Per i cinesi e i filippini l’accesso al sistema sanitario italiano è un optional

Gli uni sono circondati da un alone di mistero e diffidenza: una comunità impenetrabile agli occhi degli italiani meno attenti. Gli altri, al contrario, sono percepiti come iper inseriti. Eppure sia per i cinesi che per i filippini l’accesso al sistema sanitario italiano è un optional, nonostante siano la quarta e la sesta comunità straniera […]

Gli uni sono circondati da un alone di mistero e diffidenza: una comunità impenetrabile agli occhi degli italiani meno attenti. Gli altri, al contrario, sono percepiti come iper inseriti. Eppure sia per i cinesi che per i filippini l’accesso al sistema sanitario italiano è un optional, nonostante siano la quarta e la sesta comunità straniera in Italia e le prime due per l’Asia. Il 45 per cento dei cinesi di Milano raggiunti dalla ricerca (attraverso 50 questionari e interviste approfondite a sei testimoni, sia per l’una che per l’altra comunità) dichiarano di non essersi mai rivolti a medici italiani tra l’ottobre 2010 e l’ottobre 2011. Uno su dieci dichiara di ricorrere spesso al medico di base. Stessa percentuale (11 per cento) dei filippini soddisfatti dell’accesso alle cure. Il 57,9 per cento dei filippini intercettati dallo studio sostiene di fare ricorso ai servizi di cure primarie solo raramente. Ma di questo gli operatori sanitari non se ne rendono minimamente conto: “ben integrati” e “non danno fastidio” sono le risposte più comuni alle domande sull’utenza filippina.
In Italia non ci sono cure? I cinesi si creano un sistema parallelo, fatto di erboristerie che vendono medicinali allopatici o tradizionali importati illegalmente dalla Cina e che in certi casi si trasformano in vere e proprie “cliniche private”. “Non è un sistema strutturato e regolamentato, ma è conosciuto: ce ne hanno parlato tutti”, commenta Annavittoria Sarli, curatrice della ricerca per conto della Fondazione Ismu. I filippini, invece, se soffrono di patologie complesse preferiscono tornare a Manila: hanno un’ottima reputazione del sistema sanitario locale. In questo caso non c’è nessun sistema di cure parallelo in Italia. A parte per i dentisti, professione diffusa all’interno della comunità. Peccato che sia gli erboristi cinesi che i dentisti filippini non abbiano alcun riconoscimento valido in Italia: “Alcuni di loro sono preparati, anche se sprovvisti di attestati italiani, altri invece no”, puntualizza Sarli. Gli stranieri sono consapevoli dei rischi di rivolgersi al “sommerso”, ma il loro grado di frustrazione verso il sistema di cure italiano e le sue burocrazie e talmente alto che vale la pena rischiare.E così trovano spiegazione i tristemente noti casi di aborti auto indotti, molto frequenti in entrambe le comunità.
Alla luce dei risultati della ricerca, una prima risposta immediata per aumentare gli accessi al sistema sanitario sarebbe l’aumento della presenza di mediatori linguistici e culturali sia negli ospedali che nei medici di base. A questo andrebbero affiancate iniziative di sensibilizzazione, in particolare per la salute riproduttiva. Ma secondo Anna Vittoria Sarli il risultato profondo va molto oltre: “Il modello di integrazione richiede un ragionamento molto più complessivo Finché gli ‘integrati’ sono i migranti che non si vedono, per cui va sempre tutto bene è difficile che si aprirà davvero un canale di comunicazione”, conclude Sarli.
La ricerca condotta da Ismu nasce in un panorama europeo. A promuoverla è stata la Asia-Europe foundation (Asef), ente di cooperazione internazionale che si occupa di vari aspetti, tra cui la salute. Il caso italiano rientra nel più ampio “Asef pulic health network”, una ricerca sull’integrazione regionale e le malattie infettive in Asia e in Europa realizzato dallo Yuchengco center di manila e dalla fondazione Ismu. Lo studi è pubblicato all’interno del volume The health dimension of southest asian migration to Europe, edito dalla De la Salle university. (lb-RS)

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