Grillo, la mafia e scritture da rileggere

Per buona pace e totale disdoro di Grillo, la mafia non è mai stata né proba né buona, in nessun momento della sua insanguinata vicenda. La mafia è il prodotto perverso di un mondo, quello siciliano, che Moravia definì “anti-illuministico”, in cui la ragione non ha mai ragione e tutto è lasciato all’istinto e alla […]

mafiaPer buona pace e totale disdoro di Grillo, la mafia non è mai stata né proba né buona, in nessun momento della sua insanguinata vicenda.
La mafia è il prodotto perverso di un mondo, quello siciliano, che Moravia definì “anti-illuministico”, in cui la ragione non ha mai ragione e tutto è lasciato all’istinto e alla sopraffazione.
Per dire questo potrei citare naturalmente Sciascia o, per venire a tempi e modi più prossimo a noi, Un fatto umano, graphic novel edita da Einaudi Stile libero, messa in scena pochi mesi fa da tre giovani disegnatori, fondatori dello studio grafico Mon Ame: Manfredi Giffone, Fabrizio Longo e Alessandro Parodi, un’opera lunga sei anni di lavoro che rappresenta, con tavole acquerellate di drammatica bellezza, l’assalto frontale che la mafia portò allo Stato tra gli anni Settanta e i Novanta e la lotta che ad essa opposero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e in cui Salvatore Riina è un cinghiale, Tommaso Buscetta un pappagallo, Tano Badalamenti una scimmia, Michele Sindona una gazza ladra.
Oppure potrei ricordare Giuseppe Fava detto Pippo,scrittore, giornalista, drammaturgo, saggista e sceneggiatore, ucciso da Cosa Nostra nel 1984, il secondo intellettuale ad essere trucidato dalla mafia dopo Giuseppe Impastato e che, come questo, mafia e giustezza non possono mai essere declinate assieme o stare nello stesso periodo, nella stessa frase.
Voglio invece parlare di Domenico Campana, autore calabrese completamente dimenticato, come dimenticata è la sua trilogia dolente e drammatica , con tre generazioni di investigatori per tre romanzi: “L’ isola delle femmine”, “I giardini della favorita” e, ultimo, “Tu notte conducevi”, pubblicati da Bompiani negli anni novanta, una trilogia sulla famiglia “Tindari”, gente dello Stato in Sicilia, che da fine Ottocento ai nostri giorni combatte la mafia e ne viene sconfitta, perché questa malapianta è ben radicata in quella società e muta solo negli aspetti e nelle forme, trovando nutrimento in quello stato d’animo che è proprio dei siciliani: ricercare una giustizia brutale ed atavica, efficace, decisa e senza cavilli.
Si parte nel 1992 con “L’isola delle femmine”, , una detective-story ottocentesca con enigmi insoluti e morti ammazzati, con un fedele servitore dello stato che vaga senza vacillare in un universo umbratico ed incomprensibile, con straordinarie figure di principi e donne-sirena, romanzo sulla nemesi di quell’ipotetica giustizia che, attraverso determinati eventi, colpisce nei figli i soprusi perpetrati dai padri e che richiama più Turgenev e Gaetano Savatteri, che Sciascia.
In verità, per chi è appena un poco dentro la narrativa siciliana, vi si colgono passi di Tomasi di Lampedusa e di Bufalino, ma, soprattutto, di Ezio d’Errico, primo giallista di professione e razza della Trinacria, autore di una ventina di romanzi polizieschi, di racconti, radiodrammi e opere teatrali, tra i primi pittori astrattisti in Italia, nato ad Agrigento nel 1892 da una famiglia metà lombarda e metà pugliese, autore nebbioso, melanconico e introspettivo, che ricorda Simenon, e come lui è autunnale, crepuscolare e senza uscita.
Con questi precedenti letterari nella penna e nel cuore, Campana descrive e condanna la mafia e condanna lo stato che lascia i suoi eroi completamente abbandonati ed esposti, disarmanti in una guerra impari e che non può essere vinta.
Un anno dopo, nel 1993, il secondo capitolo campaniano: “I giardini della favorita”, che articola e completa il quadro e la sconfitta e sembra dimostrare che la lotta onesta di pochi non può farcela contro l’indifferenza e la complicità di tutti.
Fino al 1994, fino al terzo capitolo ed al capolavoro: “Tu notte conducevi”, con per protagonista una donna: Elisabetta, nipote del primo investigatore Michele, quello che nell’Isola delle Femmine aveva desistito, molto più coraggiosa di lui nell’andare fino in fondo, come sanno fare molto spesso certe donne, in Sicilia e sotto altri difficili cieli.
Una donna protagonista e’ rara nel genere poliziesco, soprattutto è raro farne un essere e non solo una macchietta.
Tolstoj diceva che per valutare uno scrittore bisogna vederlo alle prese con i personaggi femminili; una doppia sfida che Campana raccoglie e vince, perché, a differenze degli uomini giusti ma perdenti degli altri romanzi che buttano via tutto convinti che è tutto inutile, questa sua donna, sfaccettata e vera, usa quelle prove per arrivare fino in fondo.
Ho voluto ricordare il caso dei tre libri di Domenico Campana, dopo le sciocchezze irritanti di Grillo, non solo per il valore letterario e morale, ma anche per la particolare posizione che l’autore assume nei confronti della cosiddetta antimafia.
Di professionisti dell’antimafia, detestabili come la mafia stessa, scrisse Sciascia, che aveva una formazione politica, era un grande scrittore civile ma non un narratore interessato ai personaggi.
Campana invece, come Vittorini, è un narratore che crea protagonisti diversi dal giudice Riccobono, che e’ un oscuro burocrate che improvvisamente giunge alla gloria perche’ gli capita tra le mani un processo di mafia.
Com’è noto nell’articolo sui “professionisti dell’ antimafia” scrive: “Nulla vale piu’ in Sicilia per far carriera che prender parte ai processi di stampo mafioso”.
Per Campana, invece, anche se il problema esiste e continua ed esistere, il dibattito fra chi ritiene sia meglio usare le forze che gia’ ci sono, ma in modo diverso, e chi invece preferisce pensare a interventi esterni, è specioso e che la questione di fondo resta, invece, l’animo siciliano e i fiancheggiatori che affermano che tale atavicità è una prerogativa giusta e che non debba essere cancellata.
Come rileva Ludovica Ottaviano, grande studiosa di Sciascia, per trovare tracce significative della mafia nelle opere letterarie bisogna risalire alla commedia I mafiusi de le Vicaria (1863) di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, in cui per la prima volta venne impiegato nel titolo di un testo teatrale il termine mafia, o, più precisamente, quello di mafioso. Nella commedia di Rizzotto e Mosca occupa un ruolo di primo piano la presenza di un personaggio forte: un illustre prigioniero politico, l’Incognito, sotto le cui spoglie si nasconde forse Francesco Crispi. Risulterà essere uno dei capi dell’organizzazione camorrista. Sarà proprio lui, nell’ultimo atto, a reintegrare il capo camorrista, lo “zu Iachinu”, in una società ormai liberata dai Borboni, che, in virtù del nuovo e vero ordine di giustizia, non ha più bisogno dell’intermediazione di quella “associazione malandrinesca”, che invece gli amici di Iachinu, con sua grande disapprovazione, vorrebbero ancora tenere in vita sotto i sabauda.
Questa relazione positiva mafia e libertà è ancora strisciante ed ancora e troppo spesso si sentono persone (anche più attente di Grillo) plaudire ad una sorta di mafioso aureolato, diverso dal delinquente comune e che anzi opera virtuosamente contro chi detiene il potere per difendere gli oppressi.
Lo stesso Sciascia ne “il giorno della civetta” e persino Camilleri ne “La gita a tindari”, sembrano accettare l’idea che la mafia è nata come sistema protezionistico creato dai cittadini per difendere se stessi e che solo la mafia odierna sia una degenerazione di quella tradizionale.
Però sappiamo che non è affatto così e che già due secoli fa la mafia uccideva donne e bambini e operai se pagata dal potere costituito per fare questo.
Ora, ci dice Camilleri,che analizzare la mafia è compito degli storici, dei sociologi; non è compito di narratori o romanzieri, perché inevitabilmente finiscono con l’alterare la realtà, per ricondurla a parametri narrativi e fantastici loro personali. Se sulla mafia possono esistere depistaggi, probabilmente vengono dai narratori, i quali finiscono per innamorarsi dei loro personaggi. Per esempio Piccola pretura, di Giuseppe Guido Lo Schiavo (romanzo dal quale Pietro Germi trasse il film In nome della legge), magistrato siciliano, ci presenta con una certa simpatia il personaggio di Turi Passallacqua, capo-mafia.
Però nel caso di Domenico Campana non è così ed i mafiosi descritti lati positivi non ne hanno nessuno e sono soltanto delinquenti puri, più o meno organizzati, più o meno intelligenti, con sulle spalle morti e stragi. Questo è il punto di partenza, per una serena valutazione del fenomeno ed è questo che va scritto e detto, senza, liriche o epiche forzature narrative.
Questo deve ricordare ogni uomo civile, soprattutto se ha un ruolo pubblico e non gridare al riconoscimento (come hanno fatto Grillo e la Guzzanti) di diritti identici fra mafiosi riconosciti e il Presidente della Repubblica.
Oltre a ciò, insinuando l’idea di una qualche giustezza della mafia, si continuerà ad ignorare che ci sono ben 333 miliardi provenienti da una “economia malata” che per due terzi vengono dalla mafia che ha quindi tutto l’interesse di conservare la logica del lavoro in nero, facendo diminuire i numeri dell’economia sana e lasciando di conseguenza aumentare il debito pubblico all’impazzata, per impoverire la società nel suo complesso.

Carlo Di Stanislao

3 risposte a “Grillo, la mafia e scritture da rileggere”

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