addirittura una forza. Dobbiamo essere un lievito di vita e di amore e il lievito è una quantità infinitamente più piccola della massa di frutti, di fiori e di alberi che da quel lievito nascono. Mi pare d’aver già detto prima che il nostro obiettivo non è il proselitismo ma l’ascolto dei bisogni, dei desideri, delle delusioni, della disperazione, della speranza. Dobbiamo ridare speranza ai giovani, aiutare i vecchi, aprire verso il futuro, diffondere l’amore. Poveri tra i poveri. Dobbiamo includere gli esclusi e predicare la pace. Il Vaticano II, ispirato da Papa Giovanni e da Paolo VI, decise di guardare al futuro con spirito moderno e di aprire alla cultura moderna. I padri conciliari sapevano che aprire alla cultura moderna significava ecumenismo religioso e dialogo con i non credenti. Dopo di allora fu fatto molto poco in quella direzione. Io ho l’umiltà e l’ambizione di volerlo fare». Anche perché – mi permetto di aggiungere – la società moderna in tutto il pianeta attraversa un momento di crisi profonda e non soltanto economica ma sociale e spirituale. Lei all’inizio di questo nostro incontro ha descritto una generazione schiacciata sul presente. Anche noi non credenti sentiamo questa sofferenza quasi antropologica. Per questo noi vogliamo dialogare con i credenti e con chi meglio li rappresenta.
«Io non so se sono il migliore che li rappresenta, ma la Provvidenza mi ha posto alla guida della Chiesa e della Diocesi di Pietro. Farò quanto sta in me per adempiere al mandato che mi è stato affidato». Gesù, come Lei ha ricordato, ha detto: ama il tuo prossimo come te stesso. Le pare che questo sia avvenuto? «Purtroppo no. L’egoismo è aumentato e l’amore verso gli altri diminuito».
Questo è dunque l’obiettivo che ci accomuna: almeno parificare l’intensità di questi due tipi d’amore. La sua Chiesa è pronta e attrezzata a svolgere questo compito? «Lei cosa pensa?».
Penso che l’amore per il potere temporale sia ancora molto forte tra le mura vaticane e nella struttura istituzionale di tutta la Chiesa. Penso che l’Istituzione predomini sulla Chiesa povera e missionaria che lei vorrebbe. «Le cose stanno infatti così e in questa materia non si fanno miracoli. Le ricordo che anche Francesco ai suoi tempi dovette a lungo negoziare con la gerarchia romana e con il Papa per far riconoscere le regole del suo Ordine. Alla fine ottenne l’approvazione ma con profondi cambiamenti e compromessi». Lei dovrà seguire la stessa strada? «Non sono certo Francesco d’Assisi e non ho la sua forza e la sua santità. Ma sono il vescovo di Roma e il Papa della cattolicità. Ho deciso come prima cosa di nominare un gruppo di otto cardinali che siano il mio consiglio. Non cortigiani ma persone sagge e animate dai miei stessi sentimenti. Questo è l’inizio di quella Chiesa con un’organizzazione non soltanto verticistica ma anche orizzontale. Quando il cardinal Martini ne parlava mettendo l’accento sui Concili e sui Sinodi sapeva benissimo come fosse lunga e difficile la strada da percorrere in quella direzione. Con prudenza, ma fermezza e tenacia». E la politica? «Perché me lo chiede? Io ho già detto che la Chiesa non si occuperà di politica». Però proprio qualche giorno fa ha rivolto un appello ai cattolici a impegnarsi civilmente e politicamente. «Non mi sono rivolto soltanto ai cattolici ma a tutti gli uomini di buona volontà. Ho detto che la politica è la prima delle attività civili e ha un proprio campo d’azione che non è quello della religione. Le istituzioni politiche sono laiche per definizione e operano in sfere indipendenti. Questo l’hanno detto tutti i miei predecessori, almeno da molti anni in qua, sia pure con accenti diversi. Io credo che i cattolici impegnati nella politica hanno dentro di loro i valori della religione ma una loro matura coscienza e competenza per attuarli. La Chiesa non andrà mai oltre il compito di esprimere e diffondere i suoi valori, almeno fin quando io sarò qui». Ma non è stata sempre così la Chiesa. «Non è quasi mai stata così. Molto spesso la Chiesa come istituzione è stata dominata dal temporalismo e molti membri e alti esponenti cattolici hanno ancora questo modo di sentire. Ma ora lasci a me di farle una domanda: lei, laico non credente in Dio, in che cosa crede? Lei è uno scrittore e un uomo di pensiero. Crederà dunque a qualcosa, avrà un valore dominante. Non mi risponda con parole come l’onestà, la ricerca, la visione del bene comune; tutti principi e valori importanti, ma non è questo che le chiedo. Le chiedo che cosa pensa dell’essenza del mondo, anzi dell’universo. Si domanderà certo, come tutti, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Se le pone anche un bambino queste domande. E lei?». Le sono grato di questa domanda. La risposta è questa: io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti. «E io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio. E credo in Gesù Cristo, Sua incarnazione. Gesù è il mio maestro e il mio pastore, ma Dio, il Padre, Abbà, è la luce e il Creatore. Questo è il mio Essere. Le sembra che siamo molto distanti?». Siamo distanti nei pensieri, ma simili come persone umane, animate inconsapevolmente dai nostri istinti che si trasformano in pulsioni, sentimenti, volontà, pensiero e ragione. In questo siamo simili. «Ma quello che voi chiamate l’Essere vuole definire come lei lo pensa?». L’Essere è un tessuto di energia. Energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità. Da quell’energia emergono le forme quando l’energia arriva al punto di esplodere. Le forme hanno le loro leggi, i loro campi magnetici, i loro elementi chimici, che si combinano casualmente, evolvono, infine si spengono ma la loro energia non si distrugge. L’uomo è probabilmente il solo animale dotato di pensiero, almeno in questo nostro pianeta e sistema solare. Ho detto è animato da istinti e desideri ma aggiungo che contiene anche dentro di sé una risonanza, un’eco, una vocazione di caos. «Va bene. Non volevo che mi facesse un compendio della sua filosofia e mi ha detto quanto mi basta. Osservo dal canto mio che Dio è luce che illumina le tenebre anche se non le dissolve e una scintilla di quella luce divina è dentro ciascuno di noi. Nella lettera che le scrissi ricordo d’averle detto che anche la nostra specie finirà ma non finirà la luce di Dio che a quel punto invaderà tutte le anime e tutto sarà in tutti».
Sì, lo ricordo bene, disse «tutta la luce sarà in tutte le anime» il che – se posso permettermi – dà più una figura di immanenza che di trascendenza. «La trascendenza resta perché quella luce, tutta in tutti, trascende l’universo e le specie che in quella fase lo popolano. Ma torniamo al presente. Abbiamo fatto un passo avanti nel nostro dialogo. Abbiamo constatato che nella società e nel mondo in cui viviamo l’egoismo è aumentato assai più dell’amore per gli altri e gli uomini di buona volontà debbono operare, ciascuno con la propria forza e competenza, per far sì che l’amore verso gli altri aumenti fino a eguagliare e possibilmente superare l’amore per se stessi». Qui anche la politica è chiamata in causa. «Sicuramente. Personalmente penso che il cosiddetto liberismo selvaggio non faccia che rendere i forti più forti, i deboli più deboli e gli esclusi più esclusi. Ci vuole grande libertà, nessuna discriminazione, non demagogia e molto amore. Ci vogliono regole di comportamento e anche, se fosse necessario, interventi diretti dello Stato per correggere le disuguaglianze più intollerabili». Santità, lei è certamente una persona di grande fede, toccato dalla grazia, animato dalla volontà di rilanciare una Chiesa pastorale, missionaria, rigenerata e non temporalistica. Ma da come parla e da quanto io capisco, Lei è e sarà un Papa rivoluzionario. Per metà gesuita, per metà uomo di Francesco, un connubio che forse non si era mai visto. E poi, le piacciono i Promessi Sposi di Manzoni, Holderlin, Leopardi e soprattutto Dostoevskij, il film La strada e Prova d’orchestra di Fellini, Roma città aperta di Rossellini e anche i film di Aldo Fabrizi.
«Quelli mi piacciono perché li vedevo con i miei genitori quando ero bambino». Ecco. Posso suggerirle di vedere due film usciti da poco? Viva la libertà e il film su Fellini di Ettore Scola. Sono certo che le piaceranno. Sul potere le dico: lo sa che a vent’anni ho fatto un mese e mezzo di esercizi spirituali dai gesuiti? C’erano i nazisti a Roma e io avevo disertato dalla leva militare. Eravamo punibili con la condanna a morte. I gesuiti ci ospitarono a condizione che facessimo gli esercizi spirituali per tutto il tempo in cui eravamo nascosti nella loro casa e così fu. «Ma è impossibile resistere a un mese e mezzo di esercizi spirituali», dice lui stupefatto e divertito. Gli racconterò il seguito la prossima volta. Ci abbracciamo. Saliamo la breve scala che ci divide dal portone. Prego il Papa di non accompagnarmi ma lui esclude con un gesto. «Parleremo anche del ruolo delle donne nella Chiesa. Le ricordo che la Chiesa è femminile». E parleremo se Lei vuole anche di Pascal. Mi piacerebbe sapere come la pensa su quella grande anima. «Porti a tutti i suoi familiari la mia benedizione e chieda che preghino per me. Lei mi pensi, mi pensi spesso».
Ci stringiamo la mano e lui resta fermo con le due dita alzate in segno di benedizione. Io lo saluto dal finestrino”. All’Udienza generale di Mercoledì 2 Ottobre 2013 in Piazza San Pietro, il Papa proseguendo la sua catechesi sugli articoli del “Credo” si sofferma sulla santità della Chiesa. “Nel «Credo», dopo aver professato: «Credo la Chiesa una», aggiungiamo l’aggettivo «santa»; affermiamo cioè la santità della Chiesa, e questa è una caratteristica che è stata presente fin dagli inizi nella coscienza dei primi cristiani, i quali si chiamavano semplicemente “i santi” (cfr At 9,13.32.41; Rm 8,27; 1 Cor 6,1), perché avevano la certezza che è l’azione di Dio, lo Spirito Santo che santifica la Chiesa. Ma in che senso – si domanda il Papa – la Chiesa è santa se vediamo che la Chiesa storica, nel suo cammino lungo i secoli, ha avuto tante difficoltà, problemi, momenti bui? Come può essere santa una Chiesa fatta di esseri umani, di peccatori? Uomini peccatori, donne peccatrici, sacerdoti peccatori, suore peccatrici, Vescovi peccatori, Cardinali peccatori, Papa peccatore? Tutti. Come può essere santa una Chiesa così? Per rispondere alla domanda vorrei farmi guidare da un brano della Lettera di san Paolo ai cristiani di Efeso. L’Apostolo, prendendo come esempio i rapporti familiari, afferma che «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa» (5,25-26). Cristo ha amato la Chiesa, donando tutto se stesso sulla croce. E questo significa che la Chiesa è santa perché procede da Dio che è santo, le è fedele e non l’abbandona in potere della morte e del male (cfr Mt 16,18). È santa perché Gesù Cristo, il Santo di Dio (cfr Mc 1,24) è unito in modo indissolubile ad essa (cfr Mt 28,20); è santa perché è guidata dallo Spirito Santo che purifica, trasforma, rinnova. Non è santa per i nostri meriti, ma perché Dio la rende santa, è frutto dello Spirito Santo e dei suoi doni. Non siamo noi a farla santa. È Dio, lo Spirito Santo, che nel suo amore fa santa la Chiesa. Voi potrete dirmi: ma la Chiesa è formata da peccatori, lo vediamo ogni giorno. E questo è vero: siamo una Chiesa di peccatori; e noi peccatori siamo chiamati a lasciarci trasformare, rinnovare, santificare da Dio. C’è stata nella storia la tentazione di alcuni che affermavano: la Chiesa è solo la Chiesa dei puri, di quelli che sono totalmente coerenti, e gli altri vanno allontanati. Questo non è vero! Questa è un’eresia! La Chiesa, che è santa, non rifiuta i peccatori; non rifiuta tutti noi; non rifiuta perché chiama tutti, li accoglie, è aperta anche ai più lontani, chiama tutti a lasciarsi avvolgere dalla misericordia, dalla tenerezza e dal perdono del Padre, che offre a tutti la possibilità di incontrarlo, di camminare verso la santità. “Mah! Padre, io sono un peccatore, ho grandi peccati, come posso sentirmi parte della Chiesa?”. Caro fratello, cara sorella, è proprio questo che desidera il Signore; che tu gli dica: “Signore sono qui, con i miei peccati”. Qualcuno di voi è qui senza i propri peccati? Qualcuno di voi? Nessuno, nessuno di noi. Tutti portiamo con noi i nostri peccati. Ma il Signore vuole sentire che gli diciamo: “Perdonami, aiutami a camminare, trasforma il mio cuore!”. E il Signore può trasformare il cuore. Nella Chiesa, il Dio che incontriamo non è un giudice spietato, ma è come il Padre della parabola evangelica. Puoi essere come il figlio che ha lasciato la casa, che ha toccato il fondo della lontananza da Dio. Quando hai la forza di dire: voglio tornare in casa, troverai la porta aperta, Dio ti viene incontro perché ti aspetta sempre, Dio ti aspetta sempre, Dio ti abbraccia, ti bacia e fa festa. Così è il Signore, così è la tenerezza del nostro Padre celeste. Il Signore ci vuole parte di una Chiesa che sa aprire le braccia per accogliere tutti, che non è la casa di pochi, ma la casa di tutti, dove tutti possono essere rinnovati, trasformati, santificati dal suo amore, i più forti e i più deboli, i peccatori, gli indifferenti, coloro che si sentono scoraggiati e perduti. La Chiesa a tutti offre la possibilità di percorrere la strada della santità, che è la strada del cristiano: ci fa incontrare Gesù Cristo nei Sacramenti, specialmente nella Confessione e nell’Eucaristia; ci comunica la Parola di Dio, ci fa vivere nella carità, nell’amore di Dio verso tutti. Chiediamoci, allora: ci lasciamo santificare? Siamo una Chiesa che chiama e accoglie a braccia aperte i peccatori, che dona coraggio, speranza, o siamo una Chiesa chiusa in se stessa? Siamo una Chiesa in cui si vive l’amore di Dio, in cui si ha attenzione verso l’altro, in cui si prega gli uni per gli altri? Un’ultima domanda: che cosa posso fare io che mi sento debole, fragile, peccatore? Dio ti dice: non avere paura della santità, non avere paura di puntare in alto, di lasciarti amare e purificare da Dio, non avere paura di lasciarti guidare dallo Spirito Santo. Lasciamoci contagiare dalla santità di Dio. Ogni cristiano è chiamato alla santità (cfr Cost. dogm. Lumen gentium, 39-42); e la santità non consiste anzitutto nel fare cose straordinarie, ma nel lasciare agire Dio. È l’incontro della nostra debolezza con la forza della sua grazia, è avere fiducia nella sua azione che ci permette di vivere nella carità, di fare tutto con gioia e umiltà, per la gloria di Dio e nel servizio al prossimo. C’è una celebre frase dello scrittore francese Léon Bloy; negli ultimi momenti della sua vita diceva: «C’è una sola tristezza nella vita, quella di non essere santi». Non perdiamo la speranza nella santità, percorriamo tutti questa strada. Vogliamo essere santi? Il Signore ci aspetta tutti, con le braccia aperte; ci aspetta per accompagnarci in questa strada della santità. Viviamo con gioia la nostra fede, lasciamoci amare dal Signore. Chiediamo questo dono a Dio nella preghiera, per noi e per gli altri”. Immediatezza, assiduità, determinazione nelle parole. Sono alcune delle caratteristiche che fanno dell’account Twitter di Papa Francesco uno dei più seguiti al mondo e un potente strumento di dialogo ed evangelizzazione. Ormai prossimo ai 10 milioni di “follower”, il Pontefice si è anche aggiudicato di recente l’Oscar del Web, come Personaggio dell’anno al Blogfest 2013, sbaragliando la concorrenza delle star di Internet. Quello che convince dei messaggi di Papa Francesco è proprio l’essenzialità con cui richiama alle cose fondamentali: riesce a esprimere parole essenziali che sono a volte affascinanti altre commoventi. Parole che chiedono di essere “rilanciate” e la cosa impressionante è che i “tweet” del Papa sono continuamente condivisi. È di questo annuncio, di questa testimonianza e di questa verità, c’è urgente bisogno. Papa Francesco offre alla Rete quel volto umano che ogni strumento creato dall’uomo dovrebbe avere, per comunicare. Nell’era digitale i cristiani devono imparare a “mettersi in cammino con tutti, per favorire l’incontro dell’Uomo con Cristo”. Twitter, ma anche Facebook, sono veicoli eccezionali per l’evangelizzazione. Papa Francesco risponde proprio a quel grido che fece a Roma il Beato Giovanni Paolo II (Messaggio per la 36° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, 2002, “Le Parabole Mediatiche”) quando, parlando proprio del mondo di Internet, disse: “Da questa galassia di immagini emergerà il volto di Cristo, perché solo quando si vedrà il Suo volto, e si udirà la Sua voce il mondo conoscerà la buona notizia della nostra redenzione”. E il Santo Pontefice polacco continua dicendo: “Questo è il fine dell’evangelizzazione che farà di Internet uno spazio umano autentico”, totalmente disintossicato dalle violenze e dal vizio. Talmente importante è questa presenza di Papa Francesco su Twitter che alcuni autori hanno deciso di dedicargli un volume raccogliendo alcuni dei suoi “tweet”. Un progetto nato proprio da questo desiderio di rendere accessibile la modalità dell’istantaneità dell’incontro con l’Uomo usata dal Papa: frammenti di verità, di vita e di bellezza che fanno emergere una profondità ed una sorpresa ancora più grande. Il Papa lancia “tweet” quasi ogni giorno: ci sono poi milioni di risposte personali che arrivano al suo account e vengono lette. “Follower”, persone che lo seguono e che gli chiedono preghiere o che rispondono all’appello del Papa lanciato attraverso la Rete. Questo è anche un modo per avvicinare la Chiesa e quindi il Papa al suo popolo. Internet è uno strumento. Non un fine. Non può rimanere soltanto virtuale, deve diventare una Rete reale che dia la possibilità di un incontro personale di fede. Del resto questa sembra che sia una caratteristica di Papa Bergoglio: quella di non lanciare soltanto messaggi ma di incontrare le persone, fissando appuntamenti precisi. Questo si vede nelle visite pastorali. Alla Gmg di Rio de Janeiro. Quando celebra le Udienze. I fedeli pongono continuamente domande o fanno osservazioni insieme ad atti di gratitudine, che certamente sono segno di questo diventare “fratelli” nel Signore. Cioè, Chiesa. Non digitale, quantistica. Ma reale. Immediatezza, assiduità, semplicità ma anche determinazione nelle parole. È un linguaggio assolutamente innovativo quello di Papa Francesco. “Dio non è uno spray. Non siamo cristiani all’acqua di rose”. Papa Francesco ha studiato psicologia e “naviga” benissimo anche in questo mondo virtuale. È impressionante. Ma questa scelta è per certi aspetti la caratteristica di Twitter e Papa Bergoglio sembra aver colto bene l’antifona e la regola: bisogna attenersi ai 140 caratteri disponibili. Non si può dire il banale. Si deve cercare l’essenziale. I “tweet” del Papa sprigionano la forza dell’essenziale. Un cuore che sa pregare e sa perdonare. Da questo si riconosce un cristiano. Lo spiega Papa Francesco all’omelia della Messa presieduta in Casa Santa Marta. E proprio dal Vangelo dedicato alla Santa cui è intitolata la sua residenza, il Papa trae spunto per ricordare che la “preghiera fa miracoli, purché non sia frutto di un atto meccanico”. Marta e il profeta Giona. Queste figure plastiche del Nuovo e dell’Antico Testamento, presentate dalla liturgia, erano accomunate da una identica incapacità: non sapevano pregare. Papa Francesco parla dalla famosa scena del Vangelo in cui Marta chiede quasi in tono di rimprovero a Gesù che la sorella l’aiuti a servire, invece di rimanere ferma ad ascoltarlo, mentre Gesù replica: “Maria ha scelto la parte migliore. E questa parte – osserva il Papa – è quella della preghiera, quella della contemplazione di Gesù. Agli occhi della sorella era perdere tempo, anche sembrava, forse, un po’ fantasiosa: guardare il Signore come se fosse una bambina meravigliata. Ma chi la vuole? Il Signore: ‘Questa è la parte migliore’, perché Maria ascoltava il Signore e pregava col suo cuore. E il Signore un po’ ci dice: ‘Il primo compito nella vita è questo: la preghiera’. Ma non la preghiera di parole, come i pappagalli; ma la preghiera, il cuore: guardare il Signore, ascoltare il Signore, chiedere al Signore. Noi sappiamo che la preghiera fa dei miracoli”. E la preghiera produce un miracolo anche nell’antica città di Ninive, alla quale il profeta Giona annuncia su incarico di Dio l’imminente distruzione e che invece si salva perché gli abitanti, credendo alla profezia, si convertono dal primo all’ultimo invocando il perdono divino con tutte le forze. Tuttavia, anche in questa storia di redenzione, Papa Bergoglio rileva un atteggiamento sbagliato, quello di Giona, più disposto a una giustizia senza misericordia in modo analogo a Marta, incline a un servizio che esclude l’interiorità. “E Marta faceva questo: faceva cosa? Ma non pregava! Ci sono altri come questo testardo Giona, che sono i giustizieri. Lui andava, profetizzava, ma nel suo cuore diceva: ‘Ma se la meritano. Se la meritano. Se la sono cercata!’. Lui profetizzava, ma non pregava! Non chiedeva al Signore perdono per loro. Soltanto li bastonava. Sono i giustizieri, quelli che si credono giusti! E alla fine – continua il Libro di Giona – si vede che era un uomo egoista, perché quando il Signore ha salvato, per la preghiera del popolo, Ninive, lui si è arrabbiato col Signore: ‘Tu sempre sei così. Tu sempre perdoni!’. Dunque – insegna il Papa – la preghiera che è solo formula senza cuore, come pure il pessimismo o la voglia di una giustizia senza perdono, sono le tentazioni dalle quali un cristiano deve sempre guardarsi per arrivare a scegliere ‘la parte migliore’. Anche noi quando non preghiamo, quello che facciamo è chiudere la porta al Signore. E non pregare è questo: chiudere la porta al Signore, perché Lui non possa fare nulla. Invece, la preghiera, davanti a un problema, a una situazione difficile, a una calamità è aprire la porta al Signore perché venga. Perché Lui rifà le cose, Lui sa arrangiare le cose, risistemare le cose. Pregare è questo: aprire la porta al Signore, perché possa fare qualcosa. Ma se noi chiudiamo la porta, il Signore non può far nulla! Pensiamo a questa Maria che ha scelto la parte migliore e ci fa vedere la strada, come si apre la porta al Signore”. Signore, insegnaci a pregare! Ecco il Padre Nostro che recitiamo nel Santo Rosario conm l’Ave Maria e il Gloria. La parola “rosario” significa “corona di rose”. La Madonna ha rivelato a molti che, ogni volta che si dice una Ave Maria, è come se si donasse a Lei una bella rosa e che con ogni Rosario le si dona una corona di rose. La rosa è la regina dei fiori e così il Rosario è la rosa di tutte le devozioni, la preghiera più importante. Con il Rosario meditiamo i misteri della gioia, del dolore, della luce e della gloria di Gesù e di Maria. È una preghiera umile e semplice. Mentre viene recitata ci forma spiritualmente alla piccolezza, alla dolcezza ed alla semplicità di cuore. La tradizione ne attribuisce la nascita ad una apparizione a San Domenico. Certo è che i Domenicani ne sono stati i maggiori promotori. Le sue origini sono quindi tardo-medievali. L’usanza medievale consisteva nel mettere una corona di rose sulle statue della Madonna, come simbolo delle preghiere belle e profumate rivolte a Maria. Così nacque l’idea di utilizzare una collana di grani per guidare la meditazione. “Il Rosario è una preghiera dal cuore cristologico – insegna Papa Giovanni Paolo II nella sua bella lettera apostolica sul Santo Rosario. Osservando il dipinto “La Festa del Rosario” di Durer, artista tedesco del ‘500, si nota come , se al centro del dipinto vi è la Vergine Maria, in realtà nessuno dei presenti le rivolge lo sguardo. Sono tutti assorti, compresi nel mistero che si contempla durante la recita della corona e la maggior parte volge lo sguardo al Cristo. Il Rosario è una preghiera in cui, alla Scuola di Maria, si ricerca e si trova sia Gesù sia Dio Padre sia lo Spirito Santo. “La misericordia è la vera forza che può salvare l’uomo e il mondo dal peccato e dal male”.

© Nicola Facciolini

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