Papa Francesco, la Shoàh e la Salvezza della Umanità. Impariamo dai Santi

“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”(Mt 28,19-20). Chi prega sempre non si danna. Anzi, evita pure il […]

“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”(Mt 28,19-20). Chi prega sempre non si danna. Anzi, evita pure il Purgatorio, guadagnando il Paradiso pochi istanti dopo la morte terrena. “Non ci rassegniamo di fronte al male – scrive Papa Francesco – Dio è Amore che ha vinto il male nella morte e risurrezione di Cristo”. Chi prega poco o nulla, stacca un biglietto per l’Inferno. C’è lo ricordano la Madonna, i Santi e i Beati che celebreremo tutti insieme nella grande Festa di Ognissanti tra il 31 Ottobre e il 1° Novembre 2013, al posto della pagana sceneggiata di Halloween che “costringerà” i bambini anglosassoni e italiani ad impersonare mostruosi soggetti. Una violenza ai minori intollerabile. Lasciamo ad altri l’omaggio alle forze degli Inferi che occorre contrastare con la preghiera del cuore, come ci ricorda Papa Francesco nell’Angelus di Domenica 20 Ottobre. Rivestiamoci di santità. Oserei dire, indossiamo i vestiti dei veri Superman della fede cristiana che nel mondo, da 1984 anni, donano la vita con amore in silenzio al servizio dei bisognosi e del Vangelo di Cristo. La necessità di pregare continuamente, con insistenza, segna la Giornata Missionaria Mondiale, il ricordo della missionaria laica italiana, Afra Martinelli, uccisa qualche giorno fa in Nigeria (Africa) nel silenzio dei social network e dei tradizionali Tg italiani e la solidarietà alle popolazioni filippine colpite Martedì scorso da un forte terremoto (centinaia di morti e feriti). Sono alcuni dei temi affrontati da Papa Bergoglio. “Dio conosce tutto di noi, ma ci invita comunque a pregare con insistenza – rivela il Santo Padre prendendo spunto dalla parabola del Vangelo in cui Gesù parla della “necessità di pregare sempre, senza stancarsi”, come la vedova che, a forza di supplicare un giudice disonesto, riesce ad ottenere giustizia – nel nostro cammino quotidiano, specialmente nelle difficoltà, nella lotta contro il male fuori e dentro di noi, il Signore non è lontano, è al nostro fianco; noi lottiamo con Lui accanto, e la nostra arma è proprio la preghiera, che ci fa sentire la sua presenza accanto a noi, la sua misericordia, anche il suo aiuto. La lotta contro il male – spiega il Pontefice – è però dura e lunga, richiede pazienza e resistenza. In questa lotta da portare avanti ogni giorno, Dio è il nostro alleato, la fede in Lui è la nostra forza, e la preghiera è l’espressione della fede, perché se si spegne la fede, si spegne la preghiera, e noi camminiamo nel buio, ci smarriamo nel cammino della vita. La preghiera perseverante è l’espressione della fede in un Dio che ci chiama a combattere con Lui, ogni giorno, ogni momento, per vincere il male con il bene”. Papa Francesco ricorda le “tante donne che lottano per la propria famiglia, che pregano, che non si affaticano mai: un ricordo oggi, tutti noi, a queste donne che col loro atteggiamento ci danno una vera testimonianza di fede, di coraggio, un modello di preghiera. Un ricordo a loro!”. Dopo la preghiera mariana, Papa Francesco riflette missione propria della Chiesa: “diffondere nel mondo la fiamma della fede, che Gesù ha acceso nel mondo: la fede in Dio che è Padre, Amore, Misericordia. Il metodo della missione cristiana non è il proselitismo, ma quello della fiamma condivisa che riscalda l’anima”. Il Papa ringrazia tutti coloro che “con la preghiera e l’aiuto concreto sostengono l’opera missionaria, in particolare la sollecitudine del Vescovo di Roma per la diffusione del Vangelo”. Il pensiero del Santo Padre va a chi opera in “prima linea proclamando Cristo fino ai confini della Terra: in questa Giornata siamo vicini a tutti i missionari e le missionarie, che lavorano tanto senza far rumore, e danno la vita. Come l’italiana Afra Martinelli, che ha operato per tanti anni in Nigeria: qualche giorno fa è stata uccisa, per rapina; tutti hanno pianto, cristiani e musulmani. Le volevano bene!”. Papa Bergoglio dal Palazzo Apostolico lancia un applauso in sua memoria e decine di migliaia di persone in Piazza San Pietro rispondono all’invito. “Afra Martinelli – sottolinea il Papa – ha annunciato il Vangelo con la vita, con l’opera che ha realizzato, un centro di istruzione, e così ha diffuso la fiamma della fede, ha combattuto la buona battaglia”. Con una violenza inaudita è stata massacrata a colpi di machete alla testa ed è morta dopo dodici giorni di agonia. Afra Martinelli, 78 anni, missionaria laica, originaria di Ciliverghe, non è sopravvissuta alle gravi ferite riportate due settimane fa nel corso di una rapina nella sua abitazione a Oguashi-Ukwu, a circa 400 Km da Lagos in Nigeria e si è spenta il 10 Ottobre 2013. La donna era stata aggredita la notte del 26 Settembre. “I collaboratori del Centro Regina Mundi, fondato dalla stessa Martinelli – come riferisce il quotidiano BresciaOggi – l’hanno trovata la mattina seguente nella sua abitazione riversa in una pozza di sangue e con una ferita alla nuca. La donna era ancora viva, ma le sue condizioni erano apparse da subito gravissime. I suoi assassini hanno rubato le chiavi dell’aula informatica del Centro per portare via computer e altro materiale di valore. Ora Afra Martinelli resterà per sempre nella sua Africa, la terra in cui ha trascorso gran parte della sua vita. «Avevamo pensato di seppellirla in Italia – racconta il fratello Enrico Martinelli dalla sua casa di Botticino Sera dove giovedì ha ricevuto la terribile notizia – ma in Nigeria lei aveva tante persone che le volevano bene. Eravamo molto legati – continua Enrico con la voce incrinata dalla sofferenza –. Lei aveva deciso sin da giovane che quella sarebbe stata la sua vita e nessuno della nostra famiglia ha mai cercato di intralciare la sua strada. Da piccola, quando si sentiva sola o in difficoltà, ripeteva spesso che avrebbe voluto andare in Africa». Un segno del destino o, più semplicemente, una vocazione. Come spiega ancora Enrico: «In una lettera che ho avuto modo di rileggere anche di recente, lei parlava di una voce che l’aveva spinta ad andare in Africa, in mezzo ai poveri e alla gente sofferente». L’ultimo ritorno in Italia risale al 2005. «In 32 anni è tornata in Italia 4 volte. Nel 1998 era venuta qui a casa per festeggiare i 100 anni di nostro padre, ma nelle altre occasioni andava anche a trovare, nel breve tempo che si concedeva, i numerosi amici conosciuti in Nigeria. O gente con la quale aveva lavorato e collaborato. Mi dà sollievo almeno sapere che ci sono tante persone che vogliono bene a mia sorella e che si sentono molto legate alla sua figura: mi inorgoglisce molto perché è un’ulteriore dimostrazione della bontà d’animo che aveva Afra. Volevano anche attribuirle la cittadinanza onoraria, che lei però aveva rifiutato», ricorda ancora il fratello. Risale a due giorni prima della tragedia, l’ultimo contatto telefonico con Enrico. «L’avevo sentita perché in precedenza mi aveva chiesto di una nostra compaesana, la signora Maria, prossima a festeggiare a sua volta i 100 anni. Afra non si ricordava la data esatta, ma sapeva che l’appuntamento era imminente: il suo desiderio era quello di mandarle gli auguri e un pensierino. Durante il nostro ultimo colloquio le avevo chiesto se non era ancora giunto il momento per tornare a casa. Lei, abbozzando un sorriso, mi rispose che questo era l’ultimo dei suoi pensieri»”. Apostoli santi di Dio come Stefano Sándor, il salesiano laico proclamato Beato a Budapest, in Ungheria, Sabato 19 Ottobre 2013. “Quando il regime comunista chiuse tutte le opere cattoliche – ricorda Papa Francesco – affrontò le persecuzioni con coraggio, e fu ucciso a 39 anni” nel 1953, con l’intensificarsi della persecuzione contro la Chiesa. Alla Messa, in rappresentanza del Santo Padre, c’era il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, cardinale Angelo Amato. Lo descrivevano tutti come un giovane allegro, serio, gentile, leader amato dagli amici e aiuto prezioso per i fratellini, che assisteva nello studio e nella preghiera, e per la chiesa dei Padri Francescani di Szolnok, dove serviva quotidianamente Messa. Fu proprio questa sua inclinazione all’educazione per i giovani che lo fece innamorare di don Bosco e lo spinse ad entrare come postulante nell’Istituto salesiano, dove poi divenne coadiutore laico e ottenne l’incarico di assistenza all’oratorio. “Il nostro Beato – ricorda il cardinale Amato – fu affascinato dalla figura di don Bosco. Ne apprezzava molto il metodo pedagogico e pastorale, mirato alla salvezza integrale dei giovani. I superiori furono bene impressionati dal giovane, serio e allegro, e successivamente lo ammisero al noviziato”. Dovette interrompere il noviziato perché chiamato alle armi, ma anche al fronte si mostrò un educatore modello, animando e rincuorando i suoi commilitoni. L’esperienza della guerra, per cui ricevette anche diverse onorificenze, non scalfì le sue convinzioni e neppure la sua fede. Tornato a casa, dovette scappare e nascondersi dal regime comunista che si era instaurato, lavorando sotto falso nome per una tipografia pubblica. La situazione peggiorò con la salita al potere in Ungheria di Mátyás Rákosi, quando lo Stato iniziò a incamerare i beni della Chiesa ed a perseguitare i fedeli, religiosi e laici. “La sua vita si svolse in anni difficili per il suo Paese, travagliato da guerre e rivolgimenti politici e sociali. Sappiamo che il comunismo stalinista, regime non meno oppressivo del nazismo – rivela il cardinale Amato – si era instaurato nel suo Paese e lo Stato, nel 1949, non solo incamerò i beni della Chiesa, ma iniziò ad accanirsi con forme persecutorie contro i religiosi, costretti a vivere da clandestini e adattandosi a svolgere i più disparati lavori pur di sopravvivere”.
Non aveva più casa, lavoro, né comunità, ma fu comunque raggiunto ed arrestato nel 1952. Della sua morte, resa nota solo dopo il crollo del regime, e del luogo dov’è sepolto si sa poco o nulla, ma è certo che avvenne in odio alla fede. “Il martire Stefano Sàndor lascia a tutti noi e ai confratelli Salesiani un triplice messaggio – spiega il cardinale Amato – anzitutto fedeltà fino alla fine alla vocazione nella quale il Signore ci chiama; in secondo luogo, impegno nella missione educatrice dei giovani, che bisogna formare alla vita buona del Vangelo; infine, essere testimoni credibili di Gesù e della sua parola di speranza e di carità”. Nell’imminenza della sua Beatificazione, i confratelli salesiani ne hanno ricordato la figura di laico che fu esempio a molti preti, mettendone in luce in particolare la santificazione del lavoro cristiano, l’amore per la casa di Dio e naturalmente l’educazione della gioventù, che oltre a essere ancora missione fondamentale della Congregazione salesiana, lo è anche della Chiesa universale. “Il Beato martire Stefano Sàndor ci consegna la profezia dell’importanza dell’educazione dei giovani, per contrastare una cultura che spesso combatte i valori della vita, della carità, della laboriosità, del perdono, della fraternità”. Il sacrificio di Stefano Sàndor e di Afra Martinelli, è l’atto d’amore più grande di cui parla Gesù nel Vangelo. Il “biglietto” per il Paradiso. Il pensiero del Papa corre poi al sisma di Martedì scorso nelle Filippine. “Desidero esprimere la mia vicinanza alle popolazioni delle Filippine colpite da un forte terremoto, e vi invito a pregare per quella cara Nazione, che di recente ha subito diverse calamità”. Tra i pellegrini presenti in Piazza San Pietro, Papa Bergoglio saluta i ragazzi che hanno dato vita alla manifestazione “100 metri di corsa e di fede”, promossa dal Pontificio Consiglio della Cultura. “Ci ricordate – afferma il Papa – che il credente è un atleta dello spirito”. Poi un pensiero speciale: “Oggi in Argentina si celebra la ‘Festa della mamma’: rivolgo un affettuoso saluto alle mamme della mia terra”. Sabato 12 Ottobre 2013 il Santo Padre in Piazza San Pietro, in occasione dell’Incontro dell’Anno della fede “dedicato a Maria, Madre di Cristo e della Chiesa, Madre nostra”, ricorda che la missionarietà apostolica evangelica è dono esclusivo e personale di Dio alla creatura che Egli ama. Papa Francesco svolge una catechesi dedicata alla Vergine, dopo aver reso omaggio all’icona della Madonna giunta eccezionalmente dal Santuario di Fatima, in coincidenza con l’ultima “apparizione” riconosciuta dalla Chiesa (ma non è un dogma di fede “credere nell’apparizione”!) del 13 Ottobre del 1917. Le parole del Papa danno voce al sentimento di tutti i fedeli uniti in preghiera davanti alla delicata e bellissima icona della Signora di Fatima che “apparve” a Francisco, Giacinta e Lucia: cantando e pregando l’hanno attesa e uno sventolio di bandierine bianche ne ha accompagnato la lunga processione in piazza; poi la sosta là dove il proiettile che custodisce nella corona, trafisse il corpo di Papa Woytjla il 13 Maggio 1981, quindi l’arrivo al sagrato innanzi a Papa Francesco per l’intronizzazione. Maria Santissima fu la prima Santa missionaria del Vangelo, Colei che accolse il Figlio dell’Altissimo nel suo grembo verginale. “La sua statua, venuta da Fatima – dichiara Papa Bergoglio – ci aiuta a sentire la sua presenza in mezzo a noi. C’è una realtà: Maria sempre ci porta a Gesù. È una donna di fede, una vera credente. Possiamo domandarci: come è stata la fede di Maria? Il primo elemento della sua fede è questo: la fede di Maria scioglie il nodo del peccato (cfr Con Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 56). Che cosa significa? I Padri conciliari hanno ripreso un’espressione di sant’Ireneo che dice:«Il nodo della disobbedienza di Eva ha avuto la sua soluzione con l’obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva aveva legato con la sua incredulità, la vergine Maria l’ha sciolto con la sua fede» (Adversus Haereses III, 22, 4). Ecco, il “nodo” della disobbedienza, il “nodo” dell’incredulità. Quando un bambino disobbedisce alla mamma o al papà, potremmo dire che si forma un piccolo “nodo”. Questo succede se il bambino agisce rendendosi conto di ciò che fa, specialmente se c’è di mezzo una bugia; in quel momento non si fida della mamma e del papà. Voi sapete quante volte succede questo! Allora la relazione con i genitori ha bisogno di essere pulita da questa mancanza e, infatti, si chiede scusa, perché ci sia di nuovo armonia e fiducia. Qualcosa di simile avviene nel nostro rapporto con Dio. Quando noi non lo ascoltiamo, non seguiamo la sua volontà, compiamo delle azioni concrete in cui mostriamo mancanza di fiducia in Lui – e questo è il peccato -, si forma come un nodo nella nostra interiorità. E questi nodi ci tolgono la pace e la serenità. Sono pericolosi, perché da più nodi può venire un groviglio, che è sempre più doloroso e sempre più difficile da sciogliere. Ma alla misericordia di Dio – lo sappiamo – nulla è impossibile! Anche i nodi più intricate – ricorda il Santo Padre – si sciolgono con la sua grazia. E Maria, che con il suo “sì” ha aperto la porta a Dio per sciogliere il nodo dell’antica disobbedienza, è la madre che con pazienza e tenerezza ci porta a Dio perché Egli sciolga i nodi della nostra anima con la sua misericordia di Padre. Ognuno di noi ne ha alcuni, e possiamo chiederci dentro al nostro cuore: quali nodi ci sono nella mia vita? “Padre, i miei non si possono sciogliere!”. Ma, questo è uno sbaglio! Tutti i nodi del cuore, tutti i nodi della coscienza possono essere sciolti. Chiedo a Maria che mi aiuti ad avere fiducia nella misericordia di Dio, per scioglierli, per cambiare? Lei, donna di fede, di sicuro ci dirà: “Vai avanti, vai dal Signore: Lui ti capisce”. E lei ci porta per mano, Madre, Madre, all’abbraccio del Padre, del Padre della misericordia”. Il secondo elemento. “La fede di Maria – spiega Papa Bergoglio – dà carne umana a Gesù. Dice il Concilio: «Per la sua fede e la sua obbedienza Ella generò sulla terra lo stesso Figlio del Padre, senza conoscere uomo, ma sotto l’ombra dello Spirito Santo» (Cost. dog. Lumen gentium, 63). Questo è un punto su cui i Padri della Chiesa hanno molto insistito: Maria ha concepito Gesù nella fede e poi nella carne, quando ha detto “sì” all’annuncio che Dio le ha rivolto mediante l’Angelo. Che cosa vuol dire questo? Che Dio non ha voluto farsi uomo ignorando la nostra libertà, ha voluto passare attraverso il libero assenso di Maria, attraverso il suo “sì”. Le ha chiesto: “Sei disposta a questo?”. E lei ha detto: “Sì”. Ma quello che è avvenuto nella Vergine Madre in modo unico, accade a livello spirituale anche in noi quando accogliamo la Parola di Dio con cuore buono e sincero e la mettiamo in pratica. Succede come se Dio prendesse carne in noi, Egli viene ad abitare in noi, perché prende dimora in coloro che lo amano e osservano la sua Parola. Non è facile capire questo, ma, sì, è facile sentirlo nel cuore. Pensiamo che l’incarnazione di Gesù sia un fatto solo del passato, che non ci coinvolge personalmente? Credere in Gesù significa offrirgli la nostra carne, con l’umiltà e il coraggio di Maria, perché Lui possa continuare ad abitare in mezzo agli uomini; significa offrirgli le nostre mani per accarezzare i piccoli e i poveri; i nostri piedi per camminare incontro ai fratelli; le nostre braccia per sostenere chi è debole e lavorare nella vigna del Signore; la nostra mente per pensare e fare progetti alla luce del Vangelo; e, soprattutto, offrire il nostro cuore per amare e prendere decisioni secondo la volontà di Dio. Tutto questo avviene grazie all’azione dello Spirito Santo. E così, siamo gli strumenti di Dio perché Gesù agisca nel mondo attraverso di noi. E l’ultimo elemento è la fede di Maria come cammino: il Concilio afferma che Maria «ha camminato nel pellegrinaggio della fede» (ibid., 58). Per questo lei ci precede in questo pellegrinaggio, ci accompagna, ci sostiene. In che senso la fede di Maria è stata un cammino? Nel senso che tutta la sua vita è stata seguire il suo Figlio: Lui – Lui, Gesù – è la via, Lui è il cammino! Progredire nella fede, avanzare in questo pellegrinaggio spirituale che è la fede, non è altro che seguire Gesù; ascoltarlo, lasciarsi guidare dalle sue parole; vedere come Lui si comporta e mettere i nostri piedi nelle sue orme, avere i suoi stessi sentimenti e atteggiamenti. E quali sono, i sentimenti e gli atteggiamenti di Gesù? Umiltà, misericordia, vicinanza, ma anche fermo rifiuto dell’ipocrisia, della doppiezza, dell’idolatria. La via di Gesù è quella dell’amore fedele fino alla fine, fino al sacrificio della vita, è la via della croce. Per questo il cammino della fede passa attraverso la croce e Maria l’ha capito fin dall’inizio, quando Erode voleva uccidere Gesù appena nato. Ma poi questa croce è diventata più profonda, quando Gesù è stato rifiutato: Maria sempre era con Gesù, seguiva Gesù in mezzo al popolo, e sentiva le chiacchiere, le odiosità di quelli che non volevano bene al Signore. E questa croce, Lei l’ha portata! Allora la fede di Maria ha affrontato l’incomprensione e il disprezzo. Quando è arrivata l’”ora” di Gesù, cioè l’ora della passione: allora la fede di Maria è stata la fiammella nella notte, quella fiammella in piena notte. Nella notte del sabato santo Maria ha vegliato. La sua fiammella, piccola ma chiara, è stata accesa fino all’alba della Risurrezione; e quando le è giunta la voce che il sepolcro era vuoto, nel suo cuore è dilagata la gioia della fede, la fede cristiana nella morte e risurrezione di Gesù Cristo. Perché sempre la fede ci porta alla gioia, e Lei è la Madre della gioia: che ci insegni ad andare per questa strada della gioia e vivere questa gioia! Questo è il punto culminante – questa gioia, questo incontro di Gesù e Maria, ma immaginiamo come è stato. Questo incontro è il punto culminante del cammino della fede di Maria e di tutta la Chiesa. Com’è la nostra fede? La teniamo accesa, come Maria, anche nei momenti difficili, i momenti di buio? Ho sentito la gioia della fede? Questa sera, Madre, ti ringraziamo per la tua fede, di donna forte e umile; rinnoviamo il nostro affidamento a te, Madre della nostra fede. Amen”. La catechesi del Pontefice giunge al termine della meditazione della piazza sulla Via Matris, le sette tappe dolorose della vita di Maria, dalla profezia di Simeone alla deposizione del corpo di Gesù nel sepolcro il sabato santo. Un pellegrinaggio singolare è quello indicato da Papa Francesco, Venerdì 18 Ottobre, a Santa Marta. È la visita alle case di riposo dove sono ospitati preti e suore anziani. Si tratta di veri e propri “santuari di apostolicità e di santità – rivela il Vescovo di Roma – che abbiamo nella Chiesa dove vale la pena andare come in pellegrinaggio”. È il punto di arrivo di una riflessione che prende spunto dal confronto tra le letture della liturgia del giorno: il brano del Vangelo di Luca (10, 1-9) nel quale si racconta “l’inizio della vita apostolica”, quando i discepoli sono stati chiamati ed erano “giovani, forti e gioiosi” e il passo della seconda lettera di san Paolo a Timoteo (4, 10-17) nel quale l’Apostolo, ormai vicino al “tramonto della sua esistenza”, si sofferma sulla “fine della vita apostolica. Da questo confronto si capisce che ogni apostolo ha un inizio gioioso, entusiasta, con Dio dentro; ma non gli è risparmiato il tramonto. A me fa bene pensare al tramonto dell’apostolo”. Il pensiero del Santo Padre va quindi a “tre icone: Mosè, Giovanni il Battista e Paolo. Mosè è quel capo del popolo di Dio, coraggioso, che lottava contro i nemici e lottava anche con Dio per salvare il popolo. È forte, ma alla fine si ritrova solo sul monte Nebo a guardare la terra promessa, nella quale però non può entrare. Quanto a Giovanni Battista, anche a lui negli ultimi tempi non vengono risparmiate le angosce. Si domanda se ha  sbagliato, se ha preso la vera strada, e ai suoi amici chiede di andare a domandare a Gesù: sei tu o dobbiamo aspettare ancora? È tormentato dall’angoscia; al punto che ‘l’uomo più grande nato da donna’, come lo ha definito Cristo stesso, finisce sotto il potere di un governante debole, ubriaco e corrotto, sottoposto al potere dell’invidia di un’adultera e del capriccio di una ballerina. Infine c’è Paolo, il quale confida a Timoteo tutta la sua amarezza”. Per descriverne la sofferenza, il Papa usa l’espressione “non è nel settimo cielo”, riproponendo le parole dell’Apostolo: “Figlio mio, Dema mi ha abbandonato, avendo preferito le cose di questo mondo; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con me. Prendi con te Marco e portalo, mi sarà utile; portami il mantello che ho lasciato, i libri e le pergamene”. Ed ancora: “Alessandro, il fabbro, mi ha procurato molti danni. Anche tu guardati da lui, perché si è accanito contro la nostra predicazione”. Papa Francesco ricorda il racconto che Paolo fa del processo: “nella prima difesa nessuno mi ha assistito, tutti mi hanno abbandonato, però il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annunzio del Vangelo”. Un’immagine “che racchiude in sé il tramonto di ogni apostolo: solo, abbandonato, tradito; assistito soltanto dal Signore che non abbandona, non tradisce, perché Lui è fedele, che non può rinnegare se stesso – spiega il Santo Padre – la grandezza dell’apostolo sta dunque nel fare con la vita quello che Giovanni il Battista diceva: ‘è necessario che lui cresca e io diminuisca’; infatti l’apostolo è colui ‘che dà la vita perché il Signore cresca. E alla fine c’è il tramonto’. È stato così anche per Pietro – fa notare Papa Francesco – al quale Gesù ha predetto: ‘Quando tu sarai vecchio ti porteranno dove tu non vorrai andare’”. La meditazione sulle fasi finali delle vita di questi personaggi suggerisce al Santo Padre “il ricordo di quei santuari di apostolicità e di santità che sono le case di riposo dei preti e delle suore. Strutture che ospitano bravi preti e brave suore, invecchiati, con il peso della solitudine, che aspettano che venga il Signore a bussare alla porta dei loro cuori. Purtroppo, noi tendiamo a dimenticare questi santuari: non sono posti belli, perché uno vede cosa ci aspetta. Di contro però se guardiamo più nel profondo, sono bellissimi, per la ricchezza di umanità che vi è dentro. Visitarli dunque significa fare veri pellegrinaggi, verso questi santuari di santità e di apostolicità, alla stessa stregua dei pellegrinaggi che si fanno nei santuari mariani o in quelli dedicati ai santi. Ma mi chiedo: noi cristiani abbiamo la voglia di fare una visita – che sarà un vero pellegrinaggio! – a questi santuari di santità e di apostolicità che sono le case di riposo dei preti e delle suore? Uno di voi mi diceva, giorni fa, che quando andava in un Paese di missione, andava al cimitero e vedeva tutte le tombe dei vecchi missionari, preti e suore, lì da 50, 100, 200 anni, sconosciuti. E mi diceva: ‘Ma, tutti questi possono essere canonizzati, perché alla fine conta soltanto questa santità quotidiana, questa sanità di tutti i giorni’. Nelle case di riposo queste suore e questi preti – rivela Papa Bergoglio – aspettano il Signore un po’ come Paolo: un po’ tristi, davvero, ma anche con una certa pace, col volto allegro. Proprio per questo fa bene a tutti pensare a questa tappa della vita che è il tramonto dell’apostolo”. Il Papa chiede di pregare il Signore di custodire i sacerdoti e le religiose che si trovano nella fase finale della loro esistenza, affinché possano ripetere almeno un’altra volta: “sì, Signore, voglio seguirti”. Le opere dei Musei Vaticani danno testimonianza delle “aspirazioni spirituali dell’umanità”. È quanto afferma Papa Francesco nell’udienza ai “Patrons of Arts”, una comunità internazionale di benefattori che da 30 anni sostengono economicamente progetti di conservazione e restauro di capolavori custoditi nei Musei Vaticani. “La Chiesa – afferma il Papa – ha sempre fatto appello alle arti per esprimere la bellezza della fede”. Trent’anni di impegno per custodire e restaurare i capolavori dei Musei Vaticani, è il traguardo raggiunto dai “Patrons of Arts”. Il Santo Padre ringrazia questa importante comunità di moderni mecenati. “La nascita del sodalizio – osserva il Vescovo di Roma – fu ispirata non solo da un lodevole senso di corresponsabilità per l’eredità di arte sacra che la Chiesa possiede, ma anche dal desiderio di dare continuità agli ideali spirituali e religiosi che portarono alla creazione delle collezioni pontificie. In ogni epoca la Chiesa ha fatto appello alle arti per dare espressione alla bellezza della propria fede e per proclamare il messaggio evangelico della magnificenza della creazione di Dio, della dignità dell’uomo creato a sua immagine e somiglianza, e del potere della morte e risurrezione di Cristo di portare redenzione e rinascita ad un mondo segnato dalla tragedia del peccato e della morte. I Musei Vaticani, con la loro unica e ricca storia, offrono ad innumerevoli pellegrini e visitatori che giungono a Roma la possibilità di incontrare questo messaggio mediante opere d’arte che danno testimonianza delle aspirazioni spirituali dell’umanità, dei sublimi misteri della fede cristiana e della ricerca di quella bellezza suprema che trova la sua origine e il suo compimento in Dio. Il vostro sostegno alle opere d’arte dei Musei Vaticani – è l’esortazione del Papa – possa sempre essere un segno della vostra partecipazione interiore alla vita e alla missione della Chiesa. Possa anche essere espressione della nostra speranza nella venuta di quel Regno la cui bellezza, armonia e pace sono l’attesa di ogni cuore umano e l’ispirazione delle più alte aspirazioni artistiche del genere umano”. Portare la giustizia e la pace nelle Filippine e in Asia. Con queste parole Papa Francesco si rivolge in un videomessaggio ai partecipanti alla Conferenza sulla Nuova evangelizzazione che si è chiusa a Manila dopo due giorni di lavori. I circa cinquemila delegati provenienti anche da Taiwan, Vietnam, Brunei, Malaysia, Thailandia e Myanmar, hanno aderito all’invito della Chiesa Cattolica locale per un confronto sulle sfide dell’evangelizzazione nell’Anno della fede. Dagli angoli dove annida la miseria ai banchi del parlamento, dai letti degli ospedali alle cattedre universitarie. Lo spazio di annuncio del Vangelo è immenso come immensa è l’Asia, dove la Chiesa vive nuove primavere e persecuzioni. Papa Francesco spinge i partecipanti alla Conferenza di Manila sulla Nuova evangelizzazione a “non lasciare vuoto nessuno di questi spazi: Do not get tired of bringing the mercy of the Father. Non stancatevi di portare la misericordia del Padre ai poveri, ai malati, agli abbandonati, ai giovani e alle famiglie. Fate conoscere Gesù al mondo della politica, dell’impresa, della cultura, della scienza, della tecnologia e dei media sociali. Permettete allo Spirito Santo di rinnovare il Creato e portare la giustizia e la pace nelle Filippine e nel grande continente asiatico che è vicino al mio cuore”. Papa Francesco abbraccia con calore i rappresentanti della Chiesa asiatica presenti al grande raduno di Manila, che si sono posti un triplice obiettivo: creare una “esperienza di Dio” nel contesto delle sfide del nuovo millennio, rafforzare i legami e la comunione dei cattolici e fornire spunti di ispirazione e di direzione imbevuti dello spirito della Nuova evangelizzazione. Auspici sui quali piove la benedizione del Papa: Through this conference, I hope you would experience again. Spero che con questo congresso possiate conoscere ancora una volta la presenza amorevole di Gesù nelle vostre vite, amare di più la Chiesa e comunicare il Vangelo a tutte le persone con umiltà e gioia. Lo Spirito Santo opera attivamente in voi – assicura Papa Bergoglio –la Chiesa di Cristo è viva!”. Col proprio lavoro, ha reso possibile che fedeli di tutto il mondo possano pregare con un linguaggio comune. È l’International Commission on English in the Liturgy nelle parole di Papa Francesco che, nel 50.mo anniversario della creazione dell’organismo, ne ha ricevuto i membri e gli officiali, accompagnati dall’arcivescovo Arthur Roche, segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e già presidente dell’Icel. La Commissione riunisce i rappresentanti delle Conferenze episcopali dei Paesi in cui l’Inglese è usato come lingua di riferimento nella celebrazione della Liturgia. Un immenso lavoro “per predisporre le traduzioni in lingua inglese dei testi della liturgia” e un contributo “nel progredire nello studio, nella comprensione e nell’appropriazione della ricca tradizione eucologica e sacramentale della Chiesa”. È l’impegno lungo cinquant’anni della Commissione internazionale per le traduzioni del Messale in lingua inglese, ricordato da Papa Bergoglio. Il Pontefice osserva che l’organismo “ha contribuito anche in modo significativo a una consapevole, attiva e devota partecipazione alla liturgia richiesta dal Concilio Vaticano II e giustamente richiamata da Benedetto XVI per arrivare ad una più grande consapevolezza del mistero che viene celebrato e del suo rapporto con l’esistenza quotidiana:
i frutti del vostro lavoro sono serviti a dare forma alla preghiera di innumerevoli cattolici e hanno anche contribuito alla comprensione della fede, all’esercizio del sacerdozio comune dei fedeli e al rinnovamento del dinamismo evangelizzatore della Chiesa, tutti temi centrali nell’insegnamento conciliare. Come sottolineato dal Beato Giovanni Paolo II – ricorda Papa Francesco – per molti il messaggio del Vaticano II è stato percepito innanzitutto mediante la riforma liturgica”. La Commissione, segno dello spirito di collegialità episcopale, ha contribuito proprio alla messa in opera del grande rinnovamento liturgico invocato dai padri conciliari. “Nel rendere possibile ad un vasto numero di fedeli sparsi nel mondo il pregare con un linguaggio comune, la vostra Commissione ha dato il suo aiuto per il rafforzamento dell’unità della Chiesa nella fede e nella comunione sacramentale. Questa unità e comunione, che trova la propria origine nella Santissima Trinità, costantemente riconcilia ed accresce la ricchezza della diversità”. Il Santo Padre ricorda la speranza espressa da Paolo VI nel promulgare il Messale Romano: “nella grande diversità delle lingue, un’unica preghiera si elevi come offerta bene accetta al Padre nostro dei cieli, mediante il nostro Sommo Sacerdote Gesù Cristo, nello Spirito Santo”. Un invito a uscire dalle comodità degli ambienti più familiari per avvicinare gli uomini del nostro tempo è stato rivolto da Papa Francesco alla comunità tedesca di Xanten, in occasione della commemorazione, svoltasi Domenica 13 Ottobre 2013, per i 750 anni della posa della prima pietra del duomo. In un messaggio trasmesso attraverso il cardinale Joachim Meisner, arcivescovo di Köln, suo inviato speciale alle celebrazioni, il Pontefice esorta a “non ritirarsi in spazi elevati, perché siamo una Chiesa che si mette in cammino con le persone, che non ha paura a camminare nella notte buia che avvolge gli uomini. Una Chiesa che sa inserirsi nel dialogo delle persone, che vuole ascoltare e capire ciò che affligge i fratelli e le sorelle, ciò che li preoccupa e ciò che è il loro anelito profondo. La Chiesa vuole incontrare tutte le persone indistintamente, soprattutto, quelle che vagano sole e senza meta, e che talvolta sono disilluse e deluse da un cristianesimo spesso concepito come un terreno sterile, arido, che appare incapace di generare un significato”. Se un cristiano “diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede”. Papa Francesco mette in guardia i cristiani da un atteggiamento da “chiave in tasca e porta chiusa” e ribadisce che quando non si prega si abbandona la fede e si cade nell’ideologia e nel moralismo. “Guai a voi, dottori della legge, che avete portato via la chiave della conoscenza!”. Papa Francesco muove dall’avvertimento di Gesù, di cui parla il Vangelo. Il Papa attualizza questo monito. “Quando andiamo per strada e ci troviamo davanti una chiesa chiusa, sentiamo qualcosa di strano, perché una chiesa chiusa non si capisce. A volte ci dicono spiegazioni che non sono tali: sono pretesti, sono giustificazioni, ma la realtà è che la chiesa è chiusa e la gente che passa davanti non può entrare. E, ancora peggio, il Signore che è dentro non può uscire. Oggi Gesù ci parla di questa immagine della chiusura, è l’immagine di quei cristiani che hanno in mano la chiave, ma la portano via, non aprono la porta. Anzi peggio, si fermano sulla porta e non lasciano entrare, e così facendo neppure loro entrano. La mancanza di testimonianza cristiana – osserva il Santo Padre – fa questo e quando quel cristiano è un prete, un vescovo o un Papa è peggio. Ma come succede che un cristiano cade in questo atteggiamento di chiave in tasca e porta chiusa? La fede passa, per così dire, per un alambicco e diventa ideologia. E l’ideologia non convoca. Nelle ideologie non c’è Gesù: la sua tenerezza, amore, mitezza. E le ideologie sono rigide, sempre. Di ogni segno: rigide. E quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede: non è più discepolo di Gesù, è discepolo di questo atteggiamento di pensiero, di questo. E per questo Gesù dice loro: ‘Voi avete portato via la chiave della conoscenza’. La conoscenza di Gesù è trasformata in una conoscenza ideologica e anche moralistica, perché questi chiudevano la porta con tante prescrizioni. Gesù – rivela Papa Bergoglio – ce l’ha detto: ‘Voi caricate sulle spalle della gente tante cose; solo una è necessaria’. Questo è, dunque, il processo spirituale, mentale di chi vuole la chiave in tasca e la porta chiusa: la fede diventa ideologia e l’ideologia spaventa, l’ideologia caccia via la gente, allontana, allontana la gente e allontana la Chiesa dalla gente. Ma è una malattia grave, questa dei cristiani ideologici. È una malattia, ma non è nuova, eh? Già l’Apostolo Giovanni, nella sua prima Lettera, parlava di questo. I cristiani che perdono la fede e preferiscono le ideologie. Il suo atteggiamento è: diventare rigidi, moralisti, eticisti, ma senza bontà. La domanda può essere questa, no? Ma perché un cristiano può diventare così? Cosa succede nel cuore di quel cristiano, di quel prete, di quel vescovo, di quel Papa, che diventa così? Semplicemente una cosa: quel cristiano non prega. E se non c’è la preghiera, tu sempre chiudi la porta. La chiave che apre la porta alla fede – spiega il Papa – è la preghiera. Quando un cristiano non prega, succede questo. E la sua testimonianza è una testimonianza superba. Chi non prega è un superbo, è un orgoglioso, è un sicuro di se stesso. Non è umile. Cerca la propria promozione. Invece, quando un cristiano prega, non si allontana dalla fede, parla con Gesù, e – precisa il Santo Padre – dico pregare, non dico dire preghiere, perché questi dottori della legge dicevano tante preghiere per farsi vedere. Gesù, invece, dice: ‘Quando tu preghi, va nella tua stanza e prega il Padre di nascosto, da cuore a cuore’. Una cosa è pregare e un’altra cosa è dire preghiere. Questi non pregano, abbandonano la fede e la trasformano in ideologia moralistica, casuistica, senza Gesù. E quando un profeta o un buon cristiano li rimprovera, fanno lo stesso che hanno fatto con Gesù: ‘Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile – questi ideologici sono ostili – e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie – sono insidiosi – per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca’. Non sono trasparenti. Eh, poverini, sono gente sporcata dalla superbia. Chiediamo al Signore la grazia, primo: non smettere di pregare, per non perdere la fede, rimanere umili. E così non diventeremo chiusi, che chiudono la strada al Signore”. Impariamo dai nostri “fratelli maggiori” nella fede. Il Comitato internazionale misto ebraico-cattolico (ILC), forum ufficiale del dialogo permanente della Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo e il Comitato Ebraico Internazionale per le consultazioni interreligiose (IJCIC) hanno tenuto a Madrid (Spagna), dal 13 al 16 Ottobre 2013, la loro XXII riunione. Presieduta dalla Signora Betty Ehrenberg, Presidente dell’IJCIC e dal Cardinale Kurt Koch, Presidente della Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, la riunione ha avuto per tema: “Sfide per la Religione nella società contemporanea”. Al termine è stata pubblicata una dichiarazione congiunta che tocca diversi punti. “L’eredità condivisa. Ebrei e cristiani condividono l’eredità della testimonianza biblica del rapporto di Dio con la famiglia umana nella storia. Le Scritture testimoniano che i singoli e i popoli sono chiamati, istruiti, guidati e protetti dalla Divina Provvidenza. Alla luce della storia sacra, i cattolici ed ebrei partecipanti alla riunione hanno inteso rispondere alle nuove opportunità e difficoltà che il credo e la pratica religiosa devono affrontare nel mondo odierno. La libertà religiosa. Incoraggiati nel nostro lavoro dalla sollecitudine di Papa Francesco per il benessere universale, particolarmente dei poveri e degli oppressi, condividiamo il principio che la dignità di ogni individuo è data da Dio. Ciò esige che ogni persona goda di piena libertà di coscienza e libertà di espressione religiosa, individualmente ed istituzionalmente, in privato e in pubblico. Deploriamo l’abuso della religione e l’uso della religione a fini politici. Ebrei e cattolici condannano la persecuzione su base religiosa. La persecuzione dei cristiani. L’ILC raccomanda alla Commissione Vaticana per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo e l’IJCIC di impegnarsi a contrastare le persecuzioni di minoranze cristiane nel mondo; di richiamare l’attenzione su questi problemi ed adoperarsi per garantire la piena cittadinanza a tutti i cittadini a prescindere dall’identità religiosa ed etnica in Medio Oriente e nel mondo. Inoltre incoraggiamo gli sforzi per promuovere il benessere delle minoranze cristiane ed ebraiche in tutto il Medio Oriente. L’insorgere dell’antisemitismo. Papa Francesco ha ripetuto più volte: “un cristiano non può essere antisemita”. Incoraggiamo tutti i responsabili religiosi a continuare a denunciare questo peccato. La celebrazione del 50° anniversario della Nostra Aetate nel 2015 sarà occasione privilegiata per riaffermare la condanna dell’antisemitismo. Chiediamo con forza che gli insegnamenti antisemiti siano eliminati dalla predicazione e dai libri di testo ovunque nel mondo. Similmente, ogni espressione di sentimento anticristiano è ugualmente inaccettabile. L’educazione. Raccomandiamo che tutti i seminari ebraici e cattolici includano insegnamenti sulla Nostra Aetate e sui documenti successivi della Santa Sede includendo la Dichiarazione del Concilio nei loro piani di studio. Desideriamo che le nuove generazioni di leader ebrei e cattolici sappiano quanto profondamente la Nostra Aetate ha cambiato i rapporti fra ebrei e cattolici. Di fronte a queste sfide cattolici ed ebrei rinnoviamo il nostro impegno ad educare le rispettive comunità nella conoscenza e nel rispetto reciproco”. In memoria di Irena Sendler, proclamata Giusta tra le Nazioni dallo Yad Yashem di Gerusalemme il 19 Ottobre 1965. Dov’era Dio durante la Shoàh? “La Sua era una presenza nascosta, come quella della brezza leggera di cui parla la Bibbia raccontando l’incontro con il profeta Elia sul monte Oreb” – scrive Papa Francesco in un messaggio personale inviato al figlio di due sopravvissuti allo sterminio nazista. A darne notizia è La Stampa di Torino e il Washington Post nel suo blog “On Faith”, dedicato alle tematiche religiose. Secondo quanto riferito da queste fonti, Papa Francesco ha risposto per email a uno scritto che gli era stato inviato da Menachem Rosensaft, un giurista americano che è anche il fondatore di un’Associazione che riunisce i figli di genitori scampati alla Shoàh. Nel testo, un discorso pronunciato nella sinagoga di Park Avenue a New York il 7 Settembre 2013, Rosensaft pone il tema dell’atteggiamento di Dio nei confronti della grande tragedia vissuta dal Popolo ebraico nel Novecento, e risponde dicendo di averlo trovato nei gesti di umanità rimasti vivi anche nei campi di sterminio: citando in particolare l’esempio di sua madre, che aveva perso un primo marito e un figlio di cinque anni ad Auschwitz-Birkenau, ma aveva poi trovato comunque la forza, una volta trasferita a Bergen-Belsen, di prendersi cura insieme ad altre donne di un gruppo di orfani, accudendoli tra mille difficoltà nelle loro baracche avevano così permesso a 149 bambini Ebrei di salvarsi. Una risposta che, stando a quanto riferito dal Washington Post, il Papa nel messaggio afferma di condividere, richiamando una specifica pagina biblica. “Quando lei, con umiltà, ci spiega dov’era Dio in quel determinato momento – si legge nel testo della mail diffuso dal quotidiano statunitense – sento in me che lei è andato oltre tutte le possibili spiegazioni e che, dopo un lungo pellegrinaggio, talvolta triste, pesante o tenebroso, è giunto a scoprire una certa logica a partire dalla quale ora ci parla; la logica del Primo Libro dei Re, capitolo 19 versetto 12, la logica di quella “brezza leggera” (so bene che questa è una traduzione molto povera dell’espressione ebraica, molto più ricca) che costituisce la sola possibile interpretazione ermeneutica. Grazie dal profondo del mio cuore – scrive Papa Francesco – e la prego di non dimenticarsi di me nella preghiera. Il Signore la benedica”. Da parte sua Rosensaft ha dichiarato al Washington Post che questo messaggio del Papa è “un grandissimo dono spirituale” per chiunque è sopravvissuto a un atto di violenza. E ha espresso l’auspicio di una più profonda “integrazione della memoria dell’Olocausto non solo nel pensiero teologico ebraico ma anche nell’insegnamento cattolico”. Bisogna combattere la “sindrome di Giona che ci porta all’ipocrisia di pensare che per salvarci bastino le nostre opere” – osserva Papa Francesco, mettendo in guardia da “un atteggiamento di religiosità perfetta che guarda alla dottrina ma non si cura della salvezza della povera gente”. È la “sindrome di Giona” e il “segno di Giona”. Papa Francesco insiste su questo binomio. “Gesù parla nel Vangelo odierno di ‘generazione malvagia’. È molto forte la sua parola. Ma – avverte il Santo Padre – non si riferisce alla gente che lo seguiva con tanto amore, bensì ai dottori della legge che cercavano di metterlo alla prova e farlo cadere in trappola. Questa gente, infatti, gli chiedeva segni e Gesù risponde che solo gli verrà dato ‘il segno di Giona’. C’è però – ammonisce Papa Francesco – anche la ‘sindrome di Giona’. Il Signore gli chiede di andare a Ninive e lui fugge in Spagna. Giona, ha detto, ‘aveva le cose chiare: la dottrina è questa, si deve fare questo e i peccatori si arrangino, io me ne vado’. Quelli che vivono secondo questa sindrome di Giona, Gesù li chiama ipocriti, perché non vogliono la salvezza della povera gente, degli ignoranti e peccatori. La sindrome di Giona non ha lo zelo per la conversione della gente, cerca una santità – mi permetto la parola – una santità di ‘tintoria’, tutta bella, tutta benfatta, ma senza quello zelo di andare a predicare il Signore. Ma il Signore di fronte a questa generazione ammalata dalla sindrome di Giona promette il segno di Giona. L’altra versione, quella di Matteo, dice: Giona è stato dentro la balena tre notti e tre giorni, riferimento a Gesù nel sepolcro – alla sua morte e alla sua Risurrezione – e quello è il segno che Gesù promette, contro l’ipocrisia, contro questo atteggiamento di religiosità perfetta, contro questo atteggiamento di un gruppo di farisei. C’è una parabola nel Vangelo che dipinge benissimo questo aspetto: quella del fariseo e del pubblicano che pregano nel tempio. Il fariseo, tanto sicuro di se stesso, davanti all’altare ringrazia Dio per non essere come il pubblicano che invece solo chiede la pietà del Signore, riconoscendosi peccatore. Ecco allora che il segno che Gesù promette per il suo perdono, tramite la sua morte e la sua Risurrezione, è la sua misericordia” Il Papa insiste anche su questo tema. “Misericordia voglio e non sacrifici: il segno di Giona, il vero, è quello che ci dà la fiducia di essere salvati per il sangue di Cristo. Quanti cristiani, quanti ce ne sono, pensano che saranno salvati soltanto per quello che loro fanno, per le loro opere. Le opere sono necessarie, ma sono una conseguenza, una risposta a quell’amore misericordioso che ci salva. Ma le opere sole, senza questo amore misericordioso non servono. Invece, la sindrome di Giona ha fiducia soltanto nella sua giustizia personale, nelle sue opere. Gesù parla dunque di ‘generazione malvagia’ ed alla pagana, alla regina di Saba, quasi la nomina giudice: ‘si alzerà contro gli uomini di questa generazione’. E questo – evidenzia il Santo Padre – perché era una donna inquieta, una donna che cercava la saggezza di Dio: ecco, la ‘sindrome di Giona’ ci porta alla ipocrisia, a quella sufficienza, ad essere cristiani puliti, perfetti, ‘perché noi facciamo queste opere: compiamo i comandamenti, tutto’. È una grossa malattia. E il segno di Giona, che la misericordia di Dio in Gesù Cristo, morto e risorto per noi, per la nostra salvezza. Sono due parole nella prima lettura che si collegano con questo. Paolo dice di se stesso che è apostolo non perché ha studiato questo, no: apostolo per chiamata. E ai cristiani dice: ‘Siete voi chiamati da Gesù Cristo’. Il segno di Giona ci chiama: seguire il Signore, peccatori, siamo tutti, con umiltà, con mitezza. C’è una chiamata, anche una scelta. Approfittiamo oggi di questa liturgia per domandarci e fare una scelta: cosa preferisco io? La sindrome di Giona o il segno di Giona?”. L’idolatria e l’ipocrisia non risparmiano neanche la vita cristiana. Papa Francesco mette in guardia da entrambi i “vizi”. Perché i peccati hanno un nome e un cognome. “Per non cedere all’insidia di questi peccati – afferma il Santo Padre – è necessario mettere in pratica i Comandamenti dell’amore a Dio e dell’amore al prossimo”. Diventare un apostolo delle proprie idee o un devoto del proprio benessere, piuttosto che di Dio? Sparlare di qualcuno perché non si adegua a certi formalismi, dimenticando che il comandamento nuovo del cristianesimo è l’amore al prossimo senza se e ma? Ancora una volta, la liturgia della Messa a Santa Marta sollecita Papa Francesco a una riflessione sulle trappole che costellano la vita di fede. Dalle parole di San Paolo, il Papa trae spunto per stigmatizzare il peccato dell’idolatria, “quello di persone che, per dirla come l’Apostolo, ‘pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio’, preferendo adorare delle ‘creature anziché il Creatore’. È un’idolatria – afferma il Papa – che arriva a soffocare le verità della fede, nella quale si rivela la giustizia di Dio. Ma come tutti noi abbiamo bisogno di adorare – perché abbiamo l’impronta di Dio dentro di noi – quando non adoriamo Dio, adoriamo le creature. E questo è il passaggio dalla fede all’idolatria. Essi, gli idolatri, non hanno alcun motivo di scusa: pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio. E qual è la strada dell’idolatra? La dice chiarissima: ‘Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata’. L’egoismo del proprio pensiero, il pensiero onnipotente, quello che io penso è vero: io penso la verità, io faccio la verità col mio pensiero”. Le critiche di San Paolo andavano, duemila anni fa, agli idolatri che si prostravano davanti a rettili, uccelli, quadrupedi. Papa Francesco para subito l’obiezione secondo cui oggi il problema non si pone, perché nessuno va in giro ad adorare statue! “Non è così – obietta il Papa – l’idolatria ha trovato altre forme e modi: anche oggi, ci sono tanti idoli ed anche oggi ci sono tanti idolatri, tanti che si credono sapienti. Ma anche fra noi, fra i cristiani, eh! Io non parlo di loro, io rispetto loro, quelli che non sono cristiani. Ma fra noi – parliamo in famiglia – si credono sapienti, che sappiano tutto. E sono diventati stolti e cambiano la gloria di Dio incorruttibile con una immagine: il proprio io, le mie idee, la mia comodità. Oggi, tutti noi – vado avanti, eh! Non è una cosa solamente storica – anche oggi per la strada ci sono idoli, anche un passo avanti. Tutti noi abbiamo dentro qualche idolo nascosto. Possiamo domandarci davanti a Dio: qual è il mio idolo nascosto? Quello che occupa il posto del Signore!”. Se San Paolo definisce stolti gli idolatri, nel Vangelo “Gesù fa lo stesso con gli ipocriti, impersonati dal fariseo che si scandalizza perché il Maestro non si è lavato come di norma prima di sedersi a tavola. ‘Voi farisei – replica Gesù – pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria. Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro’. Gesù consiglia: non guardare le apparenze, andare proprio alla verità. Il piatto è piatto, ma quello che è più importante è quello che è dentro il piatto: il pasto. Ma se tu sei vanitoso, se tu sei un carrierista, se tu sei un ambizioso, se tu sei una persona che sempre si vanta di se stesso o cui piace vantarsi, perché ti credi perfetto, fa’ un po’ di elemosina e quello guarirà la tua ipocrisia. Ecco la strada del Signore: è adorare Dio, amare Dio, sopra di tutto e amare il prossimo. È tanto semplice, ma tanto difficile! Soltanto questo si può fare con la grazia. Chiediamo la grazia”. Dobbiamo “sempre vigilare contro l’inganno del demonio” – afferma da Papa Francesco nella Messa a Casa Santa Marta. Il Pontefice sottolinea che “non si può seguire la vittoria di Gesù sul male a metà” e ribadisce che “non dobbiamo confondere, relativizzare la verità nella lotta contro il demonio. Gesù scaccia i demoni e qualcuno comincia a dare spiegazioni per diminuire la forza del Signore. Sempre c’è la tentazione di voler sminuire la figura di Gesù come fosse al massimo un guaritore, da non prendere tanto sul serio. Un atteggiamento – osserva il Papa – che è arrivato ai nostri giorni: ci sono alcuni preti che quando leggono questo brano del Vangelo, questo e altri, dicono: ‘Ma, Gesù ha guarito una persona da una malattia psichica’. Non leggono questo qui, no? È vero che in quel tempo si poteva confondere un’epilessia con la possessione del demonio; ma è anche vero che c’era il demonio! E noi non abbiamo il diritto di fare tanto semplice la cosa, come per dire: ‘Tutti questi non erano indemoniati; erano malati psichici’. No! La presenza del demonio è nella prima pagina della Bibbia e la Bibbia finisce anche con la presenza del demonio, con la vittoria di Dio sul demonio. Per questo – avverte Papa Bergoglio – non dobbiamo essere ingenui. Il Signore ci dà alcuni criteri per discernere la presenza del male e per andare sulla strada cristiana quando ci sono le tentazioni. Uno dei criteri è di non seguire la vittoria di Gesù sul male solo a metà. ‘O sei con me – dice il Signore – o sei contro di me’. Gesù è venuto a distruggere il demonio, a darci la liberazione dalla schiavitù del diavolo su di noi. Non si può dire che così esageriamo. In questo punto non ci sono sfumature. C’è una lotta e una lotta dove si gioca la salute, la salute eterna, la salvezza eterna di tutti noi”. C’è poi il criterio della vigilanza. “Dobbiamo sempre vigilare – esorta Papa Francesco – vigilare contro l’inganno, contro la seduzione del maligno. E noi possiamo farci la domanda: ‘Io vigilo su di me, sul mio cuore, sui miei sentimenti, sui miei pensieri? Custodisco il tesoro della grazia? Custodisco la presenza dello Spirito Santo in me? O lascio così, sicuro, credo che vada bene?’. Ma se tu non custodisci, viene quello che è più forte di te. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino. La vigilanza! Ma, tre criteri, eh! Non confondere la verità. Gesù lotta contro il diavolo: primo criterio. Secondo criterio: chi non è con Gesù, è contro Gesù. Non ci sono atteggiamenti a metà. Terzo criterio: la vigilanza sul nostro cuore, perché il demonio è astuto. Mai è scacciato via per sempre! Soltanto l’ultimo giorno lo sarà. Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi deserti, cercando sollievo e non trovandone dice:‘Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito’. E quando la trova ‘spazzata e adorna’. Allora va, ‘prende altri sette spiriti peggiori di lui, vengono e prendono dimora’. E, così, l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima: la vigilanza, perché la strategia di lui è quella: ‘Tu ti sei fatto cristiano, vai avanti nella tua fede, io ti lascio, ti lascio tranquillo. Ma poi quando ti sei abituato e non fai tanta vigilanza e ti senti sicuro, io torno’. Il Vangelo di oggi incomincia con il demonio scacciato e finisce con il demonio che torna! San Pietro lo diceva: ‘E’ come un leone feroce, che gira intorno a noi’. È così. ‘Ma, Padre, lei è un po’ antico! Ci fa spaventare con queste cose’. No, io no! È il Vangelo! E queste non sono bugie: è la Parola del Signore! Chiediamo al Signore la grazia di prendere sul serio queste cose. Lui è venuto a lottare per la nostra salvezza. Lui ha vinto il demonio! Per favore, non facciamo affari con il demonio! Lui cerca di tornare a casa, di prendere possesso di noi. Non relativizzare, vigilare! E sempre con Gesù!”. Papa Francesco ha mostrato in molte occasioni le sua profonda devozione a Maria. Papa Bergoglio è un Papa mariano. In pochi mesi è andato almeno quattro volte a Santa Maria Maggiore. Papa mariano anche in piccoli gesti. Dove c’è un’immagine o un’icona della Madonna, il Pontefice vi si ferma davanti e la tocca, segno della grande sensibilità verso la Madre di Dio. San Francesco d’Assisi è profondamente mariano e non a caso ha voluto che la Porziuncola fosse la culla dell’Ordine: lì è nato l’Ordine dei Frati minori. Francesco è mariano e il Papa Francesco è mariano. Segno che per tutti la strada più corta per arrivare a Gesù è sempre Maria. La devozione mariana non si chiude in Maria, ma ci porta a Gesù. “Beata perché hai creduto”, queste parole di Elisabetta suonano come un invito ai cristiani a fare altrettanto, a credere al Figlio imitando la Madre. Dalla Sacra Scrittura, sappiamo che Maria era con la Chiesa nascente, nell’attesa dello Spirito Santo. Maria era ed è con la Chiesa. È importante questo “era”, perché indica che Maria è stata con la Chiesa, è con la Chiesa e sarà con la Chiesa. Il cammino della Chiesa non si può fare senza Maria. In un Anno della Fede come questo, in cui la Chiesa ha voluto celebrare, confessare, testimoniare la fede, non può essere assente la figura della Madre. D’altra parte, Maria si presenta a noi prima di tutto come la donna credente, come una donna di fede, una donna in missione che si fida totalmente di Colui per il quale nulla è impossibile. Ed è da questa prospettiva che si capisce quel: “Eccomi, avvenga in me secondo la tua Parola”. Il suo insegnamento di conversione e preghiera è sempre di grande attualità. L’invito alla conversione ed alla preghiera sono inviti, non imposizioni. Inviti che vengono dallo stesso Gesù. Nel Vangelo di Marco, vediamo come il ministero pubblico di Gesù inizi proprio con questo invito: “Convertitevi e credete al Vangelo”, che sarebbe meglio tradurre in “Convertitevi, cioè credete al Vangelo”. Ecco perché l’invito alla preghiera ed alla conversione che ha fatto la Madre di Dio, Maria Santissima, sulla Terra è un invito profondamente attuale ed evangelico. Abbiamo bisogno della conversione del cuore, come ci ricorda tante volte Papa Francesco, e abbiamo bisogno della preghiera, per non cadere in tentazione. Il nostro cuore è fatto per Dio e non troverà pace se non in Lui. Nel mondo dell’informazione pubblica gridata e di quella privata guidata dal conflitto di interesse e dall’impunità di politicanti senza scrupoli che, facendosi beffe del popolo sovrano, delle istituzioni democratiche e del libero pensiero, fanno “rumore” sui media tradizionali e sui social network, è importante sottolineare l’aspetto del silenzio che è tipicamente mariano. In un momento di crisi senza soluzioni facili, in cui troppe parole inutili allontano la ripresa economica, il silenzio è più attuale che mai. Basta! Troppe parole che non dicono niente, che non comunicano niente. Abbiamo bisogno di parole autentiche e queste nascono soltanto da un silenzio “abitato” da Gesù, dalla Parola di Dio. Allora, le nostre parole saranno parole di Speranza, saranno parole costruttive in grado di edificare la Civiltà del XXI Secolo. Da Maria Santissima possiamo anche imparare questa lezione: Maria del silenzio. Dovremmo invocarla molto in questi tempi, dove ci sono tante chiacchiere che, come dice anche il Santo Padre Francesco, dividono e non creano comunione, non creano nè Chiesa né Economia né Diritti. Quando Gesù ha costituito il gruppo degli Apostoli ha formato una comunità essenzialmente missionaria, con due compiti principali: Pregare Dio, cioè lodarLo, ed Annunciare il Vangelo, la Verità di Cristo. San Domenico, 800 anni fa, aggiunge la Benedizione. Su questa bimillenaria tradizione si fonda la Chiesa. Papa Francesco lo ribadisce con forza all’Udienza generale in Piazza San Pietro, Mercoledì 16 Ottobre 2013, davanti a 80 mila persone. Il Papa esorta i cristiani ad essere gli apostoli di oggi, senza chiudersi in sagrestia, “perché una Chiesa chiusa tradisce la sua identità”, proseguendo l’insegnamento del Catechismo. “Quando recitiamo il Credo – ricorda Papa Francesco – diciamo «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Non so se avete mai riflettuto sul significato che ha l’espressione «la Chiesa è apostolica». Forse qualche volta, venendo a Roma, avete pensato all’importanza degli Apostoli Pietro e Paolo che qui hanno donato la loro vita per portare e testimoniare il Vangelo. Ma è di più. Professare che la Chiesa è apostolica significa sottolineare il legame costitutivo che essa ha con gli Apostoli, con quel piccolo gruppo di dodici uomini che Gesù un giorno chiamò a sé, li chiamò per nome, perché rimanessero con Lui e per mandarli a predicare (cfr Mc 3,13-19). “Apostolo”, infatti, è una parola greca che vuol dire “mandato”, “inviato”. Un apostolo è una persona che è mandata, è inviata a fare qualcosa e gli Apostoli sono stati scelti, chiamati e inviati da Gesù, per continuare la sua opera, cioè pregare – è il primo lavoro di un apostolo – e, secondo, annunciare il Vangelo. Questo è importante, perché quando pensiamo agli Apostoli potremmo pensare che sono andati soltanto ad annunciare il Vangelo, a fare tante opere. Ma nei primi tempi della Chiesa c’è stato un problema perché gli Apostoli dovevano fare tante cose e allora hanno costituito i diaconi, perché vi fosse per gli Apostoli più tempo per pregare e annunciare la Parola di Dio. Quando pensiamo ai successori degli Apostoli, i Vescovi, compreso il Papa poiché anch’egli è Vescovo, dobbiamo chiederci se questo successore degli Apostoli per prima cosa prega e poi se annuncia il Vangelo: questo è essere Apostolo e per questo la Chiesa è apostolica. Tutti noi, se vogliamo essere apostoli come spiegherò adesso, dobbiamo chiederci: io prego per la salvezza del mondo? Annuncio il Vangelo? Questa è la Chiesa apostolica! È un legame costitutivo che abbiamo con gli Apostoli. Partendo proprio da questo vorrei sottolineare brevemente tre significati dell’aggettivo “apostolica” applicato alla Chiesa. La Chiesa – rivela il Santo Padre – è apostolica perché è fondata sulla predicazione e la preghiera degli Apostoli, sull’autorità che è stata data loro da Cristo stesso. San Paolo scrive ai cristiani di Efeso: «Voi siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù» (2, 19-20); paragona, cioè, i cristiani a pietre vive che formano un edificio che è la Chiesa, e questo edificio è fondato sugli Apostoli, come colonne, e la pietra che sorregge tutto è Gesù stesso. Senza Gesù non può esistere la Chiesa! Gesù è proprio la base della Chiesa, il fondamento! Gli Apostoli hanno vissuto con Gesù, hanno ascoltato le sue parole, hanno condiviso la sua vita, soprattutto sono stati testimoni della sua Morte e Risurrezione. La nostra fede, la Chiesa che Cristo ha voluto – osserva Papa Bergoglio – non si fonda su un’idea, non si fonda su una filosofia, si fonda su Cristo stesso. E la Chiesa è come una pianta che lungo i secoli è cresciuta, si è sviluppata, ha portato frutti, ma le sue radici sono ben piantate in Lui e l’esperienza fondamentale di Cristo che hanno avuto gli Apostoli, scelti e inviati da Gesù, giunge fino a noi. Da quella pianta piccolina ai nostri giorni: così la Chiesa è in tutto il mondo. Ma chiediamoci: come è possibile per noi collegarci con quella testimonianza, come può giungere fino a noi quello che hanno vissuto gli Apostoli con Gesù, quello che hanno ascoltato da Lui? Ecco il secondo significato del termine “apostolicità”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che la Chiesa è apostolica perché «custodisce e trasmette, con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in essa, l’insegnamento, il buon deposito, le sane parole udite dagli Apostoli» (n. 857). La Chiesa conserva lungo i secoli questo prezioso tesoro, che è la Sacra Scrittura, la dottrina, i Sacramenti, il ministero dei Pastori, così che possiamo essere fedeli a Cristo e partecipare alla sua stessa vita. È come un fiume che scorre nella storia, si sviluppa, irriga, ma l’acqua che scorre è sempre quella che parte dalla sorgente, e la sorgente è Cristo stesso: Lui è il Risorto, Lui è il Vivente, e le Sue parole non passano, perché Lui non passa, Lui è vivo, Lui oggi è fra noi qui, Lui ci sente e noi parliamo con Lui ed Egli ci ascolta, è nel nostro cuore. Gesù è con noi, oggi! Questa è la bellezza della Chiesa: la presenza di Gesù Cristo fra noi. Pensiamo mai a quanto è importante questo dono che Cristo ci ha fatto, il dono della Chiesa, dove lo possiamo incontrare? Pensiamo mai a come è proprio la Chiesa nel suo cammino lungo questi secoli – nonostante le difficoltà, i problemi, le debolezze, i nostri peccati – che ci trasmette l’autentico messaggio di Cristo? Ci dona la sicurezza che ciò in cui crediamo è realmente ciò che Cristo ci ha comunicato?”. Le conseguenze per il cristiano sono evidenti. “La Chiesa è apostolica perché è inviata a portare il Vangelo a tutto il mondo. Continua nel cammino della storia la missione stessa che Gesù ha affidato agli Apostoli: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20). Questo è ciò che Gesù ci ha detto di fare! Insisto su questo aspetto della missionarietà, perché Cristo invita tutti ad “andare” incontro agli altri, ci invia, ci chiede di muoverci per portare la gioia del Vangelo! Ancora una volta chiediamoci: siamo missionari con la nostra parola, ma soprattutto con la nostra vita cristiana, con la nostra testimonianza? O siamo cristiani chiusi nel nostro cuore e nelle nostre chiese, cristiani di sacrestia? Cristiani solo a parole, ma che vivono come pagani? Dobbiamo farci queste domande, che non sono un rimprovero. Anch’io lo dico a me stesso:

come sono cristiano, con la testimonianza davvero? La Chiesa – osserva Papa Bergoglio – ha le sue radici nell’insegnamento degli Apostoli, testimoni autentici di Cristo, ma guarda al futuro, ha la ferma coscienza di essere inviata, inviata da Gesù, di essere missionaria, portando il nome di Gesù con la preghiera, l’annuncio e la testimonianza. Una Chiesa che si chiude in se stessa e nel passato, una Chiesa che guarda soltanto le piccole regole di abitudini, di atteggiamenti, è una Chiesa che tradisce la propria identità; una Chiesa chiusa tradisce la propria identità! Allora, riscopriamo oggi tutta la bellezza e la responsabilità di essere Chiesa apostolica! E ricordatevi: Chiesa apostolica perché preghiamo, primo compito, e perché annunciamo il Vangelo con la nostra vita e con le nostre parole”. L’annuncio del Vangelo passa oggi per “la testimonianza di vita, prima che di parole, portata nel mondo da persone credibili, in grado di parlare come Gesù il linguaggio della misericordia”. Contano più i gesti autenticamente evangelici apostolici che le parole. Papa Francesco insiste su questo tema. L’immagine simbolo il Santo Padre se la riserva alla fine: oggi ci sono bambini che neanche sanno farsi il segno della Croce. È un segno dell’analfabetismo religioso attuale che non ha bisogno di commenti. Senza contare i giovani che abbandonano la Chiesa subito dopo la Cresima (12- 13 anni) e che non sanno cosa sia il Santo Rosario. Che cosa trasmetteranno ai loro figli? È con questa coscienza che Papa Francesco parla della “nuova evangelizzazione”, un servizio inteso in tre punti: primato della testimonianza, urgenza dell’andare incontro, progetto pastorale centrato sull’essenziale. La testimonianza “specialmente di questi tempi ha bisogno – afferma il Santo Padre – di testimoni credibili che con la vita rendano visibile il Vangelo e risveglino l’attrazione per Gesù Cristo, per la bellezza di Dio: tante persone si sono allontanate dalla Chiesa. È sbagliato scaricare le colpe da una parte o dall’altra, anzi, non è il caso di parlare di colpe. Ci sono responsabilità nella storia della Chiesa e dei suoi uomini – ricorda il Papa – ce ne sono in certe ideologie e anche nelle singole persone. Come figli della Chiesa dobbiamo continuare il cammino del Concilio Vaticano II, spogliarci di cose inutili e dannose, di false sicurezze mondane che appesantiscono la Chiesa e danneggiano il suo volto”. Papa Francesco spiega lo stile con cui annunciare il Vangelo, che è quello richiesto ai suoi frati da Francesco di Assisi che imitò Cristo: parlare al mondo che non conosce Gesù o che gli è indifferente, con “il linguaggio della misericordia, fatto di gesti e di atteggiamenti prima ancora che di parole. Ogni battezzato è ‘cristoforo’, cioè portatore di Cristo, come dicevano gli antichi Padri. Chi ha incontrato Cristo, come la Samaritana al pozzo, non può tenere per sé questa esperienza, ma sente il desiderio di condividerla, per portare altri a Gesù. C’è da chiedersi tutti se chi ci incontra percepisce nella nostra vita il calore della fede, vede nel nostro volto la gioia di avere incontrato Cristo!”. Il secondo punto riguarda “l’andare incontro agli altri”. Papa Bergoglio rilancia uno dei verbi chiave del suo magistero: uscire. È la vocazione del cristiano. Uscire verso gli altri, dialogare con tutti, che abbiano o meno fede, “senza paura e senza rinunciare – insegna il Papa – alla nostra appartenenza: la Chiesa è inviata a risvegliare dappertutto questa speranza, specialmente dove è soffocata da condizioni esistenziali difficili, a volte disumane, dove la speranza non respira, soffoca. C’è bisogno dell’ossigeno del Vangelo, del soffio dello Spirito di Cristo Risorto, che la riaccenda nei cuori. La Chiesa è la casa in cui le porte sono sempre aperte non solo perché ognuno possa trovarvi accoglienza e respirare amore e speranza, ma anche perché noi possiamo uscire a portare questo amore e questa speranza. Lo Spirito Santo ci spinge ad uscire dal nostro recinto e ci guida fino alle periferie dell’umanità”. Naturalmente imboccare la strada delle periferie non vuol dire una pastorale fatta alla cieca. “La Chiesa non lascia un progetto pastorale al caso, all’improvvisazione” quantistica. Soprattutto, non lo formula in alcun modo che non “richiami l’essenziale” e non sia “ben centrato sull’essenziale, cioè – rivela Papa Francesco – su Gesù Cristo: non serve disperdersi in tante cose secondarie o superflue, ma concentrarsi sulla realtà fondamentale, che è l’incontro con Cristo, con la sua misericordia, col suo amore e l’amare i fratelli come Lui ci ha amato. Un incontro con Cristo che anche è adorazione, parola poco usata. Adorare Cristo! Un progetto animato dalla creatività e dalla fantasia dello Spirito Santo, che ci spinge anche a percorrere vie nuove, con coraggio, senza fossilizzarci!”. Il pensiero è rivolto ai catechisti che il Papa ringrazia. “Il loro – osserva il Santo Padre – è un servizio prezioso per la nuova evangelizzazione ed è importante che i genitori siano i primi catechisti, i primi educatori della fede nella propria famiglia con la testimonianza e con la parola”. Tema ripreso nell’Udienza generale di Mercoledì 9 Ottobre 2013 in Piazza San Pietro. “Cari fratelli e sorelle, buon giorno! «Credo la Chiesa una, santa, cattolica…». Oggi ci fermiamo a riflettere su questa Nota della Chiesa: diciamo cattolica è l’Anno della cattolicità. Anzitutto: che cosa significa cattolico? Deriva dal greco “kath’olòn” che vuol dire “secondo il tutto”, la totalità. In che senso questa totalità si applica alla Chiesa? In che senso noi diciamo che la Chiesa è cattolica? Direi in tre significati fondamentali. Il primo. La Chiesa è cattolica – spiega Papa Francesco – perché è lo spazio, la casa in cui ci viene annunciata tutta intera la fede, in cui la salvezza che ci ha portato Cristo viene offerta a tutti. La Chiesa ci fa incontrare la misericordia di Dio che ci trasforma perché in essa è presente Gesù Cristo, che le dona la vera confessione di fede, la pienezza della vita sacramentale, l’autenticità del ministero ordinato. Nella Chiesa ognuno di noi trova quanto è necessario per credere, per vivere da cristiani, per diventare santi, per camminare in ogni luogo e in ogni epoca. Per portare un esempio, possiamo dire che è come nella vita di famiglia; in famiglia a ciascuno di noi è donato tutto ciò che ci permette di crescere, di maturare, di vivere. Non si può crescere da soli, non si può camminare da soli, isolandosi, ma si cammina e si cresce in una comunità, in una famiglia. E così è nella Chiesa! Nella Chiesa – osserva Papa Bergoglio – noi possiamo ascoltare la Parola di Dio, sicuri che è il messaggio che il Signore ci ha donato; nella Chiesa possiamo incontrare il Signore nei Sacramenti che sono le finestre aperte attraverso le quali ci viene data la luce di Dio, dei ruscelli ai quali attingiamo la vita stessa di Dio; nella Chiesa impariamo a vivere la comunione, l’amore che viene da Dio. Ciascuno di noi può chiedersi oggi: come vivo io nella Chiesa? Quando io vado in chiesa, è come se fossi allo stadio, a una partita di calcio? È come se fossi al cinema? No, è un’altra cosa. Come vado io in chiesa? Come accolgo i doni che la Chiesa mi offre, per crescere, per maturare come cristiano? Partecipo alla vita di comunità o vado in chiesa e mi chiudo nei miei problemi isolandomi dall’altro? In questo primo senso la Chiesa è cattolica, perché è la casa di tutti. Tutti sono figli della Chiesa e tutti sono in quella casa. Un secondo significato: la Chiesa è cattolica perché è universale, è sparsa in ogni parte del mondo e annuncia il Vangelo ad ogni uomo e ad ogni donna. La Chiesa – rivela il Santo Padre – non è un gruppo di élite, non riguarda solo alcuni. La Chiesa non ha chiusure, è inviata alla totalità delle persone, alla totalità del genere umano. E l’unica Chiesa è presente anche nelle più piccole parti di essa. Ognuno può dire: nella mia parrocchia è presente la Chiesa cattolica, perché anch’essa è parte della Chiesa universale, anch’essa ha la pienezza dei doni di Cristo, la fede, i Sacramenti, il ministero; è in comunione con il Vescovo, con il Papa ed è aperta a tutti, senza distinzioni. La Chiesa non è solo all’ombra del nostro campanile, ma abbraccia una vastità di genti, di popoli che professano la stessa fede, si nutrono della stessa Eucaristia, sono serviti dagli stessi Pastori. Sentirci in comunione con tutte le Chiese, con tutte le comunità cattoliche piccole o grandi del mondo! È bello questo! E poi sentire che tutti siamo in missione, piccole o grandi comunità, tutti dobbiamo aprire le nostre porte ed uscire per il Vangelo. Chiediamoci allora: che cosa faccio io per comunicare agli altri la gioia di incontrare il Signore, la gioia di appartenere alla Chiesa? Annunciare e testimoniare la fede non è un affare di pochi, riguarda anche me, te, ciascuno di noi! Un terzo e ultimo pensiero: la Chiesa è cattolica, perché – ricorda Papa Francesco – è la “Casa dell’armonia” dove unità e diversità sanno coniugarsi insieme per essere ricchezza. Pensiamo all’immagine della sinfonia, che vuol dire accordo, armonia, diversi strumenti suonano insieme; ognuno mantiene il suo timbro inconfondibile e le sue caratteristiche di suono si accordano su qualcosa di comune. Poi c’è chi guida, il direttore, e nella sinfonia che viene eseguita tutti suonano insieme in “armonia”, ma non viene cancellato il timbro di ogni strumento; la peculiarità di ciascuno, anzi, è valorizzata al massimo! È una bella immagine che ci dice che la Chiesa è come una grande orchestra in cui c’è varietà. Non siamo tutti uguali – sottolinea Papa Bergoglio – e non dobbiamo essere tutti uguali. Tutti siamo diversi, differenti, ognuno con le proprie qualità. E questo è il bello della Chiesa: ognuno porta il suo, quello che Dio gli ha dato, per arricchire gli altri. E tra i componenti c’è questa diversità, ma è una diversità che non entra in conflitto, non si contrappone; è una varietà che si lascia fondere in armonia dallo Spirito Santo; è Lui il vero “Maestro”, Lui stesso è armonia. E qui chiediamoci: nelle nostre comunità viviamo l’armonia o litighiamo fra noi? Nella mia comunità parrocchiale, nel mio movimento, dove io faccio parte della Chiesa, ci sono chiacchiere? Se ci sono chiacchiere non c’è armonia, ma lotta. E questa non è la Chiesa. La Chiesa è l’armonia di tutti: mai chiacchierare uno contro l’altro, mai litigare! Accettiamo l’altro, accettiamo che vi sia una giusta varietà, che questo sia differente, che questo la pensa in un modo o nell’altro – ma nella stessa fede si può pensare diversamente – o tendiamo ad uniformare tutto? Ma l’uniformità – avverte il Pontefice – uccide la vita. La vita della Chiesa è varietà, e quando vogliamo mettere questa uniformità su tutti uccidiamo i doni dello Spirito Santo. Preghiamo lo Spirito Santo, che è proprio l’Autore di questa unità nella varietà, di questa armonia, perché ci renda sempre più “cattolici”, cioè in questa Chiesa che è cattolica e universale!”. Il tema della missionarietà cristaina nella diversità dei carismi è ulteriormente approfondito da Papa Francesco nella Santa Messa di Domenica 13 Ottobre 2013 in Piazza San Pietro. “Nel Salmo abbiamo recitato: “Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie”(Sal 97,1). Oggi siamo di fronte ad una delle meraviglie del Signore: Maria! Una creatura umile e debole come noi, scelta per essere Madre di Dio, Madre del suo Creatore. Proprio guardando a Maria, alla luce delle Letture che abbiamo ascoltato, vorrei riflettere con voi su tre realtà: prima, Dio ci sorprende; seconda, Dio ci chiede fedeltà; terza, Dio è la nostra forza. La prima: Dio ci sorprende. La vicenda di Naaman, capo dell’esercito del re di Aram – osserva Papa Bergoglio – è singolare: per guarire dalla lebbra si rivolge al profeta di Dio, Eliseo, che non compie riti magici, né gli chiede cose straordinarie, ma solo fidarsi di Dio e di immergersi nell’acqua del fiume; non però dei grandi fiumi di Damasco, ma del piccolo fiume Giordano. È una richiesta che lascia Naaman perplesso, anche sorpreso: che Dio può essere quello che chiede qualcosa di così semplice? Vuole tornare indietro, ma poi fa il passo, si immerge nel Giordano e subito guarisce (cfr 2 Re 5,1-14). Ecco, Dio ci sorprende; è proprio nella povertà, nella debolezza, nell’umiltà che si manifesta e ci dona il suo amore che ci salva, ci guarisce, ci dà forza. Chiede solo che seguiamo la sua parola e ci fidiamo di Lui. Questa è l’esperienza della Vergine Maria: davanti all’annuncio dell’Angelo, non nasconde la sua meraviglia. È lo stupore di vedere che Dio, per farsi uomo, ha scelto proprio lei, una semplice ragazza di Nazaret, che non vive nei palazzi del potere e della ricchezza, che non ha compiuto imprese straordinarie, ma che è aperta a Dio, sa fidarsi di Lui, anche se non comprende tutto: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38). È la sua risposta. Dio ci sorprende sempre, rompe i nostri schemi, mette in crisi i nostri progetti, e ci dice: fidati di me, non avere paura, lasciati sorprendere, esci da te stesso e seguimi! Oggi chiediamoci tutti se abbiamo paura di quello che Dio potrebbe chiederci o di quello che ci chiede. Mi lascio sorprendere da Dio, come ha fatto Maria, o mi chiudo nelle mie sicurezze, sicurezze materiali, sicurezze intellettuali, sicurezze ideologiche, sicurezze dei miei progetti? Lascio veramente entrare Dio nella mia vita? Come gli rispondo? Nel brano di san Paolo che abbiamo ascoltato, l’Apostolo si rivolge al discepolo Timoteo dicendogli: ricordati di Gesù Cristo, se con Lui perseveriamo, con Lui anche regneremo (cfr 2 Tm 2,8-13). Ecco il secondo punto: ricordarsi sempre di Cristo, la memoria di Gesù Cristo, e questo è perseverare nella fede; Dio ci sorprende con il suo amore – osserva Papa Francesco – ma chiede fedeltà nel seguirlo. Noi possiamo diventare “non fedeli”, ma Lui non può, Lui è “il fedele” e chiede da noi la stessa fedeltà. Pensiamo a quante volte ci siamo entusiasmati per qualcosa, per qualche iniziativa, per qualche impegno, ma poi, di fronte ai primi problemi, abbiamo gettato la spugna. E questo purtroppo, avviene anche nelle scelte fondamentali, come quella del matrimonio. La difficoltà di essere costanti, di essere fedeli alle decisioni prese, agli impegni assunti. Spesso è facile dire “sì”, ma poi non si riesce a ripetere questo “sì” ogni giorno. Non si riesce ad essere fedeli. Maria ha detto il suo “sì” a Dio, un “sì” che ha sconvolto la sua umile esistenza di Nazaret, ma non è stato l’unico, anzi è stato solo il primo di tanti “sì” pronunciati nel suo cuore nei suoi momenti gioiosi, come pure in quelli di dolore, tanti “sì” culminati in quello sotto la Croce. Oggi, qui ci sono tante mamme; pensate fino a che punto è arrivata la fedeltà di Maria a Dio: vedere il suo unico Figlio sulla Croce. La donna fedele, in piedi, distrutta dentro, ma fedele e forte. E io mi domando: sono un cristiano “a singhiozzo”, o sono un cristiano sempre? La cultura del provvisorio, del relativo – rileva il Santo Padre – entra anche nel vivere la fede. Dio ci chiede di essergli fedeli, ogni giorno, nelle azioni quotidiane e aggiunge che, anche se a volte non gli siamo fedeli, Lui è sempre fedele e con la sua misericordia non si stanca di tenderci la mano per risollevarci, di incoraggiarci a riprendere il cammino, di ritornare a Lui e dirgli la nostra debolezza perché ci doni la sua forza. E questo è il cammino definitivo: sempre col Signore, anche nelle nostre debolezze, anche nei nostri peccati. Mai andare sulla strada del provvisorio. Questo ci uccide. La fede è fedeltà definitiva, come quella di Maria. L’ultimo punto: Dio è la nostra forza. Penso ai dieci lebbrosi del Vangelo guariti da Gesù: gli vanno incontro, si fermano a distanza e gridano: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!” (Lc 17,13). Sono malati, bisognosi di essere amati, di avere forza e cercano qualcuno che li guarisca. E Gesù risponde liberandoli tutti dalla loro malattia. Fa impressione, però, vedere che uno solo torna indietro per lodare Dio a gran voce e ringraziarlo. Gesù stesso lo nota: dieci hanno gridato per ottenere la guarigione e solo uno è ritornato per gridare a voce alta il suo grazie a Dio e riconoscere che Lui è la nostra forza. Saper ringraziare, saper lodare per quanto il Signore fa per noi. Guardiamo Maria: dopo l’Annunciazione, il primo gesto che compie è di carità verso l’anziana parente Elisabetta; e le prime parole che pronuncia sono: “L’anima mia magnifica il Signore”, cioè un canto di lode e di ringraziamento a Dio non solo per quello che ha operato in lei, ma per la sua azione in tutta la storia della salvezza. Tutto è suo dono. Se noi possiamo capire che tutto è dono di Dio, quanta felicità nel nostro cuore! Tutto è suo dono. Lui è la nostra forza! Dire grazie è così facile, eppure così difficile! Quante volte ci diciamo grazie in famiglia? È una delle parole chiave della convivenza. “Permesso”, “scusa”, “grazie”: se in una famiglia si dicono queste tre parole, la famiglia va avanti. “Permesso”, “scusami”, “grazie”. Quante volte diciamo “grazie” in famiglia? Quante volte diciamo grazie a chi ci aiuta, ci è vicino, ci accompagna nella vita? Spesso diamo tutto per scontato! E questo avviene anche con Dio. È facile andare dal Signore a chiedere qualcosa, ma andare a ringraziarlo: “Mah, non mi viene”. Continuando l’Eucaristia invochiamo l’intercessione di Maria, perché ci aiuti a lasciarci sorprendere da Dio senza resistenze, ad essergli fedeli ogni giorno, a lodarlo e ringraziarlo perché è Lui la nostra forza. Amen”. Nella preghiera “dobbiamo essere coraggiosi e scoprire qual è la vera grazia che ci viene data, cioè Dio stesso” – afferma il Papa nella Messa a Santa Marta, nel giorno in cui Gesù sottolinea la necessità di pregare con fiduciosa insistenza. La parabola dell’amico importuno, che ottiene quel che desidera grazie alla sua insistenza, consente a Papa Francesco di riflettere sulla qualità della nostra preghiera. “Come preghiamo, noi? Preghiamo così, per abitudine, pietosamente ma tranquilli, o ci mettiamo noi proprio con coraggio, davanti al Signore per chiedere la grazia, per chiedere quello per cui preghiamo? Il coraggio nella preghiera: una preghiera che non sia coraggiosa – avverte il Santo Padre – non è una vera preghiera. Il coraggio di avere fiducia che il Signore ci ascolti, il coraggio di bussare alla porta. Il Signore lo dice: ‘Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto’. Ma bisogna chiedere, cercare e bussare. Noi, ci coinvolgiamo nella preghiera? – domanda Papa Francesco – sappiamo bussare al cuore di Dio? Nel Vangelo Gesù dice: ‘Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!’. Questa è una cosa grande: quando noi preghiamo coraggiosamente, il Signore ci dà la grazia, ma anche ci dà se stesso nella grazia: lo Spirito Santo, cioè, se stesso! Mai il Signore dà o invia una grazia per posta: mai! La porta Lui! È Lui, la grazia! Quello che noi chiediamo è un po’ come…è la carta che avvolge la grazia. Ma la vera grazia è Lui, che viene a portarmela. È Lui. La nostra preghiera, se è coraggiosa, riceve quello che chiediamo ma anche quello che è più importante: il Signore. Nei Vangeli – osserva Papa Bergoglio – alcuni ricevono la grazia e se ne vanno: dei dieci lebbrosi guariti da Gesù, solo uno torna a ringraziarlo. Anche il cieco di Gerico trova il Signore nella guarigione e loda Dio. Ma occorre pregare con il coraggio della fede, spingendoci a chiedere anche ciò che la preghiera non osa sperare: cioè, Dio stesso. Noi chiediamo una grazia, ma non osiamo dire: ‘Ma vieni Tu a portarmela’. Sappiamo – ricorda Papa Bergoglio – che una grazia sempre è portata da Lui: è Lui che viene e ce la dà. Non facciamo la brutta figura di prendere la grazia e non riconoscere Quello che ce la porta, Quello che ce la dà: il Signore. Che il Signore ci dia la grazia di darci se stesso, sempre, in ogni grazia. E che noi lo riconosciamo, e che noi lo lodiamo come quegli ammalati guariti del Vangelo. Perché abbiamo, in quella grazia, trovato il Signore”. L’Eterno che viene a visitarci adesso! “Pregare significa aprire la porta al Signore affinché possa fare qualcosa per risistemare le nostre cose. Il sacerdote che fa il suo dovere, ma non apre la porta al Signore, rischia di diventare solo un professionista – avverte Papa Francesco, riflettendo sul valore della preghiera “non quella a pappagallo ma quella fatta con il cuore che porta a guardare il Signore, ad ascoltare il Signore, a chiedere al Signore”. La riflessione si sviluppa dalle letture della liturgia, tratte dal libro di Giona (3,1-10) e dal Vangelo di Luca (10,38-42), facendo riferimento al brano evangelico il Pontefice propone come modello da seguire l’atteggiamento di Maria, una delle due donne che avevano ospitato Gesù nella loro casa. Maria infatti si ferma ad ascoltare ed a guardare il Signore, mentre Marta, la sorella, continua ad occuparsi delle faccende di casa. “La parola del Signore – osserva il Papa – è chiara: Maria ha scelto la parte migliore, quella della preghiera, quella della contemplazione di Gesù. Agli occhi della sorella era perdere tempo. Maria si ferma a guardare il Signore come una bambina meravigliata, invece di lavorare come faceva lei”. L’atteggiamento di Maria è quello giusto “perché – spiega il Santo Padre – Ella ascoltava il Signore e pregava con il suo cuore. Ecco cosa vuole dirci il Signore. Il primo compito nella vita è questo: la preghiera. Ma non la preghiera delle parole come i pappagalli, ma la preghiera del cuore, attraverso la quale è possibile guardare il Signore, ascoltare il Signore, chiedere al Signore. E noi sappiamo che la preghiera fa dei miracoli”. La stessa cosa insegna l’episodio narrato nel libro di Giona, un “testardo – così lo definisce Papa Francesco – perché non voleva fare quello che il Signore gli chiedeva. Solo dopo che il Signore lo ebbe salvato dal ventre di una balena, Giona si decise: ‘Signore farò quello che tu dici. E andò per le strade di Ninive’ annunciando la sua profezia: la città sarebbe stata distrutta da Dio se i cittadini non avessero cambiato in meglio il loro modo di vivere. Giona era un profeta ‘professionista’ – precisa Papa Bergoglio – e diceva: ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta. Lo diceva seriamente, con forza. E questi niniviti si sono spaventati e hanno cominciato a pregare con le parole, con il cuore, con il corpo. La preghiera ha fatto il miracolo. Anche in questo racconto si vede quello che Gesù dice a Marta: Maria ha scelto la parte migliore. La preghiera fa miracoli, davanti ai problemi che ci sono nel mondo”. Poi ci sono anche quelli che il Papa definisce “pessimisti: queste persone dicono: ‘niente si può cambiare, la vita è così’. Mi fa pensare a una canzone triste della mia terra che dice: ‘lasciamo perdere. Laggiù nel forno ci incontreremo tutti’. Certo – sottolinea il Santo Padre – è una visione un po’ pessimista della vita che ci porta a chiederci: ‘Perché pregare? Ma lascia perdere, la vita è così! Andiamo avanti. Facciamo quello che possiamo’. È questo l’atteggiamento avuto da Marta – spiega il Pontefice – la quale faceva cose, ma non pregava. E poi c’è il comportamento di altri, come quel testardo Giona. Questi sono i ‘giustizieri’. Giona andava e profetizzava; ma nel suo cuore diceva: ‘se la meritano, se la meritano, se la sono cercata’. Lui profetizzava, ma non pregava, non chiedeva al Signore perdono per loro, soltanto li bastonava. Questi si credono giusti. Ma alla fine, come è capitato con Giona, si rivelano degli egoisti. Giona, per esempio, quando Dio ha salvato il popolo di Ninive, si è arrabbiato con il Signore: ‘ma tu sempre sei così, sempre perdoni!’. E anche noi – fa notare Papa Francesco – quando non preghiamo, quello che facciamo è chiudere la porta al Signore cosicché lui non possa fare nulla. Invece la preghiera davanti a un problema, a una situazione difficile, a una calamità, è aprire la porta al Signore, perché venga: lui, infatti, sa risistemare le cose”. Papa Bergoglio esorta a pensare alla storia di Maria, la sorella di Marta, che “ha scelto la parte migliore e ci fa vedere la strada, come si apre la porta al Signore”, al re di Ninive “che non era un santo”, a tutto il popolo. “Facevano cose brutte. Ma quando hanno pregato, digiunato e hanno aperto la porta al Signore – insegna il Papa – il Signore ha fatto il miracolo del perdono. E pensiamo a Giona che non pregava, fuggiva da Dio sempre. Profetizzava, era forse un buon professionista, possiamo dire oggi un buon prete che faceva i suoi compiti, ma mai apriva la porta al Signore con la preghiera. Chiediamo al Signore che ci aiuti a scegliere sempre la parte migliore”. Un cuore che sa pregare e sa perdonare. Da questo si riconosce un cristiano. “Lasciamoci scrivere la nostra vita da Dio”, è l’esortazione levata da Papa Francesco che, nella Messa alla Casa Santa Marta, si sofferma sulle figure di Giona e del Buon Samaritano. “A volte – osserva il Papa – può succedere che anche un cristiano, un cattolico fugga da Dio, mentre un peccatore, considerato lontano da Dio, ascolti la voce del Signore. Giona serve il Signore, prega tanto e fa del bene, ma quando il Signore lo chiama comincia a fuggire”. È il tema della fuga da Dio. “Giona aveva la sua storia scritta e non voleva essere disturbato. Il Signore lo invia a Ninive e lui prende una nave per la Spagna. Fuggiva dal Signore:
la fuga da Dio. Si può fuggire da Dio, ma pur essendo cristiano, essendo cattolico, essendo dell’Azione Cattolica, essendo prete, vescovo, Papa – avverte il Vescovo di Roma – tutti, tutti possiamo fuggire da Dio! È una tentazione quotidiana. Non ascoltare Dio, non ascoltare la sua voce, non sentire nel cuore la sua proposta, il suo invito. Si può fuggire direttamente. Ci sono altre maniere di fuggire da Dio, un po’ più educate, un po’ più sofisticate, no? Nel Vangelo, c’è quest’uomo mezzo morto, buttato sul pavimento della strada, e per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada, un degno sacerdote, proprio con la talare, bene, bravissimo! Ha visto e ha guardato: ‘Arrivo tardi a Messa’, e se n’è andato oltre. Non aveva sentito la voce di Dio, lì.
Passa poi un levita, che – osserva il Papa – avrà forse pensato: ‘Se io lo prendo o se io mi avvicino, forse sarà morto, e domani devo andare dal giudice e dare la testimonianza’ e passò oltre. Anche lui fugge da questa voce di Dio. Soltanto ha la capacità di capire la voce di Dio uno che abitualmente fuggiva da Dio, un peccatore, un samaritano. Questo, constata, ‘è un peccatore, lontano da Dio’, eppure ‘ha sentito la voce di Dio e si è avvicinato’. Il samaritano non era abituato alle pratiche religiose, alla vita morale, anche teologicamente era sbagliato, perché i samaritani credevano che Dio si dovesse adorare da un’altra parte e non dove voleva il Signore. E tuttavia, è stata la sua riflessione, il samaritano ha capito che Dio lo chiamava, e non fuggì. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino, poi lo caricò sulla cavalcatura e ancora lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Ha perso tutta la serata. Il sacerdote è arrivato in tempo per la Santa Messa, e tutti i fedeli contenti; il levita ha avuto, il giorno dopo, una giornata tranquilla secondo quello che lui aveva pensato di fare, perché non ha avuto tutto questo imbroglio di andare dal giudice e tutte queste cose. E perché Giona fuggì da Dio? Perché il sacerdote fuggì da Dio? Perché il levita fuggì da Dio? Perché – ammonisce Papa Francesco – avevano il cuore chiuso, e quando tu hai il cuore chiuso, non puoi sentire la voce di Dio. Invece, un samaritano che era in viaggio ‘vide e ne ebbe compassione’: aveva il cuore aperto, era umano. E l’umanità lo avvicinò. Giona – osserva il Papa – aveva un disegno della sua vita: lui voleva scrivere la sua storia e così anche il sacerdote e il levita. Un disegno di lavoro. Invece, questo peccatore, il samaritano si è lasciato scrivere la vita da Dio: ha cambiato tutto, quella sera, perché il Signore gli ha avvicinato la persona di questo povero uomo, ferito, malamente ferito, buttato sulla strada. Io mi domando, a me, e domando anche a voi: ci lasciamo scrivere la vita, la nostra vita, da Dio o vogliamo scriverla noi? E questo ci parla della docilità: siamo docili alla Parola di Dio? ‘Sì, io voglio essere docile!’. Ma tu, hai capacità di ascoltarla, di sentirla? Tu hai capacità di trovare la Parola di Dio nella storia di ogni giorno, o le tue idee sono quelle che ti reggono, e non lasci che la sorpresa del Signore ti parli? Tre persone che sono in fuga da Dio – fa notare il Papa – e un’altra in situazione irregolare che è capace di ascoltare, aprire il cuore e non fuggire. Sono sicuro che tutti noi vediamo che il samaritano, il peccatore, non è fuggito da Dio. Il Signore ci conceda di sentire la voce del Signore, la Sua voce, che ci dice: Va e anche tu fa così! Quando Dio viene e si avvicina sempre c’è festa. Non bisogna trasformare la memoria della salvezza in un ricordo, in un evento abituale. La Messa – osserva Papa Francesco –non è un evento sociale ma presenza del Signore in mezzo a noi. Esdra legge dall’alto il Libro della Legge, che si pensava perduto, e il popolo commosso piange di gioia”. Papa Francesco prende spunto dal brano del Libro di Neemia, per affrontare il tema della memoria. “Il Popolo di Dio aveva la memoria della Legge, ma era una memoria lontana, in quel giorno invece la memoria si è fatta vicina e questo tocca il cuore. Piangevano di gioia, non di dolore perché avevano l’esperienza della vicinanza della salvezza. Questo è importante non solamente nei grandi momenti storici, ma nei momenti della nostra vita: tutti abbiamo la memoria della salvezza, tutti. Ma mi domando: questa memoria è vicina a noi, o è una memoria un po’ lontana, un po’ diffusa, un po’ arcaica, un po’ di museo? Può andarsene lontano. E quando la memoria non è vicina, quando noi non abbiamo questa esperienza della vicinanza della memoria – spiega il Papa – questa entra in un processo di trasformazione, e la memoria diventa un semplice ricordo. Quando la memoria si fa lontana, si trasforma in ricordo; ma quando si fa vicina, si trasforma in gioia e questa è la gioia del popolo. Questo costituisce un principio della nostra vita cristiana. Quando la memoria si fa vicina, fa due cose: riscalda il cuore e ci dà gioia. E questa gioia è la nostra forza. La gioia della memoria vicina. Invece, la memoria addomesticata, che si allontana e diventa un semplice ricordo, non riscalda il cuore, non ci dà gioia e non ci dà forza. Questo incontro con la memoria è un evento di salvezza – osserva Papa Bergoglio – è un incontro con l’amore di Dio che ha fatto storia con noi e ci ha salvati, è un incontro di salvezza. Ed è tanto bello essere salvati, che bisogna fare festa. Quando Dio viene e si avvicina sempre c’è festa. E tante volte – afferma il Pontefice – noi cristiani abbiamo paura della festa: questa festa semplice e fraterna che è un dono della vicinanza del Signore. La vita ci porta ad allontanare questa vicinanza, soltanto a mantenere il ricordo della salvezza, non la memoria che è viva. La Chiesa ha la ‘sua memoria’: la memoria della Passione del Signore. Anche a noi accade però di allontanare questa memoria e trasformarla in un ricordo, in un evento abituale. Ogni settimana andiamo in chiesa, oppure è morto quello, andiamo al funerale e questa memoria, tante volte, ci annoia, perché non è vicina. È triste, ma la Messa tante volte si trasforma in un evento sociale e non siamo vicini alla memoria della Chiesa, che è la presenza del Signore davanti a noi. Immaginiamo questa bella scena nel Libro di Neemia: Esdra che porta il Libro della memoria di Israele e il popolo che si avvicina alla sua memoria e piange, il cuore è riscaldato, è gioioso, sente che la gioia del Signore è la sua forza. E fa festa, senza paura, semplicemente. Chiediamo al Signore la grazia di avere sempre la sua memoria vicina a noi, una memoria vicina e non addomesticata dall’abitudine, da tante cose, e allontanata in un semplice ricordo”. La cupidigia, l’attaccamento ai soldi, distrugge le persone, distrugge le famiglie e i rapporti con gli altri. L’invito di Papa Bergoglio non è quello di scegliere la povertà in se stessa, ma di utilizzare le ricchezze che Dio ci dà per aiutare chi ha bisogno: commentando il Vangelo del giorno, in cui un uomo chiede a Gesù di intervenire per risolvere una questione di eredità con suo fratello, il Santo Padre sviluppa il tema del rapporto con i soldi. “Questo è un problema di tutti i giorni. Quante famiglie distrutte abbiamo visto per il problema di soldi: fratello contro fratello; padre contro figlio. È questo il primo lavoro che fa questo atteggiamento dell’essere attaccato ai soldi, distrugge! Quando una persona è attaccata ai soldi – avverte Papa Francesco – distrugge se stessa, distrugge la famiglia! I soldi distruggono! Fanno questo, no? Ti attaccano. I soldi servono per portare avanti tante cose buone, tanti lavori per sviluppare l’umanità, ma quando il tuo cuore è attaccato così, ti distrugge”. Gesù racconta la parabola dell’uomo ricco, che vive per accumulare ‘tesori per sé’ e ‘non si arricchisce presso Dio’. L’avvertimento di Gesù è quello di tenersi lontano da ogni cupidigia. È quello che fa male: la cupidigia nel mio rapporto con i soldi. Avere di più, avere di più, avere di più. Ti porta all’idolatria, ti distrugge il rapporto con gli altri! Non i soldi, ma l’atteggiamento – ammonisce il Papa – che si chiama cupidigia. Poi anche questa cupidigia ti ammala, perché ti fa pensare soltanto tutto in funzione dei soldi. Ti distrugge, ti ammala. E alla fine, questo è il più importante, la cupidigia è uno strumento dell’idolatria, perché va per la strada contraria a quella che ha fatto Dio con noi. San Paolo ci dice che Gesù Cristo, che era ricco, si è fatto povero per arricchire noi. Quella è la strada di Dio: l’umiltà, l’abbassarsi per servire. Invece la cupidigia ti porta per la strada contraria: tu, che sei un povero uomo, ti fai Dio per la vanità. È l’idolatria!”. Una violazione del Comandamento di Dio. Cioè del Suo Diritto Santo. “Per questo – osserva Papa Francesco – Gesù dice cose tanto dure, tanto forti contro questo attaccamento al denaro. Ci dice che non si può servire due padroni: o Dio o il denaro. Ci dice di non preoccuparci, che il Signore sa di che cosa abbiamo bisogno e ci invita all’abbandono fiducioso verso il Padre, che fa fiorire i gigli dal campo e dà da mangiare agli uccelli. L’uomo ricco della parabola continua a pensare solo alle ricchezze, ma Dio gli dice: ‘Stolto, questa notte ti sarà richiesta la tua vita!’. Questa strada contraria alla strada di Dio è una stoltezza, ti porta lontano dalla vita, distrugge ogni fraternità umana. Il Signore ci insegna qual è il cammino: non è il cammino della povertà per la povertà. No! È il cammino della povertà come strumento, perché Dio sia Dio, perché Lui sia l’unico Signore! No l’idolo d’oro! E tutti i beni che abbiamo, il Signore ce li dà per fare andare avanti il mondo, andare avanti l’umanità, per aiutare, per aiutare gli altri. Rimanga oggi nel nostro cuore la Parola del Signore: Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”. Portare avanti il cammino di “dialogo e di comunione”, è l’auspicio e il programma di Papa Francesco, come riferito nell’udienza di Lunedì 21 Ottobre 2013 alla delegazione della Federazione Luterana Mondiale ed ai rappresentanti della Commissione per l’Unità Luterano-Cattolica. Papa Bergoglio ha sottolineato che “nonostante le difficoltà e le divergenze, non bisogna smettere di impegnarsi e di invocare dal Signore il dono dell’unità”. Con il dialogo teologico, la preghiera fedele e la collaborazione fraterna. Papa Francesco indica queste tre punte di diamante come fondamentali per progredire nel dialogo e nelle relazioni tra luterani e cattolici, mettendo l’accento sull’ecumenismo spirituale. “Quest’ultimo costituisce, in un certo senso, l’anima del nostro cammino verso la piena comunione e – dichiara Papa Bergoglio – ci permette di pregustarne già da ora qualche frutto, anche se imperfetto: nella misura in cui ci avviciniamo con umiltà di spirito al Signor Nostro Gesù Cristo, siamo sicuri di avvicinarci anche tra di noi e nella misura in cui invocheremo dal Signore il dono dell’unità, stiamo certi che Lui ci afferrerà per mano e sarà la nostra guida”. Papa Francesco indica due efficaci ricorrenze: il 50.mo del dialogo teologico e il quinto centenario della Riforma, nel 2017, l’anno successivo al Giubileo dell’Ordine Domenicano. “È importante – osserva Papa Francesco – confrontarsi in dialogo sulla realtà storica della Riforma, sulle sue conseguenze e sulle risposte che a essa furono date: cattolici e luterani possono chiedere perdono per il male arrecato gli uni agli altri e per le colpe commesse davanti a Dio, e insieme gioire per la nostalgia di unità che il Signore ha risvegliato nei nostri cuori, e che ci fa guardare avanti con uno sguardo di speranza. Alla luce del cammino di questi decenni, e dei tanti esempi di comunione fraterna tra luterani e cattolici, sono certo che sapremo portare avanti il nostro cammino di dialogo e di comunione. E questo, affrontando anche le questioni fondamentali, come anche le divergenze che sorgono in campo antropologico ed etico. Certo, le difficoltà non mancano e non mancheranno, richiederanno ancora pazienza, dialogo, comprensione reciproca, ma non ci spaventiamo! Sappiamo bene – come più volte ci ha ricordato Benedetto XVI – che l’unità non è primariamente frutto del nostro sforzo, ma dell’azione dello Spirito Santo al quale occorre aprire i nostri cuori con fiducia perché ci conduca sulle vie della riconciliazione e della comunione”. Come ci ricorda il Beato Giovanni Paolo II, “Voi siete l’avvenire del mondo. Voi siete la speranza della Chiesa. Voi siete la mia speranza!”.

© Nicola Facciolini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *