Le Valigie di Goffredo Palmerini

Manhattan: al 23 di Lexington Avenue c’era un vecchio albergo, il George Washington, a pochi passi dal Central Park. Non so se ancora esista o se anche lui sia stato ingoiato dall’ennesimo grattacielo imposto dagli incessanti mutamenti della Grande Mela. Per la mia prima volta a New York avevo voluto abitare lì, affascinato dal potermi […]

Manhattan: al 23 di Lexington Avenue c’era un vecchio albergo, il George Washington, a pochi passi dal Central Park. Non so se ancora esista o se anche lui sia stato ingoiato dall’ennesimo grattacielo imposto dagli incessanti mutamenti della Grande Mela. Per la mia prima volta a New York avevo voluto abitare lì, affascinato dal potermi muovere negli stessi ambienti in cui erano stati di casa Auden, Isherwood e tanti altri protagonisti dell’intellettualità newyorkese, tra i quali gli architetti delle tragiche torri gemelle del World Trade Center.

Che sarebbe finita come effettivamente finì me l’ero immaginato, sebbene la fantasia, al solito, seppe essere assai meno immaginativa della realtà. Io sono uno di quei tantissimi abruzzesi che nelle famiglie d’origine e in quelle acquisite hanno alle spalle non meno di un emigrato in terre lontane. Avevo stabilito che con lo zio d’America – anch’io ne avevo uno – mi sarei fatto vivo non prima del terzo giorno di libera esplorazione delle meraviglie di New York. Così, feci in tempo a godermi il Metropolitan e la Carnegie Hall, a sbalordirmi con le preziosità esibite lungo la rampa elicoidale del Guggenheim di Wright, a inebriarmi di librerie, coffee shop e gallerie d’arte, a lasciarmi soggiogare dall’excelsior capitalistico della Grand Central Station e della foresta di grattacieli. Alla domanda “Quando posso venire a salutarti?” seguì un incontrastabile “Tu vieni a stare da noi! Prepara i bagagli! Vengo a prenderti tra due ore!”. Giù il telefono e da lì a due ore baci&abbracci e subito dentro l’automobile dello zio.

Abitava a Long Island. la piccola villa in perfetto stile New England era il suo ben meritato cavalierato, dopo i tanti e affaticati anni dei caseggiati di Brooklyn. Ci fu una sosta, però, prima d’arrivarci. Pensavo a una qualche incombenza da sbrigare in una delle eleganti botteghe che vedevo tutt’intorno. Invece, lo zio mi prese sottobraccio e mi depositò su una poltrona del suo barbiere di fiducia: “Qui non puoi andare in giro con quella roba sulla testa!”. Io ero troppo giovane, troppo in debito d’affetto e troppo intimidito, per opporre resistenza. Del resto, lo si poteva capire, mio zio. Eravamo sul finire degli anni Sessanta e la lunghezza dei capelli misurava le appartenenze politiche. Più lunghi i capelli, più a sinistra le coscienze. Non c’era giorno che da una scuola non venissero cacciati ragazzi colpevoli solo d’aver lasciato crescere un po’ troppo i capelli. La stessa parola “capelli”, cioè “hair” in inglese, stava diventando un pericoloso paradigma sovversivo, sull’onda del travolgente successo con cui aveva da poco cominciato a navigare verso l’immortalità “Hair”, il musical che racconta la storia di un gruppo di capelloni in lotta contro il predominio culturale del conservatorismo e contro la chiamata alle armi per la guerra del Viet Nam. Bisogna capire come stavano le cose.

In Hair si cantavano cose come «dammi una testa con capelli, con capelli lunghi, belli, luminosi, splendenti, ondeggianti, biondi, vaporosi», addirittura si osava dire «My hair like Jesus wore it. Halleluja, I adore it! Halleluja, Mary loved her son. Why don’t my mother love me?» (i miei capelli sono come li portava Gesù. Alleluia, mi piace! Alleluia, maria amava suo figlio. Perché mia madre non ama me?). Gli stessi personaggi che inneggiavano alla bellezza del capello-lungo pugnalavano il quieto vivere perbenista cantando «la chiamata alle armi significa che dei bianchi di pelle mandano dei neri di pelle a fare la guerra contro dei gialli di pelle, per difendere la terra che loro hanno rubato a dei rossi di pelle».

Non che fosse fascista, mio zio, vergogna mai allignata nella nostra famiglia. Ma conservatore, sì, tanto. Conservatore strutturale e indefettibile, qual è in buona sostanza gran parte degli italiani trapiantati negli States. Altrove, gli orientamenti sono assai più articolati. Ma, negli States non è facile incontrare gente d’ascendenza italiana schierata con i progressisti. Intendiamoci, son tutte persone dabbene: non è come in Italia, dove purtroppo difettiamo di una Destra rispettabile e i conservatori sono per lo più una mescola di citrulli, cinici affaristi, gente di malaffare e povericristi abbagliati da una mitologia ingannatrice.

D’altra parte, per gli emigrati, la percezione dell’Italia non è stata al passo con i tempi e spesso è tuttora inadeguata. Quasi nessuno sapeva dell’Italia rifiorita dopo il verminaio fascista e gli sconquassi della guerra. e quelli che ne avevano notizia, per lo più, si mantenevano increduli. Nei miei anni da scolaro, i pacchi che ricevevo da mio zio contenevano flaconi di vitamine, cioccolate, matite, gomme per cancellare, sacchetti di elastici, scatoline di fermagli, astucci portapenne di bachelite, pastelli di cera. La prima volta che tornò, all’inizio degli anni Sessanta, rimase di stucco nel constatare l’ottimo stato di nutrizione dei ragazzi italiani e la presenza nelle nostre case di frigoriferi e lavatrici.

Poi, lentamente, molte cose sono andate cambiando, come io stesso ho potuto verificare in giro per il mondo. I bistrattati emigrati di un tempo sono in gran parte diventati ammirati cittadini delle loro nuove patrie, le loro rimesse di valute pregiate hanno perduto l’importanza che per decenni avevano avuto nell’aiutare sia i familiari rimasti in Italia sia l’intera dinamica economica del Paese, l’Italia è a sua volta diventata terra d’immigrazione. Molte altre cose, però, non sono cambiate. Per esempio, caratteri e ruolo dell’informazione: in Italia quanto alla variegata realtà dell’emigrazione; nei Paesi d’immigrazione a proposito della quotidianità italiana. Gli emigrati e i loro discendenti, anche quanti di loro vengono spesso in Italia, hanno idee piuttosto superficiali e lacunose su di noi. D’altra parte, noi sappiamo poco e male di loro, dei loro successi, dei loro problemi, delle loro aspettative.

Perciò, adempie a una funzione di straordinario spessore il lavoro che Goffredo Palmerini svolge da anni mediante la diffusione di notizie attraverso il circuito mondiale di contatti da lui costruito con appassionata meticolosità. Non si tratta di un’attività da agenzia di stampa. Goffredo produce reportages dettagliati, precisi, accuratamente documentati, su avvenimenti e persone di entrambi i fronti: parla delle cose italiane che possono suscitare l’interesse di chi vive altrove e a noi racconta quel che mai verremmo a sapere di quell’altra Italia fatta di decine di milioni di uomini e donne che vivono all’estero e nelle cui arterie scorre sangue d’origine italiana. Quei reportages circolano in Italia e in dozzine d’altri Paesi attraverso la rete internet, entrano nelle case e nelle sedi di associazioni, vengono ripresi da testate on line e cartacee, dando luogo a un incrocio di informazioni e riflessioni con cui si accrescono ogni giorno la consapevolezza della realtà e l’attitudine a sviluppare fattori di progresso.

Può parere una cosa semplice da fare e opinabile quanto a utilità. non è così: le fonti bisogna cercarsele, dispiegando acuminato ingegno e sapiente curiosità, perché le notizie da riferire e le storie da raccontare quasi mai appartengono all’ordinario circuito dell’informazione; l’utilità di tutto questo, poi, sta nel semplice fatto in sé, se è vero, com’è vero, che senza conoscenza non può svilupparsi consapevolezza e che la consapevolezza è il motore di qualsiasi atteggiamento d’opinione e d’azione. Così, lentamente ma senza tregua, giorno dopo giorno, Goffredo va irrobustendo il ponte di cui v’è necessità per scavalcare quel burrone di reciproca indifferenza che decenni di disinformazione e cattiva informazione hanno scavato tra gli italiani d’Italia e gli italiani dell’Italia fuori d’Italia.

Dalla gran mole dei suoi reportages, Goffredo estrae ogni anno quanto basta per dar corpo a un volume pensato in forma d’una sorta di sorvolo panoramico su quanto ci si è appena lasciato alle spalle. Giunto al quinto anno, questo appuntamento ha ormai assunto la veste di una tradizione alla quale in molti non vorremmo rinunciare, offrendoci essa piacevolezza di lettura e opportunità conoscitiva. Inoltre, questi libri di Goffredo costituiscono un repertorio prezioso per chi adesso e nel futuro voglia disporre di materiale raro e di prima mano per qualsiasi studio sul gigantesco e complesso fenomeno dell’emigrazione italiana e dei suoi influssi su economia e cultura di una impressionante quantità di Paesi.

A prescindere dalle motivazioni che ne supportano la scelta da parte dell’autore, il titolo di questo quinto volume, L’Italia dei Sogni, come già quelli dei quattro libri precedenti (Oltre confine, Abruzzo Gran Riserva, L’Aquila nel mondo, L’Altra Italia), evoca due immagini che subito eccitano la fantasia: le valigie vere e proprie e la valigia metaforica. La prima immagine coincide ovviamente con quella del bagaglio che ogni emigrante si portava appresso: un bagaglio stivato delle poche cose di cui ciascuno poteva disporre, ma anche gonfio di tante speranze, ansie, aspirazioni e di quei sogni che si sperava di coronare grazie alla fatica e all’ingegno necessari per affrontare il destino da cui avrebbe dovuto scaturire un futuro per se stessi e le famiglie. La valigia metaforica è quella di Goffredo.

Pare di vederlo lui, Goffredo, che affonda le mani nell’immateriale baule in cui va stivando i frutti del suo scrivere e poi tira fuori quanto basta per riempire ogni tanto una valigia fatta dei sogni altrui, di quegli emigranti che egli racconta e di quei fatti nostri che egli agli emigrati riversa. Si tratta di un genere particolare di sogni, però, perché questi son sogni realizzati, sogni che scaldano il cuore, anche se dietro di essi s’intravedono le ombre dei sogni non realizzati. Anche quelli sono tanti e lasciano intuire il dolore che sempre fa compagnia alla durezza del migrare, come adesso possiamo ben constatare specchiandoci negli occhi velati d’affanno e solitudine degli immigrati nella nostra bella e finora non abbastanza accogliente Italia.

Nasce da tutto questo un affresco disteso lungo le pagine del libro, un affresco che materializza la valigia metaforica di Goffredo e aiuta a stabilire un approccio finalmente non banale e non artificioso con quel mondo degli “zii d’America” oggetto di sprovvedute fantasie per gran parte degli italiani e invece denso d’una realtà, drammatica e entusiasmante, fin troppo a lungo rimasta ignota o mal conosciuta.

*Giornalista e scrittore

Errico Centofanti è nato all’Aquila nel 1940. Ha intrapreso l’attività di giornalista, autore di eventi culturali e scrittore quando studiava filologia romanza all’Università Orientale di Napoli. Con Peppino Giampaola e Luciano Fabiani ha fondato il Teatro Stabile dell’Aquila, curandone la direzione dal 1963 al 1982. Per il Comune dell’Aquila ha ideato nel 1983 Perdonanza festival, del quale è stato Soprintendente fino al 1992. È stato docente di storia del teatro all’Accademia Sharoff di Roma e alla Scuola di Cultura Drammatica dell’Aquila, della quale è stato anche direttore. È stato consigliere e assessore al Comune dell’Aquila, dal 1971 al 1980. Insieme con Andrea Vitali, ha ideato e curato la direzione artistica dei festival internazionali “Urbino Rinascimenti”, per la città di Urbino (dal 1995 al 1997), e “Castel dei Mondi”, per la città di Andria (dal 1997 al 2000), e è stato direttore artistico della rassegna di spettacolo “Il Suono di Dante”
per il “Settembre Dantesco” di Ravenna (dal 1998 al 2007), e del festival internazionale collegato allo “Sposalizio del Mare” di Cervia (dal 2001 al 2007). Ha curato progetti culturali in Australia, Canada e est europeo nonché ideazione e drammaturgia per gli eventi di numerose città d’arte e centri storici, tra cui Ascoli Piceno, Bologna, Brisighella, Castelnuovo di San Pio delle Camere, Fabriano, Fossanova di Priverno, Monteveglio, Offagna, San Gimignano. Dal 2005 cura la direzione artistica delle Giornate Dantesche del Canadian Centre for Italian Culture and Education di Toronto. Ha curato i testi per composizioni musicali di Luis Bacalov e Ennio Morricone e per spettacoli interpretati, tra gli altri, da Flavio Bucci, Riccardo Cucciolla, Piera Degli Esposti, Arnoldo Foà, Giampiero Fortebraccio, Paola Gassman, Andrea Giordana, Renzo Giovampietro, Leo Gullotta, Ugo Pagliai. Autore di saggi e opere narrative per diversi editori e periodici specializzati, collabora tuttora con diverse testate. Tra le sue opere saggistiche e letterarie: Un sogno ancora da sognare, 1994 – Perché “dell’Aquila”, 1995 – Le Dimissioni, 1998 – L’Emiciclo, 1999 – Storie da Caminetto, 1999 – Italiani nel mondo, 2002 – La festa crudele, 2003 – Introduzione al Polittico Abruzzese e i lemmi Abruzzo e Giornalismo per The Gadda encyclopedia dell’Università di Edimburgo, 2004 – Gadda inviato speciale in Abruzzo, 2004 – L’Anima dell’Aquila, 2007 – La Gran Cornata, 2009 – Quel Ramo di Mandorlo, 2011. È coautore/curatore di: La Provincia dei Parchi, 1997 – Gli Eremi di Roccamorice, 2000 – Il Palazzo degli Occhi, 2004 – Breviario del Gran Sasso, 2005 – La Basilica di Collemaggio, 2005 – La Stagione degli Scioperi a Rovescio, 2007 – Con l’Opra in Man Cantando, 2007 – In memoria di Tullio de Rubeis, 2008. È autore degli apparati critici per Piero Ventura, un rivoluzionario di professione, di Eude Cicerone, 1985 – Meraviglie d’Abruzzo, di Carlo Emilio Gadda, 2001 – La mia grande avventura, di Louis Carrozzi, 2006 – Dizionario di pensieri e sentenze, di Niccolò Persichetti, 2006.

Enrico Centofanti

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