La catastrofe della miniera di Monongah 106 anni fa in West Virginia nel giorno di Babbo Natale costò la vita a mille minatori

La migrazione dei popoli può renderci migliori. A Monongah, quel 6 Dicembre dell’Anno Domini 1907, esplosero due pozzi carboniferi e perirono almeno 500 italiani nel giorno di Babbo Natale dedicato a San Nicola Vescovo. Martiri del lavoro, dell’emigrazione e della speranza in un mondo migliore. Ricorre il 106° anniversario del maggiore disastro minerario americano, il […]

monongah2La migrazione dei popoli può renderci migliori. A Monongah, quel 6 Dicembre dell’Anno Domini 1907, esplosero due pozzi carboniferi e perirono almeno 500 italiani nel giorno di Babbo Natale dedicato a San Nicola Vescovo. Martiri del lavoro, dell’emigrazione e della speranza in un mondo migliore. Ricorre il 106° anniversario del maggiore disastro minerario americano, il più grave in assoluto nella storia estrattiva, ricordato con il nome della località USA in cui esplosero contemporaneamente due vene carbonifere. Monongah era un centro minerario con circa 3mila abitanti e una numerosa colonia italiana. Il 5 Dicembre 1907 le miniere 6 e 8 erano rimaste chiuse per via della festa congiunta (oggi diremmo, “ponte”) di San Nicola e Santa Barbara. La Fairmont Coal Company, sussidiaria della Consolidation Coal Company, per risparmiare non mantenne in funzione il sistema di aerazione. L’esplosione delle ore 10:30 del mattino fu violentissima ed avvertita a 30 chilometri di distanza. Il 19 Dicembre 1907 un’altra deflagrazione seminerà morte e lutto a Darr, in Pennsylvania. Anche qui numerose le vittime italiane tra le circa 400 che si contarono. L’elenco delle tragedie minerarie americane di quel periodo, simile a un martirologio, è una lista atroce e infinita. Si ricordano i 22 morti di Bluefield (4 Gennaio 1906), i 18 di Detroit (18 Gennaio 1906), i 22 della miniera Parral (8 Febbraio 1906), i 28 di Fayetteville (25 Marzo 1906), i 28 di Pocahontas (3 Ottobre 1906), i 12 di Buckhannon (20 Gennaio 1907), gli 80 della miniera Sewart di Fayetteville (29 Gennaio 1907). E, per l’Europa, il migliaio di Courrières (Francia settentrionale) del Marzo 1906. Secondo fonti attendibili, circa mille persone persero la vita nella sciagura americana di Monongah. Alle vittime ufficiali sono da aggiungere i bambini, gli amici e gli aiutanti che ogni minatore “regolarmente assunto” portava con sé, senza l’obbligo di comunicarlo al datore di lavoro. Per via del cottimo e per un maggiore guadagno. In seguito si sarebbero divisi il salario. “Buddy System”, lo chiamavano, il “sistema dell’amico o del compare”! A Monongah, cittadina del West Virginia, nel cuore minerario degli Stati Uniti, si consumò un’ecatombe che ufficialmente costò la vita a 361 minatori, 171 dei quali italiani. Stima per difetto, perché i morti furono più di 900, di cui 500 italiani. Neanche un terzo dei minatori era registrato. Fra le vittime decine di Molisani e Abruzzesi emigrati in cerca di fortuna in America. Alcuni di loro erano appena dei ragazzini. Una tragedia, per l’emigrazione italiana più grave di quella, ben più nota, di Marcinelle in Belgio avvenuta l’8 Agosto 1956 in cui le vittime furono 262, delle quali 136 italiane. I morti di quelle spaventose deflagrazioni di inizio XX Secolo, secondo i resoconti giornalistici dell’epoca e le molteplici testimonianze rese sotto giuramento, avrebbero fatto inorridire tutto il mondo soltanto dopo diversi decenni. Che cosa accadde a Monongah? Nel giorno di Santa Claus, il 6 Dicembre 1907, alle 10:30 del mattino una violenta esplosione fa crollare le vene n° 6 e n° 8 della miniera più importante della Contea. Un vero e proprio terremoto scuote la terra per oltre 13 chilometri, spazzando via case e strade, persone e animali. Sradica addirittura le rotaie della locale stazione ferroviaria. Laggiù nelle viscere della Terra, 478 minatori uomini e ragazzi con il viso annerito dal carbone e gli abiti dismessi, sono investiti in pieno dalla detonazione. Un misto di polvere di carbone e gas metano trasforma in pochi secondi i due tunnel in una camera ardente. Muoiono così in 361. Sono americani (85), polacchi e russi (103), ma sono soprattutto italiani. Centosettantuno. Una cifra spaventosa che potrebbe addirittura salire fino a 500 italiani morti. Una corrispondenza da Washington del 9 Marzo del 1908, cioè dopo il completamento delle inchieste sulla tragedia, sostiene che “il bilancio dello scoppio della miniera di Monongah avrebbe raggiunto un totale di 956 vittime, la maggioranza delle quali era italiana…”. Nella miniera Bois de Crazier, a Marcinelle, morirono in 262 quell’8 Agosto del 1956. Monongah con i suoi mille morti rappresenta oggi l’icona del sacrificio dei nostri lavoratori costretti ad emigrare per poter sopravvivere. Il merito di aver riportato alla luce questa triste pagina di storia italiana è del settimanale “La Gente d’Italia” e del volume “Monongah!” di Luigi Rossi, basato su diversi elementi archivistici tratti da carte ed appunti di don Giuseppe d’Andrea, sacerdote scalabriniano originario con il fratello di San Rocco di Premia, che all’epoca seguiva la colonia italiana di Monongah. È un’opera singolare che segue il cammino della speranza di alcune centinaia di emigranti dell’Italia centrale e meridionale, capitati sui monti Appalachi, regione ricca d’antracite e morte. Monongah, con i segni caratteristici rosso sangue, è un nome che ha in sé qualcosa di magico e maledetto. È un mosaico di volti, di occhi spalancati sulle occhiaie scure d’una miniera carbonifera esplosa, sulle rozze bare, su un cielo grigio, su minatori che sembrano spettri. Volti e occhi di gnomi (i veri Hobbit della Contea che hanno plasmato la fortuna di molti in America) italiani del primo Novecento che si calavano nelle viscere del West Virginia e della Pennsylvania per portare il pane a casa. Ma anche in Illinois, Alabama, Colorado, Wyoming, Utah, Ohio e Kentucky. Monongah fu il cammino della speranza di centinaia di emigranti europei italiani. L’opera, nata e sviluppatasi a partire dal 2003, prima come racconto pubblicato nel 2005 e poi completata da elementi archivistici e storici, è uno dei ritratti più veri e toccanti dell’Altra Italia, quella che, superato l’Atlantico, si lasciò dietro per sempre una Patria matrigna. Nata dall’esemplare servizio del quotidiano “La Gente d’Italia” di Miami che nel 2003 denunciò la dismemoria di una delle maggiori tragedie della storia dell’emigrazione italiana, il volume registra i fatti per quel che sono. Le cifre ufficiali delle 362 vittime, secondo il Monongah Mines Relief Committee, di nazionalità americana, parlano di minatori di colore, di nazionalità polacca, turca, slava, russa, ungherese, irlandese, lituana e scozzese, e di 171 italiani provenienti da Molise, Puglia, Calabria, Abruzzo, Basilicata, Campania e Veneto. E di un piemontese, originario di San Rocco di Premia, Vittore d’Andrea. I corpi recuperati riposano sulla collinetta del Calvario, dimenticati per quasi un secolo a Muh-nahn-guh che nella lingua dei Nativi Americani Seneca significa “fiume dalle acque ondulate”. Degli attimi che seguirono quella tragedia restano moltissime fotografie in bianconero o in un tenero seppia, scattate da fotografi che immediatamente le trasformarono in cartoline molto richieste pronte a invadere l’America del disinganno alla vigilia di Natale. “Monongah!” segue la colonia di minatori italiani passo passo. Sull’Oceano, nelle gallerie e “al giorno”, grazie a diversi documenti rintracciati dall’autore nel Center for Migration Studies di New York e riferibili alla mano ed alla penna di don Giuseppe d’Andrea che operò nel centro minerario appalachiano per una decina d’anni, fratello di Vittore. Il Sindaco del Comune di Premia, Elio Martinetti, scrisse nella presentazione del volume: «Il centenario del dramma di Monongah ci offre il modo di ricordare questi nostri due concittadini, insieme alla comunità italiana e alle sue vittime. Senza dimenticare tutti coloro che, sul finire del 1800 e nei primi decenni del 1900, abbandonarono la Valle Antigorio per i Paesi transoceanici. Abbiamo scelto di ricordarli con un’opera di narrativa, basata su elementi storici, corredata da diverso materiale fotografico. Pagine che coinvolgeranno, non solo emotivamente, chi si avvicina a Monongah ricordando idealmente tanti nostri concittadini emigrati Oltreoceano». Luigi Rossi, grazie al genere “narrativa”, permette di far vivere ai cultori della memoria della tragedia di Monongah un’avventura oggi semplicemente impossibile e incredibile. Ma vera. Per partecipare a momenti dedicati alla religione, all’organizzazione sindacale, all’apprendimento della lingua americana o alla nascita della banda musicale “Giuseppe Verdi”. Sì perché su Monongah si sparsero musica e suoni prodotti da una banda musicale tutta italiana. Ai dolori ed alle gioie di questa comunità, seguono le speranze e le illusioni. Tra le pagine si rinvengono personaggi come Carlo (Tresca), Arturo (Giovannitti), Joe (Hill) o Mother Jones. O rimandi a quegli italo-americani che credevano nei movimenti sindacali, nell’unione e nella riscossa sociale. Accenni a un’Italia che prese coscienza di sé al di là dell’Oceano con incontri, giornali e scioperi. Come quello di Lawrence (1912) o a Ludlow (1914) dove i miliziani spararono sugli scioperanti, uccidendo anche donne e bambini. Un movimento che ci donerà figure come Sacco e Vanzetti (oggi anche in pellicola) e che è alle radici dell’America dei diritti civili e dell’uguaglianza, della pace sociale, della giustizia, dell’impresa e della libertà. La nascita e lo sviluppo dell‘associazionismo, la crescita del sindacalismo, le lotte politiche a difesa dei propri diritti che abbracciano l’orario di lavoro, l’igiene, il vitto, l’opposizione a quel capitalismo selvaggio che sta avviando la borghesia europea alla catastrofe della Prima Guerra Mondiale (1914-18) subito dopo la tragedia del Titanic dell’Aprile 1912. Nell’epilogo di “Monongah!” il giovane narratore, originario di San Giovanni in Fiore, rimanda a chi colse la tragedia dell’emigrazione come un momento di riscatto e di rinascita. Dove la nuova lingua è la chiave per una nuova vita in un Nuovo Mondo, quando dichiara: “I am an American”. È soprattutto il dolore a crescere come cittadinanza. Proprio come successe a Pascal d’Angelo. “Monongah!” si può considerare il completamento di una trilogia che vede l’emigrazione dal Piemonte orientale riversarsi in Europa e nelle Americhe. L’emigrazione proveniente dall’Italia settentrionale si amalgama Oltreoceano con quella dell’Italia meridionale, quasi a formare, al di fuori dei confini nazionali, una vera altra Nazione italiana che si conoscerà definitivamente in patria, grazie alla chiamata alle armi obbligatoria, con il primo conflitto mondiale. Tra il 1901 e il 1915 furono 27 milioni gli italiani che emigrarono e ben 3 milioni e mezzo si diressero verso l’America del Nord, provenienti non solo dalle regioni dell’Italia meridionale e centrale, ma anche da Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli. Un’Italia disperata e stracciona che, per quasi un secolo, mantenne in vita con le sue rimesse, la dissestata economia del Paese d’origine. Questa storia ricorda alle nuove generazioni la ricchezza storica, umana e culturale dell’Altra Italia che avrebbero fatto grandi la patria e gli Usa. Una ricchezza che si dipana lungo i secoli e i millenni, dimenticata in Italia e raramente ripresa e riproposta, se non a chiacchiere dagli attuali mediocri politicanti. Un’Altra Italia ancora mancante di un archivio centrale, di un museo nazionale, di corsi universitari che la ricolleghino alla storia del Paese d’origine. Di iniziative dedicate a un fenomeno sociologico, culturale ed economico cui i libri di storia della scuola pubblica dell’obbligo dedicano una o due paginette. Luigi Rossi ricorda che “le vittime di Monongah appartengono alla generazione dei dago, guinea, wop, chianti che generò, allattò e crebbe personaggi come Pietro Di Donato, Pascal D’Angelo e John Fante. E chi, con un cognome italico simile a un marchio, si troverà a vivere e operare in letteratura, cinema, teatro, imprenditoria, politica, altiforni, tratte ferroviarie, cantieri edili, Nasa. Vivendo con dignità e orgoglio in quel Nuovo Mondo che sostituiva per sempre una Patria matrigna”. Della nostra epopea di emigranti non sappiamo molto. Dei successi e dei drammi che l’hanno costellata sappiamo poco. La nostra cinematografia e la nostra letteratura, purtroppo, non aiutano. E quel poco è spesso affogato nella retorica patriottarda del bravo italiano che sgobba e si fa voler bene da tutti, quando non è mafioso. Non sempre, anzi quasi mai, è stato così. La storia dell’emigrazione italiana è piuttosto intrisa di dolore. Monongah è un dramma seguito qualche anno dopo, nel 1914, dal massacro di Ludlow in Colorado: due tragedie, ma potremmo citarne altre cento. Ricordare, confrontarsi con la nostra Storia di popolo italiano costretto a cercare fortuna all’estero, è utile per guardarsi con un occhio diverso, prima che sia troppo tardi, prima dell’irreparabile, prima del punto di non ritorno. E guardare con un pizzico di compassione in più la sofferenza di chi oggi bussa ai nostri confini per cercare un avvenire migliore. La lettura di questa Storia è certamente il primo passo nell’approfondimento del fenomeno italiano dell’emigrazione. La memoria rende onore a quei nostri nonni dimenticati in terra Americana e nel fondo della nostra memoria collettiva. Quel 6 Dicembre 1907 la galleria numero 8 si trovava sulla sponda occidentale del fiume West Fork. La numero 6 sulla sponda opposta. Le due gallerie erano collegate da un tunnel sotterraneo e, in superficie, da un ponte e da un impianto di scarico del minerale. La vena di carbone Pittsburgh giaceva a meno di 70 metri dalla cima della collina su cui si apriva l’entrata principale della miniera ed a circa 10 metri sotto il livello del fiume. Il boato e le vibrazioni del terreno furono avvertite a 30 Km di distanza. Gli effetti più devastanti si ebbero nella galleria numero 8 dove un frammento di oltre 50 Kg del tetto in cemento del locale motori fu scagliato sulla riva opposta del West Fork, a oltre 150 metri di distanza. Stessa sorte toccò ad una grossa parte dell’aeratore che venne scaraventata sulla sponda orientale del fiume, piantandosi nel fango. Testimoni oculari riferirono che la vampata proveniente dal sottosuolo raggiunse i trenta metri d’altezza. L’intera collina su cui si apriva l’entrata della miniera fu violentemente scossa e dal West Fork si sollevò una gigantesca ondata che raggiunse la linea ferroviaria che correva lungo il corso d’acqua. I primi a precipitarsi verso il luogo della sciagura furono i parenti dei minatori, che abitavano nelle tipiche casette in legno situate sulla riva opposta del West Fork, e i minatori del turno successivo di lavoro. Nei pressi della galleria numero 8, tutti gli edifici furono completamente distrutti e i suoi tre ingressi furono ostruiti dai detriti. L’enorme ventilatore situato vicino all’entrata della miniera fu strappato ed al posto del locale di aerazione non rimase altro che un cumulo di mattoni e metallo accartocciato. Un’ampia e densa nube di fumo acre e polvere fuoriuscì dalla miniera e ricoprì con una spessa coltre le acque del fiume. La notizia del disastro si diffuse rapidamente e in meno di un’ora alcuni funzionari della compagnia mineraria giunsero da Fairmont. I lavoratori delle miniere vicine, per solidarietà, si fermarono ed affluirono per prestare il loro aiuto. Fu diramato un allarme generale per i medici e presto dottori, alcuni giornalisti ed altri ufficiali si trovarono sul luogo della sciagura. Ai soccorritori fu subito evidente che sarebbero occorse diverse ore di lavoro solo per poter rendere praticabile l’entrata della galleria. Furono create due unità di soccorso, ciascuna di trenta elementi. I soccorritori non poterono resistere all’interno della miniera per più di 15 minuti consecutivi a causa della mancanza di adeguati respiratori. Tre di essi perirono durante il loro intervento e i loro nomi furono iscritti nell’elenco delle vittime del disastro. Dalla vicina Shinnston fu portato un ventilatore che venne collocato all’ingresso principale: serviva a immettere aria all’interno della miniera per gli eventuali sopravvissuti. Alle nove di sera le squadre di soccorso erano riuscite ad avanzare di soli 200 metri all’interno della galleria. Contemporaneamente, a circa tre chilometri dall’ingresso principale, si tentò di aprire un tunnel di aerazione. L’ingresso della galleria numero 6 rimase inaccessibile per molte ore dopo la deflagrazione. Le carcasse di oltre 600 carrelli bloccarono il passaggio a 100 metri dall’ingresso. Una dozzina di medici sostarono all’entrata della miniera ma, tranne poche eccezioni, il loro intervento sfortunatamente si rivelò inutile. Nel primo pomeriggio parecchi cadaveri furono ritrovati a diverse centinaia di metri dagli ingressi ma non fu possibile riportarli in superficie che alle prime ore del mattino successivo. La maggior parte dei corpi delle vittime era carbonizzata e orribilmente straziata. Per diversi giorni madri, mogli, fidanzate e sorelle restarono in angosciosa attesa dinanzi all’ingresso dell’impianto, osservando, strillando e piangendo. “Alcune pregavano, altre cantavano ed altre ancora – nella disperazione – ridevano istericamente”. All’epoca della tragedia di Monongah la legislazione sulla sicurezza nelle miniere degli Stati Uniti era assai carente, e tale rimase per lungo tempo. Per comprendere quanto fossero arretrate le misure di sicurezza nelle miniere è sufficiente pensare che sino a pochi anni prima della strage del 1907 l’unico dispositivo adottato dai minatori per rilevare le spesso letali sacche di gas (grisù) consisteva nel condurre con sé nei pozzi alcuni uccellini in gabbia. In caso di presenza di gas gli animali, a causa della loro gracilità, sarebbero rapidamente morti, segnalando così ai lavoratori l’imminente pericolo. Per i minatori era assai difficile migliorare le tremende condizioni in cui erano costretti a lavorare: tre italiani che nel 1879 a Eureka, in Nevada, avevano promosso uno sciopero per cambiarle, furono barbaramente linciati. I provvedimenti legislativi in materia di sicurezza vennero adottati solo successivamente e in conseguenza al clamore suscitato nell’opinione pubblica dagli incidenti minerari più gravi ed eclatanti. Così avvenne anche nel caso dell’ecatombe di Monongah. Il rapporto della commissione d’inchiesta sull’incidente, sottolineando la persistenza di problemi irrisolti riguardanti le esplosioni nelle miniere di carbone, raccomandava esplicitamente al Congresso degli Stati Uniti la creazione di un Ufficio di indagini. Nel 1910, sulla spinta del dramma di Monongah, il Congresso statunitense istituì il Bureau of Mines, l’Ufficio delle Miniere, l’Ente del Ministero dell’Interno creato per condurre ricerche e ridurre il numero degli incidenti. Il Bureau of Mines fu investito dal Congresso di poteri assai limitati e si dovette attendere il 1941 e una lunga serie di tragedie affinché gli fossero riconosciute autorità ispettive oltre che di ricerca. Per indagare sulla sciagura del 6 Dicembre 1907, la Contea di Marion istituì una commissione d’inchiesta, le cui conclusioni furono rese pubbliche nel pomeriggio del 16 Gennaio 1908. Nella loro relazione il medico legale E.S. Amos e i suoi collaboratori confermarono le ipotesi in precedenza espresse sia nel rapporto degli ispettori minerari dello Stato dell’Ohio sia dal capo ispettore minerario James W. Paul, di Charleston, West Virginia. Il disastro era da attribuire ad un’esplosione, la cui origine rimaneva ignota e controversa, verificatasi nella galleria numero 8. Il rapporto non individuava alcun colpevole. Alcuni addossarono la colpa dell’esplosione ad un’imprudenza commessa da uno dei numerosi “raccoglitori” d’ardesia (resa famosa nel 2012 dai dispositivi digitali neri della Apple Inc. su iPhone e iPad) o “ragazzi dell’interruttore”. Questi erano giovanissimi aiutanti anche di dieci, quattordici anni che, grazie al Buddy System, non erano registrati in alcun elenco sebbene lavorassero regolarmente assieme ai minatori più grandi. Secondo altre ricerche, la deflagrazione sarebbe stata innescata dalle scintille provenienti da un cavo elettrico tranciato da un carrello andato fuori controllo. Secondo un’altra ipotesi il disastro sarebbe stato provocato dall’esplosione del gas accumulatosi nelle galleria nei due giorni precedenti, durante i quali le miniere rimasero chiuse e la compagnia mineraria, per risparmiare energia, tenne spento l’impianto di ventilazione. Mercoledì 4 e Giovedì 5 Dicembre 1907 si erano celebrati rispettivamente Santa Barbara, patrona dei minatori, e San Nicola vescovo, assai venerato in Italia meridionale come pure negli Stati Uniti (è il famoso Santa Claus di rosso vestito) e in Europa. San Nicola cade in effetti il giorno 6 Dicembre, ma la ricorrenza venne anticipata al giorno precedente. La maggior parte dei minatori provenivano dall’Europa dell’est, dall’Italia del sud e molti erano pure gli americani di colore. Questa ipotesi spiegherebbe il rapido oblio che seguì l’incidente. In effetti se la responsabilità del disastro fosse stata attribuita alla Fairmont Coal Company, la potente e influente compagnia mineraria avrebbe dovuto far fronte a numerosissimi e considerevoli indennizzi ai parenti delle vittime, con pesantissimi risvolti economici a suo carico. All’epoca la compagnia avrebbe avuto ogni interesse ad insabbiare l’incidente il più rapidamente possibile. L’estrema violenza della deflagrazione, tuttavia, sembra far propendere per l’ipotesi secondo cui la sciagura sia stata provocata da un’esplosione di grisù, il pericoloso gas delle miniere. Lo scoppio del grisù è infatti caratterizzato dalla rapidissima liberazione di notevoli quantità di energia con gravissime conseguenze. Come accade oggi in Cina, nelle miniere carbonifere e nel silenzio dei media. La pericolosità delle polveri di carbone nelle miniere deriva da una delle proprietà dei solidi coinvolti nelle reazioni chimiche. Nei solidi solo le molecole e gli atomi che si trovano in superficie sono esposti all’ambiente di reazione. Quanto più le particelle solide sono piccole, tanto maggiore è la loro superficie esposta. E quanto quest’ultima è maggiore tanto più è veloce la reazione. Ciò spiega il motivo per cui le polveri sottili di carbone possono portare a una vera e propria esplosione allo scoccare di una scintilla. Infatti, la reazione del carbonio con l’ossigeno dell’aria provoca lo sviluppo di calore. Se il carbonio (solido) è presente nelle miniere sotto forma di polvere, la sua reazione con l’ossigeno contenuto nell’aria può essere assai veloce: in tal caso lo sviluppo di calore può essere estremamente rapido, tanto da provocare un’esplosione. È questo il motivo per cui un ceppo di legno brucia assai più lentamente di tanti piccoli ramoscelli e la combustione di polvere di legno è ancora più rapida. Come previsto dalla Commissione del coroner Amos, l’assenza di sopravvissuti rese estremamente difficile, se non pressoché impossibile, la ricostruzione dell’esatta dinamica della catastrofe. Le cause reali dell’incidente rimasero sconosciute. La camera ardente fu in un primo tempo allestita nell’edificio della First National Bank di Monongah. Poi, per mancanza di spazio, centinaia di bare furono allineate di fronte all’edificio, nel corso principale della città. I corpi delle vittime erano tanto straziati che nacquero discussioni sulla loro identificazione e più di una volta una stessa salma fu reclamata da famiglie diverse che ritenevano di riconoscere nel cadavere il loro congiunto. Molti minatori furono ritrovati con i risparmi cuciti nelle cinture e una delle preoccupazioni dei responsabili dei soccorsi divenne quella di evitare atti di sciacallaggio. Le bare vennero dirette verso il cimitero protestante o quello cattolico, a seconda della fede del defunto. Per la prevalenza di vittime d’origine italiana, ungherese e polacca presto il cimitero cattolico si riempì. La Fairmont Coal Company mise a disposizione un acro di terreno della zona mineraria, sul fianco della brulla collina, ove sorse un nuovo cimitero. File di bare aperte furono sepolte nel freddo suolo della West Virginia. I corpi di 135 vittime non identificate vennero sepolti in una fossa comune. Le rovine delle miniere furono murate e molte delle nuove abitazioni dei minatori furono costruite sul versante della collina sopra la miniera. La relazione della commissione d’indagine della Contea di Marion ebbe importanti e gravi conseguenze umane e legali. Il rapporto, affermando l’impossibilità di stabilire le cause del disastro, di fatto scagionò la Fairmont Coal Company da qualunque responsabilità nell’incidente. Venne così di fatto preclusa la possibilità per i parenti delle vittime di ottenere un risarcimento dalla proprietà dell’impianto in sede giudiziaria. La sciagura ebbe un’enorme eco nell’opinione pubblica degli Stati Uniti d’America. Il più grave disastro minerario sino ad allora avvenuto negli Usa era stato quello di Fayetteville, sempre in West Virginia, il 29 Gennaio dell’anno prima, il 1906, in cui avevano perso la vita ottanta minatori. Alle 250 vedove e ai mille orfani dei minatori scomparsi non restò che il soccorso assistenziale della Monongah Mines Relief Committee. Il 27 Dicembre 1907 più di duemila quotidiani statunitensi promossero una raccolta di fondi che fruttò circa 150mila dollari poi devoluti come sussidio agli sfortunati familiari dei minatori scomparsi. Il magnate statunitense Andrew Carnegie contribuì generosamente alla raccolta e 17.500 dollari furono elargiti dalla Fairmont Coal Company che successivamente distribuì un’ulteriore somma. Fu stabilito che ad ogni vedova fossero attribuiti 200 dollari e 155 ad ogni orfano minore di 16 anni. Non risulta che il Governo italiano abbia erogato fondi ai parenti delle vittime. Le 171 vittime ufficiali italiane erano emigrati da località molisane (un centinaio), calabresi (una quarantina) e abruzzesi (una trentina). L’emigrazione di lavoratori italiani verso gli Stati Uniti iniziò sostanzialmente con l’abolizione dello schiavismo negli Stati Uniti grazie al Presidente conservatore repubblicano Abramo Lincoln (immortalato nella celebre pellicola di S. Spielberg) stabilita a livello federale nel 1865 con il XIII Emendamento della Costituzione, e il conseguente rifiuto degli uomini di colore di sopportare condizioni di lavoro, economiche ed ambientali che furono invece accettate dagli “nuovi” Italiani appena arrivati dal depredato Meridione d’Italia. Emblematico fu quanto avvenne in Louisiana, ove gli emigranti italiani presero il posto degli schiavi di colore. In Louisiana i “neri”, ormai affrancati dall’abolizione della schiavitù, abbandonarono in massa le piantagioni. I locali proprietari reagirono alla carenza di manodopera e cominciarono a importare lavoratori dalla Scandinavia e dalla Cina. Le condizioni ambientali della Louisiana erano, però, tanto avverse che il tentativo fallì. I possidenti iniziarono allora a importare manodopera dalla Spagna e dal Portogallo, ma ben presto i governi di questi Paesi intervennero ufficialmente, bloccarono l’emigrazione e denunciarono le intollerabili condizioni di lavoro a cui i loro cittadini erano sottoposti. Alla fine i proprietari terrieri della Louisiana rivolsero le loro richieste al Governo italiano che consentì che gli emigranti italiani, soprattutto meridionali, sostituissero gli schiavi “neri”, in particolare nelle piantagioni di canna da zucchero attorno a New Orleans. Il numero dei caduti italiani fa della tragedia mineraria di Monongah la più grave mai abbattutesi sulla comunità del Belpaese, nel pur tristemente assai più noto disastro di Marcinelle ove perirono 136 italiani. In un primo momento, secondo il rapporto della citata Commissione Amos, sembrava che le vittime di Monongah fossero “circa 350” ma già nei giorni immediatamente successivi alcuni resoconti giornalistici parlarono di 425 morti. Leo L. Malone, General Manager delle due gallerie, riferì alla stampa che la mattina della sciagura all’ingresso nell’impianto erano stati registrati 478 uomini e che comunque tale numero non includeva circa 100 altri lavoratori (tra cui conducenti di muli, addetti alle pompe, “raccoglitori” ragazzini) non soggetti alla registrazione. In un quotidiano della capitale Washington una corrispondenza datata 9 Marzo 1908 riferì di 956 vittime. La cifra di 362 vittime, desunta dai rapporti redatti dalla Monongah Mines Relief Committee, la commissione che provvide all’assistenza dei parenti dei minatori scomparsi, divenne così quella ufficiale. Il numero e l’identità della maggior parte degli scomparsi sono rimasti ignoti a causa della presenza di moltissimi minatori che all’ingresso in miniera, in base al citato Buddy System, non venivano registrati negli elenchi della Fairmont Coal Company. L’effettiva entità dell’ecatombe fu per lungo tempo assai sottostimata ma nel 1964 il reverendo Everett Francis Briggs (“La conservazione della memoria”) in una pubblicazione affermò che in base alle sue ricerche il numero dei minatori deceduti nella sciagura fosse assai maggiore di quello ufficialmente diffuso sino ad allora e dovesse invece essere portato a oltre 500. Questa stima pare corroborata dalle ricerche di David McAteer del Dipartimento Mine Safety and Health del Ministero del Lavoro degli Stati Uniti durante l’Amministrazione Clinton. Il numero dei sopravvissuti, come quello dei morti, non è ancora stato definito e probabilmente non lo sarà mai. Secondo alcune ricostruzioni nessuno fra quanti erano presenti nella miniera si salvò. Quattro minatori sarebbero scampati alla tragedia e con le loro testimonianze di fronte alla commissione d’inchiesta sulla sciagura avrebbero contribuito a scagionare la Compagnia mineraria dalla responsabilità del disastro. La conservazione e la diffusione della memoria della sciagura e la definizione delle sue reali dimensioni vanno ascritte principalmente al reverendo Everett Francis Briggs, sacerdote cattolico di Monongah che per oltre mezzo secolo, a partire dal suo arrivo a Mononagh nel 1956, assistette i parenti dei minatori scomparsi e si prodigò per dare un nome alle vittime, in gran parte italiane, molte delle quali restano tuttora ignote. Nel 1961 fu costruita la casa di riposo Santa Barbara’s Memorial Nursing Home, fondata da Briggs e dedicata ai minatori scomparsi nella sciagura. Di fronte ad essa fu innalzata una statua intitolata a Santa Barbara che commemora sia le vittime identificate, di cui viene riportato l’elenco, sia quelle rimaste senza nome. Nel 2007 è stato eretto, per la prima volta negli Stati Uniti, un monumento dedicato alle vedove ed agli orfani di tutti i minatori morti in incidenti sul lavoro. La statua “All’Eroina di Monongah” in marmo di Carrara, è stata collocata presso il municipio della cittadina. Recentemente alcune testate giornalistiche destinate agli Italiani all’estero, fra cui il quotidiano “La Gente d’Italia” e il settimanale “Oggi7”, hanno meritoriamente contribuito a riportare alla luce questa triste pagina di Storia italiana del lavoro ed a diffondere i risultati delle ricerche sulla catastrofe di Monongah. Gli studi hanno confermato l’ipotesi che Briggs avanzò nel 1964: il numero delle vittime sarebbe assai più alto di quello ufficiale e i soli minatori italiani morti sarebbero più di 500. D’altra parte nell’Universo non esiste l’impossibile, solo l’altamente improbabile. Un impressionante monumento naturale è rappresentato dalla cosiddetta Collina di Carbone, un cumulo di terra creato da Caterina Davia, madre di quattro figli e vedova di un minatore rimasto seppellito nell’ecatombe della miniera. La donna, sconvolta dalla scomparsa del marito, ogni giorno per ventinove anni, si sarebbe recata alla miniera, distante tre chilometri da casa sua, per prelevare un sacco di carbone che avrebbe poi svuotato accanto alla propria casa. Riteneva che in tal modo avrebbe alleviato il peso del terreno che gravava sul marito lì sotto sepolto. Monongah con i suoi morti rappresenta oggi l’icona del sacrificio dei lavoratori italiani costretti ad emigrare per poter sopravvivere. È stato realizzato il documentario “Monongah, Marcinelle americana” che ha attinto immagini storiche fornite dal Museo dell’Immigrazione di Ellis Island di New York, e da materiale concesso dal Museo dell’Emigrazione di Gualdo Tadino, dall’Istituto storico “Ferruccio Parri” di Bologna e dal Museo etnografico di Bomba. In Calabria la tragedia ebbe un tale effetto sulla comunità che ancor oggi, quando si vuole indicare un avvenimento particolarmente drammatico, si usa dire che “è una minonga”. A San Giovanni in Fiore tuttora si utilizza l’espressione “non vado mica a minonga” quando si vuole intendere che non si ha intenzione di scomparire senza lasciare traccia. Il 1° Maggio 2009 il Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, ha conferito la Stella al merito del lavoro alla memoria dei lavoratori deceduti il 6 Dicembre 1907 nella miniera di carbone di Monongah. Nel Dicembre del 2007, in occasione del centenario della tragedia, la Regione Molise, che fu la più colpita, ha donato alla città di Monongah una campana commemorativa fatta fondere dalla Pontificia Fonderia Marinelli di Agnone (Isernia). Una lapide a ricordo della catastrofe, donata dal Governo italiano, è stata installata nei pressi del cimitero. Onoriamo l’emigrazione sepolta e tutte le vittime di ogni tempo. Anche le più recenti nel Mar Mediterraneo e in Europa. Delle quali l’Italia chiede perdono. In memoria di Nelson Mandela

Nicola Facciolini

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