Pensieri e notazioni per il Nuovo Anno

La trama di questo tempo è intrisa di paura: glaciale, paralizzante, che alimenta egoismi e diffidenze, che non da spazio alla speranza, che impedisce ogni prospettiva, isinuandosi ovunque, nelle pieghe dell’esistenza quotidiana, nelle ferite fisiche e morali che tentiamo di rimarginare, male che aggrava ogni malattia, infermità che alimenta ogni male: l’invidia, la cattiveria, il […]

auguri2015

La trama di questo tempo è intrisa di paura: glaciale, paralizzante, che alimenta egoismi e diffidenze, che non da spazio alla speranza, che impedisce ogni prospettiva, isinuandosi ovunque, nelle pieghe dell’esistenza quotidiana, nelle ferite fisiche e morali che tentiamo di rimarginare, male che aggrava ogni malattia, infermità che alimenta ogni male: l’invidia, la cattiveria, il cinismo. Dalle ricerche dell’antropologia, etologia e neuroscienze, emerge che l’uomo è la sola creatura in grado di dare al proprio mondo un senso e un valore.

A tal proposito non può lasciare indifferenti il risultato, pubblicato a Settembre, dello studio intitolato “Global – Well-Being” (letteralmente “Benessere Globale”) condotto dall’ufficio di ricerca ‘Gallup and Healthways’ e pubblicato anche sul sito http://www.gallup.com/poll/175694/country-varies-greatly-worldwide.aspx, che ha mobilitato 133.000 persone in 135 paesi e si è basata su cinque aree: la sensazione di avere uno scopo nella vita, la costruzione di una vita sociale, finanza, collocamento futuro e non solo lavorativo nella società e salute fisica, con l’Italia, quello che era noto un tempo come Bel Paese, povero ma pieno di gioia di vivere e di ottimismo, in uno degli ultimi posti, con punteggi appena migliori di Siria, Afghanistan, Haiti e Congo e per di più secondo peggior paese per quanto riguarda la considerazione “di trovare un posto nella società”.

Italia senza futuro quindi e senza speranza, nonostante i sogni di Renzi, frantumati non solo da questa ricerca, ma anche dai dati dell’ISTAT che ci dicono, di continuo, che siamo il Paese che ha conosciuto dal 2008 il declino più elevato della situazione sociale di chi lavora: oltre il 12% degli occupati non riesce a vivere del suo stipendio e solo Romania e Grecia fanno peggio (con oltre il 14%) ma la loro situazione era già grave nel 2008.

E per chi parla di “gufi nostrani”, segnaliamo che questi dati sono esterni e vengono dallo studio della commissione Ue sull’occupazione dal titolo: “Employment and Social Developments in Europe Review”, pubblicato già a gennaio 2014 e che, più di recente, sottolineano come il significativo aumento della povertà tra la popolazione in età lavorativa è una delle più tangibili conseguenze della crisi economica, con totale perdita di speranza.

A marzo scorso, il filosofo Tommaso Pellizzari, ha pubblicato per Baldini&Castoldi, un libro molto interessante e curioso: “Movimento per la disperazione, un saggio in forma di romanzo in cui non è importante il racconto, ma il gustoso esperimento formale, non solo perché la forma scelta è la più efficace, se non l’unica, per arrivare dritti al punto, ma anche per la forma grafica che richiama un faldone di un’inchiesta, ricostruito, come una raccolta di articoli, lettere, intercettazioni, appunti, che descrivono il cuore, più che le vicissitudini, dell’immaginario Movimento fondato dal protagonista, l’ex giornalista Michele Rota, che in fondo ha come ideologia la fine di ogni ideologia, e che irrompe sulla scena politica nostrana, in per abbattere l’ultimo fra tutti i tabù: la fede nel nostro domani.

Perché sogni, riforme, ecologia, amore, afferma Rota, non sono altro che fantasmi con cui l’uomo cerca di negare l’unica verità possibile, ovvero che la civiltà è al collasso, e forse, con essa, l’umanità e il mondo intero.

Perciò? Qual è la soluzione? Nessuna; o meglio la più semplice: accettare cioè la nostra disperazione. Accoglierla, riempirsene, e agire con tutto il materialismo del caso. Basta con il culto della famiglia: se un domani non c’è, accettiamo sereni l’incompatibilità eterna tra l’uomo e la donna! Basta con l’animalismo, con la raccolta differenziata, con tutti i vani tentativi di garantirci una sopravvivenza non solo impossibile, ma persino insensata E basta, infine, insiste il Movimento, col più intangibile degli idoli, basta con la sacralità della vita: se siamo soli in mezzo al nulla, che ognuno scelga la propria morte, a piacere. Questo il programma, disperatamente serio. Questo il messaggio su cui impostare il futuro, che durerà molto poco.

Il libro mi ha agghiacciato, ancor più dei dati di Callup and Healthways, perché mi sono accorto che ormai ovunque, anche a fianco a casa mia, saltati via tutti i valori, trionfano movimenti nichilisti e disperati, come ad esempio il Vhemt (peraltro citato nel libro), Movimento per l’estinzione umana volontaria, che da anni, negli Usa, invita a smettere di riprodursi come via di salvezza per il pianeta al collasso.

Lo stesso principio dei Transumanisti estremi attorno a cui persino un provocatore blando come Dan Brown ha fatto ruotare il suo ultimo “Inferno”.

Per reagire a tutto questo partiamo dall’occidente e segnatamente da Kierkegaard che osserva che la disperazione nasce quando ci si pone di fronte a se stessi come valore eterno. Ed è diversa dal dubbio, da cui proviene, con Cartesio, il pensiero moderno. Dice il grande filosofo che:“Il dubbio è la disperazione del pensiero. La disperazione è il dubbio della personalità”.

Ed aggiunge la disperazione stessa è una scelta, perché mentre si può dubitare senza scegliere il dubbio, non si può disperare senza scegliere la disperazione.

E mentre si dispera, si sceglie di nuovo: si sceglie se stessi, non nella propria immediatezza, non come questo individuo casuale, ma si sceglie se stessi nel proprio eterno valore. Il valore del singolo nel contiuum della umanità, quindi, ci salva dalla disperazione e dal dubbio. La disperazione è l’assenza di speranza, l’annullamento dell’io, l’unica cosa da cui la medicina non può guarire, in nessuna forma, come ci ricorda nel “Macbath” William Shakespeare.

Allora, contro questo stato di cose, contro ogni evidenza, occorre credere nel singolo e nella capacità di meravigliarci, di portare improvvise novità che vincano la raggelante paura del ristagno, delle perpetuazione e del non cambiamento.

Io sono un medico ed un medico deve primariamente credere e sperare, sperare nonostante tutto e a dispetto di tutto, sperare nell’uomo e nel riscatto tenace che lo svincola dalla paura e dai mali che ne derivano.

Invece, in questa società di disperati, disperata e disperante sembra essere divenuta la medicina, soprattutto in ambiti delicati e vitali, come le malattie neoplastiche o neurodegenerative. Mentre, al contrario, è proprio la speranza a rendere queste patologie vivibili e non disperanti.

Il rapporto conclusivo della ricerca The Goals of Medicine fu pubblicato nel 1997 e accompagnato da un libro di Callahan intitolato False Hopes (false speranze), nel quale venivano segnalate tre caratteristiche negative della medicina occidentale: l’idea di dominare la natura, il proporsi orizzonti illimitati (compreso l’evitare la morte) e la tendenza a espandersi invadendo e medicalizzando ogni aspetto della vita umana. Quasi contemporaneamente venne dato alle stampe da parte di Roy Porter, uno dei più autorevoli storici della medicina, un ampio riepilogo di ciò che egli chiama Medical History of Humanity (Norton, Londra 1997 e New York 1998), al quale egli attribuì come titolo un superlativo: The Greatest Benefit to Mankind: la medicina, quindi, come maggior beneficio offerto dal progresso al bene dell’umanità. Ovviamente, Callahan nel criticare le false speranze non ignora le straordinarie realizzazioni del progresso medico; e Porter, nell’esaltarne i benefici, non trascura i fallimenti e i problemi della medicina passata e presente: ma la contrapposizione dei due titoli è indicativa delle ampie controversie storiche ed etiche insorte nell’ultimo ventennio. Come sappiamo, sotto il profilo storico, la relazione medico-paziente partita dal modello basato su di un paternalismo benefico, è passato per la dottrina dell’autonomia del paziente e per rapporti di tipo contrattualistico (medico/cliente), per giungere alla creazione di rapporti di fiducia fondati sull’empatia.

Sappiamo anche che, se si vuole davvero entrare in un termine che è cifra di ogni buon rapporto, di ogni relazione fertile e descrive una dote umana che come ogni sensibilità va esercitata meticolosamente, tenendola a mente come costante fronte di lavoro su se stessi, strumento che permette una comprensione superiore dell’altro e quindi un riassorbimento naturale di ogni conflitto, di ogni negatività relazionale, e che amplifica quasi sonoramente ogni gioia ed ogni positività.

Perché un medico disperato, frutto di una società e di una cultura disperata, non può che trasmettere disperazione. Come ricordava sul numero del 23 agosto del 2013 del Corriere della Sera Giacomo Schiavi, non basta cambiare il nome alle parole per cambiare la paura e la sfiducia di risultato verso certe malattie. Oriana Fallaci chiama il suo cancro “l’alieno”, ma ne è stato allo stesso modo atterrita.

Di questo dovrebbe primariamente occuparsi una riforma sanitaria che, primariamente prende in carico il benessere dei cittadini e non di cifre, tagli e ridistribuzione di risorse che poi conducono, disperatamente ed ineluttabilmente, ad un carico di lavoro sempre maggiore ed alienante per gli operatori e a una totale insoddisfazione per gli utenti.

Invece di badare a ridare umanità e respiro al rapporto fra medico e paziente, fra uomo che cura e chi è curato, nei prossimi mesi dovremo imparare a familiarizzare con termini come Assl (Agenzia Socio-sanitaria locale), Aisa (Azienda integrata per la salute e l’assistenza) e i cultori della materia dovranno anche mandare a memoria termini come Pot (Presidi ospedalieri territoriali) Presst (Presidi socio sanitari territoriali), cambiando il mansionario e non avendo tempo per cambiare atteggiamento.

Parla di sanità perché sono un medico, ma lo stesso potrei dire su altre riforme che non riformano nulla se non i termini e giammai le prospettive.

Non si cambia in termini di economia, lavoro walfare o attenzione al paesaggio e alla cultura, né per quanto riguarda scuola ed istruzione e si continua a dare al denaro un ruolo centrale in ogni scelta.

Si dice che sono anni bui che ci obbligano verso certe scelte e si dimenticano che il buio è cancellato sempre, nella storia dell’uomo, dalla luce della speranza, della audacia e del cambiamento.

Lo scrittore americano Bill Bryson, che nella “Breve storia di quasi tutto” aveva condensato in un unico volume l’intera storia dell’universo, nel suo ponderoso saggio “L’estate in cui accadde tutto”, ci dice come è proprio un cambiamento di mentalità che, in tempi di crisi a permettere all’uomo di risollevarsi come singolo e come collettività.

E ci racconta che nell’estate cupa di presagi del 1927, grazie ad uno sforzo di novità elettrica e scintillante come un romanzo di Fitzgerald, mentre Charles Lindbergh attraversa in volo l’Atlantico, gli Stati Uniti vivono un periodo di sorprendente benessere diffuso; le case si riempiono di promesse di futuro e di elettrodomestici – fonografi, telefoni, automobili come la gloriosa T Ford; i giornali vendono 36 milioni di copie al giorno; gli editori stampano qualcosa come 110 milioni di libri l’anno ed esplode la stella di Babe Ruth, trasformando per sempre il baseball e,. al contempo, la settimana lavorativa per gli americani si riduce dalle 60 alle 48 ore settimanali, ridefinendo per sempre stili di vita e abitudini e la vita media cresce di colpo di più di 10 anni.

Credo che Renzi abbia ragione quando dice che: “ C’è senso di preoccupazione, stanchezza, sfiducia… non è solo un fatto economico, ma culturale, civile, sociale”, ma credo che deve dare, nel prossimo anno, pèiù gambe e sostanza a questa speranza.

Certo che occorrono come ha detto lui nella tradizionale conferenza-stampa di fine anno, fatta con grande ritmo, per chiudere il tutto entro le 13.30 e dare la linea al Tg1, tempismo ed ottimismo, ma anche idee davvero nuove, foriere di novità di pensiero, che non si vedono per ora, in Italia, in Europa e nel Mondo.

Non basta dire che in economia bisogna immaginare nuova flessibilità, perché è tutto il modello da cambiare.

Non basta eliminare l’articolo 18 e rendere il lavoro più flessibile per assicurare nuovi posti di lavoro.

Non basta privatizzare e immaginare di vendere il patrimonio immobiliare pubblico per trasformare la Nazione, né bastano regalie da 80 euro per cercare di ridurre la forbice delle disuguaglianze.

Ha detto Renzi che nell’arco del triennio prossimo spera di recuperare 2 punti di Pil con la spending review, ma speriamo non col solito sistema di tagli in sanità, walfere, cultura, territorio e via discorrendo.

Renzi dovrebbe leggersi per bene e con molta attenzione l’intervista su Repubblica a Gianluca Dettori, socio di Dpixel, società di venture capital con sedi a Milano e San Francisco, che ammonisce che proprio quando le cose vanno male bisogna lanciare nuove idee e nuove risorse, mentre con il Decreto Sviluppo, la misura più importante, il fondo dei fondi, è stato stralciato.

In tutto il mondo, nel venture capital, il pubblico è fondamentale e c’è un forte intervento pubblico in termini di policy, di capitali,  di normative. Negli Stati Uniti,  il fondo pensione dei dipendenti pubblici della California è il più grosso investitore nel settore, ma l’equivalente nostrano, l’IMPS, non investe in start up. In Inghilterra l’Agenzia per l’Innovazione è finanziata con una quota della lotteria, mentre da noi, anche con l’innovatore Renzi, l’intervento pubblico resta una sovvenzione, scoraggiando così, a catena, investitori privati, compagnie assicurative, banche e fondazioni.

Ma idee ed innovazioni e coraggio di cambiamento mancano non solo a Renzi e al suo governo. Mancano nella pubblicità (che invece ne dovrebbe essere fucina), con Lla nuova campagna pubblicitaria di Alexander Wang, stilista per Balenciaga e recentemente autore di una linea per H&M, che mette in scena modelle che portano i jeans a metà coscia e si toccano l’inguine, scegliendo il vecchio trucco della donna come oggetto sessuale per vendere un prodotto e macano nelle università, dove addirittura si è giunti, con Umbero Cherubini, a difendere i vecchi ormai logori poteri accademici che almeno erano capaci di farsi valere e facevano scrivere scrivere ad un cantore della mia generazione, Francesco De Gregori, che: “l’università è bella anche se fa male”; come se l’università fosse solo valida se sa chiedere soldi o fosse una accademias in cui difendere vecchie concezioni, cioè, nel senso di Kuhn, resistere agli attacchi che rischiano di trasformare una disciplina in una gabbia di matti in cui ognuno la spara come vuole (una cosa come la rete, per intenderci), opponendosi a tutte le novità.

Ad esempio, nel campo dell’economia, il baronato accademico è in grado di tenere fuori dalla porta minchiate come la “decrescita felice”, espressione, a loro dire, di una pericolosa società bucolica, come quella degli “amici dell’amore eterno” di Carlo Verdone, con paradigmi innovativi che, grazie a loro, saranno sempre tenuti in una collocazione editoriale tipicamente periferica, perché i libri sono una maledizione, controllati dal favore del pubblico, e non dei “peer”.

E questo anche nel paese più meritocratico del mondo: gli USA, dove una delle menti migliori della finanza matematica mondiale ha ricevuto il pollice verso dai baroni di quella nazione, nonostante la sua teoria fosse il fondamento del modello CGMY che rappresenta il nuovo “paradigma” della finanza e ribalda completamente il “paradigma” precedente, dovuto a Black & Scholes, ubblicato nel 1973 sotto la pressione, se non raccomandazione, di un vecchio barone di nome Merton Miller.

Spaventati dal fatto che comunque iol nuovo modello avesse ricevuto un preemio importante (ISA) nel nostro Paese, i baroni nostrano hanno invitato, a Novembre alla Luiss, il barone americano Paul A. David della Stanford University. il sostenitore e paladino dei pericoli della innovazione, colui che combatte da sempre l’attenzione ch definisce irragionevole per i nuovi modelli di business e la devozione che definisce quasi sciamanica per la commercializzazione di nuovi processi e prodotti.

Nella sua conferenza romana egli ha testualmente detto che: “accelerare il tasso di innovazione equivale a garantire che oggetti oggi nuovi e superiori appaiano obsoleti domani agli occhi del mercato e che potenziali acquirenti rimandino l’acquisto delle nuove apparecchiature adesso disponibili, a scapito dei profitti dell’azienda e della sua abilità a finanziare le tecniche per migliorare il mercato dei futuri vecchi prodotti”.

Giunti in fondo a queste mie “notazioni”, la speranza per il Nuovo Anno, è che scompaiono dalla circolazione persone come il prof. David, che credono fermamente che più innovazione equivale a peggiorare lo stato delle cose, mentre è esattamente il contrario.

Rimanendo nel campo economico, il modello CGMY è uno di quelli che auspicano il passaggio ad una economia di tipo circolare, basata su un totale rinnovamento non solo del prodotto, ma anche dei sistemi di vendita, del marketing e della remunerazione; con i governi che non dovrebbero, come accade oggi, concedere sovvenzioni o prestiti, ma offerta di garanzie, con riduzione dei rischi per gli investitori.

Invece, i recenti provvedimenti per le acciaierie di Terni o per l’Ilva, ci dicono che si continua ad elargire senza prospettive di sviluppo e miglioramento futuro.

Proprio sulla questione delle acciaierie premier e governo hanno scelto piano d’intervento statale temporaneo da due miliardi in 2-3 anni, ma senza alcuna idea su cosa fare davvero per creare domanda, vendita e futuro per il settore.

Idee vecchie ed anche battute vecchie e di sicura presa ed effetto, senza nessuna innovazione né su l’Italicum né sulle modalità per eleggere il nuovo Presidente.

Ed la paura di cambiare qualcosa giunge a riportare a San Remo il sempre affidabile ed immutabile Carlo Conti, con la serata conclusiva, il 14 febbraio, che vedrà sul palco gli artisti in gara nella categoria dei Campioni, che si esibirà cercando di conquistare il pubblico da casa e la giuria per ottenere il maggior numero di preferenze e classificarsi al primo posto sul podio del Festival più scolntato e rassicurante del mondo, con ospiti altrettanto rassicuranti e di sicuro impatto: gli Spandau Ballet e Charlize Theron, con rinuncia assoluta agli imprevisti forieri di novità della coppia Fazio-Litizzetto ed un costo di 1,5 milioni di euro meno dello scorso anno, ma, soprattutto, il totale recupero degli afflati della tipica tradizione sanremese secondo l’adagio che recita: . “Nulla scientia melior musica animae harmonia” e due talentuose, ecletticheed anestetizzanti principesse della musica italiana, una bionda e l’altra mora, Emma Marrone ed Arisa a far da cornice al presentatore di “Tale e quale show”, che per sovra misura si poterà certamente i soliti amici (Giorgio Panariello, Leonardo Pieraccioni e Massimo Ceccherini) oltre all’immancabile e superamato Fiorello.

Carlo Di Stanislao

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