Elio Toaff Rabbino Partigiano Intellettuale Politico Italiano Grande un Secolo

“Non perdere mai l’occasione di impegnarsi nelle due attività che ci fanno essere noi stessi. Aiutare gli altri. E studiare” (Rav Elio Toaff). “Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiori” (Papa Giovanni Paolo II). “Ogni cristiano non può che essere fermo nel deplorare ogni forma […]

“Non perdere mai l’occasione di impegnarsi nelle due attività che ci fanno essere noi stessi. Aiutare gli altri. E studiare” (Rav Elio Toaff). “Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiori” (Papa Giovanni Paolo II). “Ogni cristiano non può che essere fermo nel deplorare ogni forma di antisemitismo, manifestando al popolo ebraico la propria solidarietà” (Papa Francesco). Shalom Rav Elio Toaff. Baruch Dayan HaEmet. Sia il suo ricordo di benedizione per tutti. Si è spento Domenica sera 19 Aprile 2015 nella sua abitazione a Roma, il Professor Elio Toaff (1915-2015), il Rabbino capo emerito della Comunità Ebraica romana che guidò dal 1951 al 2001. Un Rabbino grande un secolo. Avrebbe compiuto 100 anni il 30 Aprile. Centinaia di persone si sono ritrovate davanti al Tempio Maggiore per l’ultimo commosso saluto al leader religioso. Un fiume interminabile di cittadini si è raccolto nella Capitale per volgere un ultimo saluto a Elio Toaff. Già nella notte, appena resa pubblica la notizia, un folto gruppo di persone richiamate dal bagliore dell’unica finestra illuminata sulla facciata della casa dove Toaff ha trascorso gli anni del suo magistero romano, si era riunito nella Sinagoga per pregare insieme. Lunedì mattina 20 Aprile il feretro di Toaff è stato esposto di fronte al Tempio Maggiore per permettere alle numerose persone accorse di poter dare il loro ultimo saluto prima del funerale celebrato nel pomeriggio a Livorno, la sua città natale. “Aveva un eloquio semplice e schietto, ma sempre rispettoso della dignità di tutti. Ha saputo essere un grande leader carismatico e in quella veste trascinare su posizioni più avanzate tutti coloro che avevano imparato a fidarsi del suo istinto e del suo fiuto. Grazie al Rav Toaff, inoltre, gli Ebrei italiani e romani hanno saputo risollevarsi dalla Shoah e hanno imparato a farsi rispettare da chiunque, senza alcun timore reverenziale”. Così il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna, nel rendere omaggio al Rabbino Elio Toaff. L’antica piazza si è riempita di ricordi e aneddoti sul suo lungo operato. Molti gli uomini e le donne che emozionati rievocano le passeggiate del Rav Toaff nel Ghetto, i suoi saluti calorosi e la sua Berachà che risuonava nel Tempio durante lo Shabbat. Numerose le autorità intervenute prima e durante il corteo, assieme al Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna, e al vicepresidente Roberto Jarach. In un intrecciarsi di ricordi e di emozioni, è stata resa nota la Dichiarazione del Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella. Tra una tragedia immane nel Mediterraneo e l’altra, sempre a causa dei Warlords e dell’incompetente irresponsabilità dei politici europei italiani incapaci di annientare il Male sulla Terra. “Sono rimasto profondamente turbato dalla notizia della scomparsa del Professor Elio Toaff – scrive il Presidente Sergio Mattarella – per lunghi anni Rabbino capo di Roma. Avrebbe compiuto cento anni a fine mese e avevo in programma una visita di auguri. Non è facile, in poche righe, ripercorrere per intero la vicenda umana e civile di Toaff, che si è dipanata per un lungo cammino, incrociando le fasi salienti del nostro recente passato. Vittima delle indegne leggi razziali, una delle pagini più buie della storia d’Italia, aderì alla Resistenza, nelle file di Giustizia e Libertà. Fatto prigioniero dai tedeschi, scampò miracolosamente alla fucilazione. Trasferitosi a Roma nel Dopoguerra, si pose alla guida spirituale e morale di una delle più antiche comunità ebraiche d’Europa, sconvolta dalla deportazione del Ghetto e dalle altre persecuzioni, restituendole coraggio e voglia di vivere. Uomo di profonda cultura e di radicate convinzioni religiose – osserva il Capo dello Stato, Sergio Mattarella – fu testimone di pace e di dialogo. La sua altezza morale lo fece diventare una figura venerata tra gli Ebrei d’Italia. Ma Toaff era un punto saldo di riferimento, stimato e benvoluto, per tutti gli italiani. L’incontro nel Tempio Maggiore di Roma con Giovanni Paolo II, di cui serbo ancora intatta l’emozione, ha costituito una pagina alta e bella. Quel giorno, dalla Sinagoga di Roma, si è levato un messaggio universale, che indicava al mondo la via del dialogo e della fratellanza tra le religioni. Quel giorno ha contribuito, in grande misura, a chiudere una secolare ferita nel corpo della nostra Nazione, fatta di pregiudizi, incomprensioni, ostilità e persecuzioni. Elio Toaff non va soltanto commemorato ma ne va ricordato, oggi e in futuro, l’insegnamento morale e civile. I tempi che viviamo segnano una grave recrudescenza dell’antisemitismo che non va sottovalutata. Anche per questo va ribadito con forza il rifiuto a ogni discriminazione, sancito dalla nostra Costituzione. Ribadiamo il nostro Sì alla vita, alla convivenza, alla sicurezza, alla libertà religiosa per tutti i cittadini. È con queste parole, con commozione e tristezza, che rinnovo ai familiari del Professor Toaff, alla Comunità ebraica di Roma e alle Comunità d’Italia, il cordoglio di tutti gli Italiani. Nel rispetto delle prerogative del Consiglio Comunale di Roma e delle normative esistenti, confido – auspica il Presidente Sergio Mattarella – che sarei molto lieto dell’intitolazione di una Via della Capitale a Elio Toaff, grande italiano”. Ancora forte è il ricordo dell’incontro di Toaff nella Sinagoga di Roma, Domenica 13 Aprile del 1986, con Papa Giovanni Paolo II. Da quell’evento storico emozionante nacque una profonda amicizia tra il Rabbino e il Santo Pontefice, tanto che Papa Wojtyla citerà Rav Toaff nel suo testamento spirituale. “Piangiamo in queste ore la scomparsa di un uomo straordinario. Un punto di riferimento – scrive Renzo Gattegna, il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – un leader, una guida spirituale in grado di segnare il suo tempo e il tempo delle generazioni che ancora verranno. I gesti e gli insegnamenti che hanno caratterizzato il magistero e la lunga vita del Rav Elio Toaff, rappresentano infatti uno dei momenti più alti nella storia, non solo dell’Ebraismo italiano ma dell’intera Nazione. Grazie Rav per tutto quello che hai fatto e rappresentato. La tua lezione non sarà dimenticata. E che il tuo ricordo possa essere di benedizione per tutti noi”. Viva è la commozione in tutta Italia per la scomparsa di Elio Toaff, una delle figure più eminenti del Novecento italiano grazie a parole e gesti che sono passati alla storia, leader spirituale e morale, uomo del dialogo, partigiano che lottò per la Democrazia e per la Libertà in Italia e in Europa, la straordinaria figura del Rav Toaff viene tratteggiata su tutte le testate con rilievo ed emozione. “Addio a Toaff, rabbino d’Italia”, titola il Corriere della Sera. In un fondo che appare su Repubblica, Adriano Prosperi annota: “Il suo volto e la sua parola simpatica e viva di livornese erano familiari a tutti gli italiani da moltissimo tempo, il suo nome evocava un generale moto di profondo rispetto e stima”. Sulla Stampa, Elena Loewenthal scrive: “Con Elio Toaff, che il prossimo trenta Aprile avrebbe compiuto un secolo, se ne va la figura più rappresentativa e al tempo stesso più unica del mondo ebraico italiano”. Sulla stessa lunghezza d’onda Giorgio Israel per il Messaggero, che parla della sua figura come di “un esempio da seguire” e “un incoraggiamento ad andare avanti”. Queste le parole del Presidente emerito della Repubblica, il Senatore Giorgio Napolitano, dopo aver abbracciato Renzo Gattegna: “Ho avuto una grande ammirazione per quello che Toaff ha fatto e per le prove a cui è stato esposto e che ha superato con grande coraggio”. Su Repubblica un personale ricordo del Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni: “Certo che andavo a chiedergli consigli, ma lui non voleva più darne. È stato il suo ultimo e più prezioso insegnamento”. A Livorno è stato proclamato lutto cittadino. Il disegno realizzato per l’occasione da Giorgio Albertini è il tributo scelto dal quotidiano della Santa Sede l’Osservatore Romano sulla sua prima pagina. Furio Colombo, sul Fatto Quotidiano, sottolinea una frase dell’intervista: “C’è troppo poco senso dell’umorismo in giro”, il commento del Rav Toaff a Pagine Ebraiche. Il 30 Aprile 2015, in occasione di quello che doveva essere il centenario del Rav, verrà inaugurata una mostra con l’esposizione di suoi scritti autografi, compresa una lettera del 1952 nella quale il neo-insediato Rabbino capo di Roma tracciava la strada per ricostruire la Comunità. Seguirà poi il riordino di tutti i suoi documenti. Nella Lettera inviata il 20 Aprile al Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, Dott. Riccardo Di Segni, il Papa Bergoglio esprime la Sua “sentita partecipazione al lutto dei familiari e dell’intera Comunità Ebraica della Capitale per la scomparsa del Rabbino Prof. Elio Toaff, a lungo insigne guida spirituale degli Ebrei di Roma. Protagonista della storia ebraica e civile italiana degli ultimi decenni, egli seppe conquistare comune stima ed apprezzamento per la sua autorevolezza morale, congiunta a profonda umanità. Ricordo con riconoscenza il suo generoso impegno e la sincera disponibilità per la promozione del dialogo e delle relazioni fraterne tra Ebrei e Cattolici, che hanno visto un momento significativo nel suo memorabile incontro con Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. Elevo preghiere all’Altissimo, ricco di amore e di fedeltà, affinché lo accolga nel suo Regno di pace”. Uomo del dialogo, Maestro di Torah e di vita, punto di riferimento per tutti gli Ebrei, in queste ore tutta l’Italia ebraica rivolge il suo pensiero al Rav, abbracciando idealmente la sua famiglia. Da Roma, di cui fu Rabbino capo per mezzo secolo (1951-2001) a Livorno, città natale, dove trovano riposo le sue spoglie, lì dov’è sepolta sua moglie Lia Luperini e i genitori Alfredo, indimenticato Rabbino della città labronica, e la madre Alice Jarach. “Ai giovani, Toaff lascia l’esempio di una persona che ha investito tutta la sua esistenza in un progetto educativo di trasmissione di valori che sono molto importanti in questa società così dispersa e devalorizzata. Una testimonianza, quindi, fondamentale per andare avanti”, sono le parole di Rav Di Segni che nel 2001 fu nominato successore di Rav Toaff alla guida della Comunità Ebraica romana. Una Keillah che il Rabbino partigiano, come lo ricordano in molti, riuscì a guidare dopo le tragiche ferite della Seconda Guerra Mondiale e della Shoah. “Un uomo che ha fatto la Resistenza e ha ridato orgoglio alle nostre comunità. Un uomo del risorgimento ebraico romano ed italiano”, è il ricordo di Pacifici. Molti gli attestati di affetto e commozione che continuano ad arrivare sia dal mondo ebraico-cristiano sia dalle istituzioni civili. “Elio Toaff non va soltanto commemorato ma ne va ricordato, oggi e in futuro, l’insegnamento morale e civile”, rimarca il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella. “Nei momenti più duri e drammatici della storia degli Ebrei nel Ventesimo Secolo che ha spesso vissuto in prima persona, Rav Elio Toaff ha sempre saputo trovare la parola e il gesto che hanno dato un senso compiuto al momento, e ispirazione e fiducia a chi di quei momenti è stato testimone, vicino e lontano”, scriveva, in occasione del 98esimo compleanno di Toaff, il demografo Sergio Della Pergola. Toaff consegue la Laurea in Giurisprudenza nel 1938, nonostante la proclamazione delle leggi razziste di Mussolini. E proprio a seguito di quegli infami provvedimenti con cui l’Italia sceglie di voltare le spalle ai suoi cittadini e compatrioti Ebrei, i fratelli di Toaff decidono di lasciare il Paese e salpare verso Eretz Israel. Il poco più che ventenne Elio pensa di seguirli e prospetta l’idea al padre. “Quando mi trovai davanti a mio padre – ricorda Toaff nella sua ultima intervista rilasciata al Direttore di Pagine Ebraiche, Guido Vitale – compresi che non era possibile una mediazione. Che bisognava restare in Italia e separarmi dai miei fratelli”. Infatti “un Rabbino non ha la stessa libertà di scelta degli altri. Un Rabbino non abbandona mai la sua comunità”, furono le parole paterne. Il giovane Toaff decide quindi di rimanere. Nel 1941 diventa Rabbino capo di Ancona per poi essere costretto a fuggire due anni più tardi in Versiglia assieme alla moglie Lia e al figlio Ariel a causa dell’acuirsi della guerra e delle deportazioni contro gli Ebrei. Nella sua Toscana, terra mai dimenticata e a cui rimarrà legato, in particolare a Livorno, per tutta la vita, Toaff decide di entrare nelle fila della Resistenza per combattere contro l’oppressione nazifascista e in nome della libertà. Sarà tragicamente testimone della ferocia del nemico. Coi suoi occhi vedrà le ceneri dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, luogo in cui 560 innocenti furono barbaramente trucidati dai nazisti delle SS. Vinta la guerra, a Toaff viene prima affidata la guida della Comunità di Venezia. Poi, nel 1951, quella di Roma che risolleverà dalla distruzione della guerra grazie alla sua capacità di dialogare con il prossimo, al suo carisma, alla salda morale ebraica. Sotto la sua ala cresceranno generazioni di Rabbini, di Ebrei, di uomini e donne, e si ricostituirà quel legame interno alla Comunità che il nazifascismo aveva cercato di annientare. Ma la sua capacità di dialogo fu rivolta anche all’esterno della Keillah, come dimostra lo storico incontro, ed abbraccio, con Papa Giovani Paolo II al Tempio Maggiore di Roma. Quella simbolica traversata del Tevere fu un passaggio chiave nell’accidentata strada del dialogo ebraico-cristiano. Un gesto di coraggio, lo stesso che caratterizzò l’intera vita di Elio Toaff e che, nell’intervista a Pagine Ebraiche, il Maestro auspicò si infondesse in tutte le nuove generazioni. Nella sua Livorno, Elio Toaff studia sotto la guida del padre Alfredo, anch’egli Rabbino. La Laurea in Giurisprudenza, poco prima che le vergognose leggi razziali del 1938 cacciassero tutti gli studenti e scienziati Ebrei dalle Università e dalle Scuole del Regno d’Italia, sarà decisiva. La partecipazione di Toaff alla Resistenza per la Grande Vittoria sul nazifascismo ricorda a tutti il Calvario nel Mare Mediterraneo di migliaia di innocenti, in piena Terza Guerra Mondiale tra le Democrazie e i Signori della guerra (Warlords), nel Settantesimo Anniversario della Liberazione che dal 25 Aprile, in Italia e negli Stati Uniti di Europa, Santa Russia compresa, intende far riscoprire a tutti il gusto della Pace e della Libertà. Nel 1951 Elio Toaff viene chiamato a Roma, dove rimane Capo spirituale della sua Comunità per 50 anni. Una carica durante la quale il dialogo tra Ebrei e Cristiani fa notevoli passi avanti, culminati con la storica visita di Giovanni Paolo II nella Sinagoga di Roma il 13 Aprile 1986. Fu un evento storico che Toaff, ai microfoni della Radio Vaticana, commentò con queste parole: “È veramente un ricordo che mi accompagna sempre, perché avevamo intessuto un rapporto di vera amicizia. Non immaginavo che potesse avere un tale effetto. Abbiamo passato non soltanto una giornata, ma parecchie giornate insieme. Debbo dire che era un Papa straordinario, che non faceva pesare la sua autorità, ma la sua autorità veniva fuori proprio da questo, dal fatto che non la facesse pesare”. Toaff ha sempre creduto nel futuro dell’amicizia tra Ebrei e Cristiani. “Ci ho lavorato tutta la vita, quindi, non la posso vedere altro che bene. Ognuno con le proprie tradizioni, ma ognuno con il rispetto dell’altro”. Toaff rimase profondamente toccato dalle parole del Papa polacco che chiamò gli Ebrei “i nostri Fratelli maggiori”, tanto da riprendere questa storica frase nel titolo di un suo libro. Nel 1958, alla scomparsa di Pio XII, il Rav Toaff disse: “Abbiamo avuto l’opportunità di sperimentare la grande compassione e la grande generosità di questo Papa durante gli anni della persecuzione”. Fraterni i rapporti anche con Benedetto XVI nel costante scambio di sincere parole augurali. “Un grande della storia, un gigante”, è la definizione scelta dalla Comunità Ebraica di Roma per cristallizzare la memoria e gli insegnamenti di Elio Toaff. Papa Francesco ne parla durante l’Udienza del 20 Aprile 2015 alla Conferenza dei Rabbini europei e nel Messaggio di cordoglio, nel quale sottolinea del Rabbino Toaff scomparso l’autorevolezza morale e la profonda umanità. Papa Bergoglio ribadisce la condanna di ogni forma di violenza antisemita e antireligiosa. La storia recente del dialogo tra Cattolici ed Ebrei vive una svolta cruciale 29 anni fa, nel gesto più fraterno e sacro di sempre davanti la Sinagoga di Roma e nelle parole che vengono pronunciate al suo interno. L’architrave di questa nostra storia si regge sulle spalle e sul cuore di due uomini speciali, i cui nomi, Elio Toaff e Giovanni Paolo II, diventano per Papa Francesco il tema focale d’obbligo di un’Udienza prevista da tempo, quella con i Rabbini europei, che la scomparsa di Toaff arricchisce di sentimenti di viva commozione e fraterna gratitudine. “Esprimo le mie sentite condoglianze per la scomparsa, ieri sera, del Rabbino Elio Toaff – dichiara Papa Bergoglio – già Rabbino capo di Roma. Sono vicino con la preghiera al Rabbino capo Riccardo di Segni – che avrebbe dovuto essere qui con noi – e all’intera Comunità Ebraica di Roma, nel ricordo riconoscente di quest’uomo di pace e di dialogo, che accolse il Papa Giovanni Paolo II nella storica visita al Tempio Maggiore”. Ebrei e cristiani, sono per Francesco l’anima di una Europa secolarizzata. Elio Toaff e Giovanni Paolo II sono gli uomini del dialogo ebraico-cattolico postconciliare, avviato 50 anni fa con la Dichiarazione “Nostra Aetate”. Francesco sottolinea i progressi fatti e l’amicizia cresciuta nel frattempo, ritenendole un valore importante per l’Europa odierna, terra di secolarismo, ideologie ed ateismo diffusi, “in cui – rimarca Papa Bergoglio – si corre il rischio di vivere come se Dio non esistesse. L’uomo è spesso tentato di mettersi al posto di Dio, di considerarsi il criterio di tutto, di pensare di poter controllare ogni cosa, di sentirsi autorizzato ad usare tutto ciò che lo circonda secondo il proprio arbitrio. Ebrei e Cristiani hanno il dono e la responsabilità di contribuire a mantenere vivo il senso religioso degli uomini di oggi e della nostra società, testimoniando la santità di Dio e quella della vita umana: Dio è Santo, e santa e inviolabile è la vita da lui donata”. A preoccupare Papa Francesco sono anche le “tendenze antisemite e alcuni atti di odio e di violenza” che tuttora si manifestano in Europa. “Ogni cristiano – riafferma Papa Bergoglio – non può che essere fermo nel deplorare ogni forma di antisemitismo, manifestando al popolo ebraico la propria solidarietà. È stato commemorato recentemente il 70.mo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, che ha visto il consumarsi della grande tragedia della Shoah. La memoria di quanto accaduto, nel cuore dell’Europa, serva da monito alla presente e alle future generazioni. Vanno altresì condannate dappertutto le manifestazioni di odio e di violenza contro i cristiani e contro i fedeli di altre religioni. Cari amici, vi do il mio benvenuto in Vaticano quali membri della delegazione della Conference of European Rabbis. Ne sono particolarmente felice e grato, perché – rivela Papa Francesco – questa è la prima visita che la vostra Organizzazione compie a Roma per incontrare il Successore di Pietro. Saluto il Presidente, il Rabbino Pinchas Goldschmidt, ringraziandolo per le sue gentili parole. Il dialogo tra la Chiesa Cattolica e le Comunità ebraiche procede ormai da quasi mezzo secolo in maniera sistematica. Il prossimo 28 Ottobre celebreremo il cinquantesimo anniversario della Dichiarazione conciliare Nostra aetate, che rappresenta tuttora il punto di riferimento di ogni nostro sforzo in questa direzione. Con gratitudine al Signore, ripensiamo a questi anni rallegrandoci per i progressi fatti e per l’amicizia che, nel frattempo, è andata crescendo tra di noi. Cari amici, vi ringrazio di cuore per questa visita, assai significativa. Auguro oggi ogni bene per le vostre comunità, assicurando la mia vicinanza e la mia preghiera. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Shalom alechem!”. Elio Toaff non è stato solo un grande Rabbino italiano ma una figura indelebile della storia patria che ha inciso nel profondo il dialogo tra Ebrei e Cristiani fin dai tempi della sua vicinanza con Papa Giovanni XXIII per il quale Toaff pregò da Ebreo nei momenti finali della vita del romano pontefice. Una delle immagini più potenti che segnano il rapporto tra le due fedi è quella che ritrae Elio Toaff vestito con i paramenti bianchi della tradizione ebraica nell’accogliere alla Sinagoga di Roma il Papa Giovanni Paolo II. Fu la prima volta di un pontefice in un Tempio ebraico. E non sarà l’ultima. Di quell’incontro Toaff scrisse: “Insieme entrammo nel Tempio. Passai in mezzo al pubblico silenzioso, in piedi, come in sogno, il papa al mio fianco, dietro cardinali, prelati e rabbini: un corteo insolito, e certamente unico nella lunga storia della Sinagoga. Salimmo sulla Tevà e ci volgemmo verso il pubblico. E allora scoppiò l’applauso. Un applauso lunghissimo e liberatorio, non solo per me ma per tutto il pubblico, che finalmente capì fino in fondo l’importanza di quel momento. Ma ci fu un punto in cui quel tributo divenne irrefrenabile e fu – aggiunse Toaff – quando il papa disse: “Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiori”. Fu un momento storico per un uomo di fede come Toaff, per 50 anni Rabbino capo della Comunità ebraica più numerosa d’Italia. Toaff era laureato in legge e in teologia all’Università di Pisa dove ottenne anche il titolo di Rabbino maggiore. Nel 1941, nel pieno delle leggi razziali, andò a dirigere la Comunità Ebraica di Ancona. Due anni dopo, nel 1943, raggiunse i partigiani in Versilia. Catturato dai tedeschi, che poco dopo avrebbero compiuto con le SS la strage di Sant’Anna di Stazzema, Toaff riuscì a scampare all’eccidio. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, fu nominato Rabbino capo di Venezia dove divenne anche docente di Lettere ebraiche all’Università Cà Foscari. A Roma arrivò nel 1951 raccogliendo l’eredità di un altro grande Rabbino capo della Capitale, David Prato. Trovò una Comunità Ebraica decimata dalle persecuzioni nazifasciste, che aveva subito la grande razzia del 16 Ottobre 1943 e che era stata falcidiata nei campi di sterminio germanici. Per cinquant’anni Toaff è la massima autorità religiosa degli Ebrei romani, figura di primo piano dell’ebraismo italiano ma anche della vita sociale della nazione. Toaff, a detta di molti, era un uomo schietto, affabile e al tempo stesso molto legato ai principi della normativa religiosa ebraica. Figura, fin dalla sua nomina, amatissima dalla Comunità romana che spesso lo omaggiava quando passeggiava in Piazzà, come gli Ebrei romani chiamano il cuore del Ghetto nella Capitale. Toaff lascia la sua carica l’8 Ottobre 2001 a 86 anni. Fu lui stesso ad annunciarlo al termine delle preghiere per “Hoshà anà Rabbà” in Sinagoga. Un annuncio che commosse e colpì non solo gli Ebrei romani ma l’intero ebraismo italiano. Alla sua autorevolezza, alla sua umanità e alla sua dottrina, rese omaggio anche Papa Ratzinger. Il 17 Gennaio 2010, durante la seconda storica visita di un romano pontefice ad un Tempio ebraico, Benedetto XVI, prima di entrare in Sinagoga, dove l’attendeva il Rabbino successore di Toaff, Riccardo Di Segni, si fermò davanti la casa del Rabbino emerito di Roma dove effettivamente si svolse l’incontro informale tra i due. “Il Signore ha fatto grandi cose per loro. Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia” (Sal 126). “Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!” (Sal 133). “All’inizio dell’incontro nel Tempio Maggiore degli Ebrei di Roma – dichiara Papa Ratzinger il 17 Gennaio 2010 in Sinagoga – i Salmi che abbiamo ascoltato ci suggeriscono l’atteggiamento spirituale più autentico per vivere questo particolare e lieto momento di grazia: la lode al Signore, che ha fatto grandi cose per noi, ci ha qui raccolti con il suo Hèsed, l’amore misericordioso, e il ringraziamento per averci fatto il dono di ritrovarci assieme a rendere più saldi i legami che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della riconciliazione e della fraternità. Desidero esprimere innanzitutto viva gratitudine a Lei, Rabbino Capo, Dottor Riccardo Di Segni, per l’invito rivoltomi e per le significative parole che mi ha indirizzato. Ringrazio poi i Presidenti dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Avvocato Renzo Gattegna, e della Comunità Ebraica di Roma, Signor Riccardo Pacifici, per le espressioni cortesi che hanno voluto rivolgermi. Il mio pensiero va alle Autorità e a tutti i presenti e si estende, in modo particolare, alla Comunità ebraica romana e a quanti hanno collaborato per rendere possibile il momento di incontro e di amicizia, che stiamo vivendo. Venendo tra voi per la prima volta da cristiano e da Papa, il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, quasi ventiquattro anni fa, intese offrire un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre comunità, per superare ogni incomprensione e pregiudizio. Questa mia visita si inserisce nel cammino tracciato, per confermarlo e rafforzarlo. Con sentimenti di viva cordialità mi trovo in mezzo a voi per manifestarvi la stima e l’affetto che il Vescovo e la Chiesa di Roma, come pure l’intera Chiesa Cattolica, nutrono verso questa Comunità e le Comunità ebraiche sparse nel mondo. La dottrina del Concilio Vaticano II ha rappresentato per i Cattolici un punto fermo a cui riferirsi costantemente nell’atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova e significativa tappa. L’evento conciliare ha dato un decisivo impulso all’impegno di percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia, cammino che si è approfondito e sviluppato in questi quarant’anni con passi e gesti importanti e significativi, tra i quali desidero menzionare nuovamente la storica visita in questo luogo del mio Venerabile Predecessore, il 13 Aprile 1986, i numerosi incontri che egli ha avuto con Esponenti ebrei, anche durante i Viaggi Apostolici internazionali, il pellegrinaggio giubilare in Terra Santa nell’anno 2000, i documenti della Santa Sede che, dopo la Dichiarazione Nostra Aetate, hanno offerto preziosi orientamenti per un positivo sviluppo nei rapporti tra Cattolici ed Ebrei. Anche io, in questi anni di Pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il mio affetto verso il popolo dell’Alleanza. Conservo ben vivo nel mio cuore tutti i momenti del pellegrinaggio che ho avuto la gioia di realizzare in Terra Santa, nel Maggio dello scorso anno, come pure i tanti incontri con Comunità e Organizzazioni ebraiche, in particolare quelli nelle Sinagoghe a Colonia e a New York. Inoltre, la Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo (Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, Noi Ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 Marzo 1998). Possano queste piaghe essere sanate per sempre! Torna alla mente l’accorata preghiera al Muro del Tempio in Gerusalemme del Papa Giovanni Paolo II, il 26 Marzo 2000, che risuona vera e sincera nel profondo del nostro cuore: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome sia portato ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo impegnarci a vivere una fraternità autentica con il popolo dell’Alleanza”. Il passare del tempo ci permette di riconoscere nel Ventesimo Secolo un’epoca davvero tragica per l’umanità: guerre sanguinose che hanno seminato distruzione, morte e dolore come mai era avvenuto prima; ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l’idolatria dell’uomo, della razza, dello stato e che hanno portato ancora una volta il fratello ad uccidere il fratello. Il dramma singolare e sconvolgente della Shoah rappresenta, in qualche modo, il vertice di un cammino di odio che nasce quando l’uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell’universo. Come dissi nella visita del 28 Maggio 2006 al campo di concentramento di Auschwitz, ancora profondamente impressa nella mia memoria, “i potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità” e, in fondo, “con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno” (Discorso al campo di Auschwitz-Birkenau: Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 1[2006], p. 727). In questo luogo, come non ricordare gli Ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato nell’Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo – osserva Benedetto XVI – molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta. La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l’accoglienza. La nostra vicinanza e fraternità spirituali trovano nella Sacra Bibbia – in ebraico Sifre Qodesh o “Libri di Santità” – il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo. È scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua Parola (Catechismo della Chiesa Cattolica, 839). “A differenza delle altre religioni non cristiane, la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nella Antica Alleanza. È al popolo ebraico che appartengono ‘l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne’ (Rm 9,4-5) perché ‘i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!’ (Rm 11,29)” (Ibid.). Numerose possono essere le implicazioni che derivano dalla comune eredità tratta dalla Legge e dai Profeti. Vorrei ricordarne alcune: innanzitutto, la solidarietà che lega la Chiesa e il popolo ebraico “a livello della loro stessa identità” spirituale e che offre ai Cristiani l’opportunità di promuovere “un rinnovato rispetto per l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento” (Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001, pp. 12 e 55); la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità; l’impegno per preparare o realizzare il Regno dell’Altissimo nella “cura del Creato” affidato da Dio all’uomo perché lo coltivi e lo custodisca responsabilmente (Gen 2,15). In particolare il Decalogo – le “Dieci Parole” o Dieci Comandamenti (Es 20,1-17; Dt 5,1-21) – che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola dell’etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell’amore, un “grande codice” etico per tutta l’umanità. Le “Dieci Parole” gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l’ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un impegno operoso sulla via dei Comandamenti: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti” (Mt 19,17). In questa prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza. Vorrei ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo. Le “Dieci Parole” chiedono di riconoscere l’unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d’oro. Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l’uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio è un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono e devono offrire assieme. Le “Dieci Parole” chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante volte, in ogni parte della Terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la libertà, i diritti dell’essere umano! Testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo, è offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo “Shalom” auspicato dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele. Le “Dieci Parole” chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il “sì” personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita. Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane, è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di un mondo dal volto più umano. Come insegna Mosè nello Shemà (Dt 6,5; Lv 19,34) e Gesù riafferma nel Vangelo (cfr. Mc 12,19-31), tutti i Comandamenti si riassumono nell’Amore di Dio e nella Misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi. Nella tradizione ebraica c’è un mirabile detto dei Padri d’Israele: “Simone il Giusto era solito dire: Il mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia” (Aboth 1,2). Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza. In questa direzione possiamo compiere passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della Terra. I passi compiuti in questi quarant’anni dal Comitato Internazionale congiunto cattolico-ebraico e, in anni più recenti, dalla Commissione Mista della Santa Sede e del Gran Rabbinato d’Israele, sono un segno della comune volontà di continuare un dialogo aperto e sincero. Proprio domani la Commissione Mista terrà qui a Roma il suo IX incontro su “L’insegnamento cattolico ed ebraico sul creato e l’ambiente”; auguriamo loro un proficuo dialogo su un tema tanto importante e attuale. Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro. Spetta a noi, in risposta alla chiamata di Dio – auspica Benedetto XVI – lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell’amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell’umanità in questo mondo creato da Dio, l’Onnipotente e il Misericordioso. Infine un pensiero particolare per questa nostra Città di Roma, dove, da circa due millenni, convivono, come disse il Papa Giovanni Paolo II, la Comunità cattolica con il suo Vescovo e la Comunità ebraica con il suo Rabbino capo; questo vivere assieme possa essere animato da un crescente amore fraterno, che si esprima anche in una cooperazione sempre più stretta per offrire un valido contributo nella soluzione dei problemi e delle difficoltà da affrontare. Invoco dal Signore il dono prezioso della pace in tutto il mondo, soprattutto in Terra Santa. Nel mio pellegrinaggio del Maggio scorso, a Gerusalemme, presso il Muro del Tempio, ho chiesto a Colui che può tutto: “manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione” (Preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme, 12 Maggio 2009). Nuovamente elevo a Lui il ringraziamento e la lode per questo nostro incontro, chiedendo che Egli rafforzi la nostra fraternità e renda più salda la nostra intesa. Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode, perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre. Alleluia (Sal 117)”. Vedovo da molti anni di Lia Luperini, il Rav Elio Toaff ha avuto quattro figli. Per molti anni è stato direttore del Collegio Rabbinico Italiano dove si formano i futuri Rabbini e anche, molto a lungo, Presidente del Tribunale Rabbinico di Roma. Una raccolta di firme fu promossa anni fa dal Segretario confederale della Uil, Paolo Pirani, per chiedere all’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi la nomina di Toaff a Senatore a vita. Oggi l’intero mondo cristiano ed ebraico italiano, è in lutto. Per Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, “è morto un uomo straordinario, un punto di riferimento”. Per Riccardo Pacifici, Presidente degli Ebrei romani, “un gigante della storia che ha ridato orgoglio alle nostre comunità”. Come ricorda Guido Vitale in Pagine Ebraiche, nel Maggio 2010, fermo là, in poltrona, “il Rav si lascia avvolgere dalla luce tiepida e trasparente del mattino. Poi lancia lo sguardo verso Roma e sembra che la città lo attenda alla vigilia del novantacinquesimo compleanno con il dono di tutta la sua primavera. A pochi passi quasi si percepisce l’eterno scorrere del fiume, il via vai nel Ghetto della gente che lo ha accolto e lo ha seguito in cinquant’anni di magistero, la Sinagoga che lo ha visto protagonista nei momenti più difficili e nelle gioie più intense per oltre mezzo secolo. I movimenti restano maestosi, ma sono rallentati dal peso dei ricordi. I gesti, gli sguardi seguono un flusso di memorie che riaffiorano. E si torna alle origini, agli anni della giovinezza, anni di speranze spezzate e di scelte dure, irrevocabili. Era il Settembre del 1938, in quella sala operatoria della prestigiosa clinica universitaria di Pisa, quando suo fratello apprese di non poter più esercitare la professione medica. Era il giorno dell’infamia delle leggi razziste che negarono agli Ebrei italiani la dignità di cittadini e privarono il mondo accademico dell’apporto di scienziati e professionisti di valore. E qualche solerte assistente si sentiva già pronto a sostenere che l’applicazione delle leggi doveva avere effetto immediato, a operazione aperta. Il Professor Renzo Toaff decise allora che l’operazione doveva andare avanti fino alla sua conclusione. “No, questa la finisco io, altrimenti mi ammazzate il paziente e poi date la colpa a qualcun altro”. La sua uscita dalla sala operatoria non segnava solo la conclusione di un’epoca di civile convivenza, ma anche la fine del prestigio che il mondo accademico italiano aveva saputo conquistarsi. Per molti Ebrei italiani veniva il momento di prendere una decisione. Da un capo all’altro dell’Italia i fratelli Toaff decisero che era il momento di reagire. Renzo non ci pensò sù due volte e fece i bagagli per la Palestina. Suo fratello Cesare, avvocato a Trieste, guardava già al porto da cui presero il largo migliaia di Ebrei costretti a lasciare il proprio paese e decise di seguirlo. E anche Elio, laureato in Giurisprudenza e avviato agli studi rabbinici, si avvicinò al padre proponendo di seguire i fratelli, di lasciare insieme l’Italia. La risposta fu ferma, dura, non facile da mandar giù. Eppure quella incrollabile fermezza e quell’infinito amore con cui si trovò alle prese, avrebbe condizionato i destini dell’ebraismo italiano per molti decenni a venire. “Quando mi trovai davanti a mio padre – ricorda oggi il Rav Elio Toaff – compresi che non era possibile una mediazione. Che bisognava restare in Italia e separarmi dai miei fratelli”. Da quel “no” di suo padre sono venuti tanti fatti incancellabili per la minoranza ebraica in Italia. Il suo lunghissimo magistero rabbinico, la sua guida di oltre mezzo secolo della Comunità di Roma, il suo impegno da protagonista nella Resistenza e in tutti i momenti chiave della storia italiana del ‘900. Suo padre, il Rav Alfredo Sabato Toaff, non era solo il rabbino capo di Livorno, ma anche una delle voci più autorevoli della cultura umanistica italiana. Perché non volle lasciarla partire? Non comprese il pericolo, oppure vide ancora più lontano di quando molti videro allora? “Non so – ricorda oggi il Rav – posso solo dire che mio padre non ammise repliche. E così facendo condizionò in fondo tutta la mia vita”. E come spiegò il suo diniego? “Un rabbino, mi disse, non ha la stessa libertà di scelta degli altri. Un rabbino non abbandona mai la sua comunità. E fu così che vidi partire i miei fratelli, continuai gli studi, attraversai gli anni delle persecuzioni, accettai la responsabilità di tante comunità, fra cui Ancona, Venezia e infine legai per oltre mezzo secolo il mio lavoro di Rabbino a Roma. Ho avuto la fortuna di diventare Rabbino al Collegio rabbinico di Livorno. Mio padre fu anche il mio maestro. E non era facile”. Suo padre ha lasciato il segno di una personalità immensa. Studiare con lui le fu di peso, la fece soffrire? “Guardi, mio padre non me ne faceva passare una e forse proprio questa è stata la lezione più grande. Fare il Rabbino significa agire secondo giustizia, senza favoritismi. Ma anche lasciarsi portare da un infinito amore. Proprio quello con cui lui mi istruì”. Una lezione che resta valida ancora oggi per i giovani Rabbini? “Certo, i giovani Rabbini dovrebbero crescere nella fermezza e nell’amore. A loro auguro di ricevere i doni e di trovare le risorse che ho avuto la fortuna di poter raccogliere”. Quali?
“A loro auguro di avere coraggio, che le delusioni sono sempre pronte fuori dalla porta. A loro auguro di fare un poco di gavetta, che non è bene ricoprire i massimi incarichi senza prima aver conquistato la propria posizione. A loro auguro di avere il tempo e il modo di studiare, che la preparazione non basta mai. E tante altre cose ancora”. Cosa? “A loro auguro di essere equamente retribuiti, che non si può pretendere di avere persone preparate, impegnate e coinvolte se le si fa soffrire con retribuzioni inadeguate. A loro auguro soprattutto di continuare a rappresentare i valori dell’ebraismo italiano. Nei prossimi mesi alcune comunità italiane dovranno affrontare un avvicendamento negli incarichi rabbinici e le giovani generazioni scarseggiano”. Che accadrà?
“Mi sembra necessario fare un grande sforzo per salvare i valori inestimabili che sono i nostri. Sarebbe un peccato vedere comunità costrette a rivolgersi a Rabbini provenienti da lontano, certo autorevoli, ma magari incapaci di comprendere le nostre tradizioni e la nostra mentalità. E anche la nostra lingua”. Lei ha accolto alle porte della Sinagoga di Roma il primo Papa che fece visita alla Comunità più antica della Diaspora ed è sceso in strada per salutare anche la recente venuta di Benedetto XVI. Quali segni di differenza possono essere tracciati fra questi due importanti momenti del dialogo fra le fedi? “Il dialogo è importante, e bisogna andare avanti con coraggio. Giovanni Paolo II era dotato di questo coraggio. L’ho visto e di questo posso testimoniare”. Quando misura con la sua lunga esperienza la vita delle comunità italiane di oggi, quali problemi vede?
“Vedo spesso una carenza di misura, di modestia se vogliamo. E talvolta anche di senso dell’umorismo. La litigiosità ebraica è superiore alla media nazionale, il che è tutto dire. Come nel caso di questa tragedia delle ciambellette”. Chi se l’è presa per la proibizione rabbinica di utilizzare a casa propria la farina di Pesach ha esagerato? “Sì, ha esagerato. E ha confuso tradizioni antiche e talvolta fraintese come un diritto acquisito. Non può essere così. È ovvio. E non valeva proprio la pena di agitarsi tanto”. E segnali di speranza, ne vede? “Certo che ce ne sono. E tanti. Anche questo giornale ne rappresenta uno”. Lei, Rav, non ha mai rinunciato a seguire l’attualità e a leggere il giornale. Quando la vista si è affievolita è stata una sofferenza? “Ho sempre al fianco qualche persona di buon cuore che mi legge i giornali. Pagina su pagina”. A nome di tutta la redazione vorrei ringraziarla di seguire con attenzione anche il nostro lavoro. “Questo è un giornale destinato al successo. So che è un complimento sincero e mi sento autorizzato a renderlo pubblico”. Ma come fa a saperlo? “Lo vedo dallo spirito e dalla generosità con cui i collaboratori offrono il proprio contributo”. Lei, Rav, continua a ricevere la visita di numerose persone che sentono il bisogno di confidarsi, di chiedere consiglio. Cosa cercano, la sua esperienza o la sua amicizia? “Non sono tempi facili, si sentono tante storie di gente che soffre, che non riesce a mantenere un equilibrio all’interno della propria famiglia, che non riesce a dominare i propri istinti. O anche che ha solo bisogno di un consiglio amichevole e di una benedizione”. E a tutti cosa consiglia? “Di avere coraggio. Ma soprattutto di non perdere mai l’occasione di impegnarsi nelle due attività che ci fanno essere noi stessi”. Quali? “Aiutare gli altri. E studiare”. Come agire per svolgerle al meglio? “Non è difficile. Dico sempre a tutti, andate a cercarvi un vecchio solitario. E scacciate la solitudine. Portatelo in giro, regalategli un poco del vostro tempo. Poi dico, se volete salvare la Comunità non passi un giorno senza studiare. Ognuno si prenda carico di almeno un’ora di studio al giorno”. Rav, se ci fossero due partiti, quelli che amano le feste di compleanno e quelli che le attendono con insofferenza, a quale vorrebbe aderire? “Sicuramente al secondo. Ma egualmente sono felice che si festeggi il mio compleanno, perché so che è il momento di un saluto sincero con la mia gente, con tutti gli amici che ho amato tanto”. È il senso del dialogo tra Ebrei e Cristiani. “Cari amici e fratelli Ebrei e Cristiani – dichiara San Giovanni Paolo II, Domenica 13 Aprile 1986, nel Tempio Maggiore di Roma – che prendete parte a questa storica celebrazione. Vorrei prima di tutto, insieme con voi, ringraziare e lodare il Signore che ha “disteso il cielo e fondato la terra” (Is 51, 16) e che ha scelto Abramo per farlo padre di una moltitudine di figli, numerosa “come le stelle in cielo” e “come la sabbia che è sul lido del mare” (Gen 22,17; 15,5) perché ha voluto nel mistero della Sua provvidenza, che questa sera si incontrassero in questo vostro “Tempio Maggiore” la Comunità ebraica che vive in questa città, fin dal tempo dei romani antichi, e il Vescovo di Roma e Pastore universale della Chiesa cattolica. Sento poi il dovere di ringraziare il Rabbino capo, prof. Elio Toaff, che ha accolto con gioia, fin dal primo momento, il progetto di questa visita e che ora mi riceve con grande apertura di cuore e con vivo senso di ospitalità; e con lui ringrazio tutti coloro che, nella Comunità ebraica romana, hanno reso possibile questo incontro e si sono in tanti modi impegnati affinché esso fosse nel contempo una realtà e un simbolo. Grazie quindi a tutti voi. “Todà rabbà” (grazie tante). Alla luce della Parola di Dio testé proclamata e che “vive in eterno” (Is 30, 8) vorrei che riflettessimo insieme, alla presenza del Santo, benedetto Egli sia! (come si dice nella vostra liturgia), sul fatto e sul significato di questo incontro tra il Vescovo di Roma, il Papa, e la Comunità ebraica che abita e opera in questa città, a voi e a me tanto cara. È da tempo che pensavo a questa visita. In verità, il Rabbino capo ha avuto la gentilezza di venire ad incontrarmi, nel Febbraio 1981, quando mi recai in visita pastorale alla vicina parrocchia di San Carlo ai Catinari. Inoltre, alcuni di voi sono venuti più di una volta in Vaticano, sia in occasione delle numerose udienze che ho potuto avere con rappresentanti dell’Ebraismo italiano e mondiale, sia ancor prima, al tempo dei miei predecessori, Paolo VI, Giovanni XXIII e Pio XII. Mi è poi ben noto che il Rabbino capo, nella notte che ha preceduto la morte di Papa Giovanni, non ha esitato ad andare a Piazza San Pietro, accompagnato da un gruppo di fedeli Ebrei, per pregare e vegliare, mescolato tra la folla dei Cattolici e di altri Cristiani, quasi a rendere testimonianza, in modo silenzioso ma così efficace, alla grandezza d’animo di quel Pontefice, aperto a tutti senza distinzione, e in particolare ai fratelli Ebrei. L’eredità che vorrei adesso raccogliere è appunto quella di Papa Giovanni, il quale una volta, passando di qui – come or ora ha ricordato il Rabbino capo – fece fermare la macchina per benedire la folla di Ebrei che uscivano da questo stesso Tempio. E vorrei raccoglierne l’eredità in questo momento, trovandomi non più all’esterno bensì, grazie alla vostra generosa ospitalità, all’interno della Sinagoga di Roma. Questo incontro conclude, in certo modo, dopo il pontificato di Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, un lungo periodo sul quale occorre non stancarsi di riflettere per trarne gli opportuni insegnamenti. Certo non si può, né si deve, dimenticare che le circostanze storiche del passato furono ben diverse da quelle che sono venute faticosamente maturando nei secoli; alla comune accettazione di una legittima pluralità sul piano sociale, civile e religioso si è pervenuti con grandi difficoltà. La considerazione dei secolari condizionamenti culturali non potrebbe tuttavia impedire di riconoscere che gli atti di discriminazione, di ingiustificata limitazione della libertà religiosa, di oppressione anche sul piano della libertà civile, nei confronti degli Ebrei, sono stati oggettivamente manifestazioni gravemente deplorevoli. Sì, ancora una volta, per mezzo mio, la Chiesa, con le parole del ben noto decreto Nostra Aetate (n. 4), “deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei ogni tempo da chiunque”; ripeto: “da chiunque”. Una parola di esecrazione vorrei una volta ancora esprimere per il genocidio decretato durante l’ultima guerra contro il popolo ebreo e che ha portato all’olocausto di milioni di vittime innocenti. Visitando il 7 Giugno 1979 il lager di Auschwitz e raccogliendomi in preghiera per le tante vittime di diverse nazioni, mi sono soffermato in particolare davanti alla lapide con l’iscrizione in lingua ebraica, manifestando così i sentimenti del mio animo. “Questa iscrizione suscita il ricordo del popolo, i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale. Questo popolo ha la sua origine da Abramo che è padre della nostra fede come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo popolo che ha ricevuto da Dio il comandamento “non uccidere”, ha provato su se stesso in misura particolare che cosa significa l’uccidere. Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza” (Insegnamenti 1979, p. 1484). Anche la Comunità ebraica di Roma pagò un alto prezzo di sangue. Ed è stato certamente un gesto significativo che, negli anni bui della persecuzione razziale, le porte dei nostri conventi, delle nostre chiese, del Seminario romano, di edifici della Santa Sede e della stessa Città del Vaticano si siano spalancate per offrire rifugio e salvezza a tanti Ebrei di Roma, braccati dai persecutori. L’odierna visita vuole recare un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre due comunità, sulla scia degli esempi offerti da tanti uomini e donne, che si sono impegnati e si impegnano tuttora, dall’una e dall’altra parte, perché siano superati i vecchi pregiudizi e si faccia spazio al riconoscimento sempre più pieno di quel “vincolo” e di quel “comune patrimonio spirituale” che esistono tra Ebrei e Cristiani. È questo l’auspicio che già esprimeva il paragrafo n. 4, che ho ora ricordato, della dichiarazione conciliare Nostra Aetate sui rapporti tra la Chiesa e le religioni non cristiane. La svolta decisiva nei rapporti della Chiesa cattolica con l’Ebraismo, e con i singoli Ebrei, si è avuta con questo breve ma lapidario paragrafo. Siamo tutti consapevoli che, tra le molte ricchezze di questo numero 4 della Nostra Aetate, tre punti sono specialmente rilevanti. Vorrei sottolinearli qui, davanti a voi, in questa circostanza veramente unica. Il primo è che la Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l’Ebraismo “scrutando il suo proprio mistero”. La religione ebraica – osserva San Giovanni Paolo II – non ci è “estrinseca”, ma in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori. Il secondo punto rilevato dal Concilio è che agli Ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò “che è stato fatto nella passione di Gesù”. Non indistintamente agli Ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. È quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno “secondo le proprie opere”, gli Ebrei come i Cristiani (Rm 2,6). Il terzo punto che vorrei sottolineare nella dichiarazione conciliare è la conseguenza del secondo; non è lecito dire, nonostante la coscienza che la Chiesa ha della propria identità, che gli Ebrei sono “reprobi o maledetti”, come se ciò fosse insegnato, o potesse venire dedotto dalle Sacre Scritture, dell’Antico come del Nuovo Testamento. Anzi, aveva detto prima il Concilio, in questo stesso brano della Nostra Aetate, ma anche nella costituzione dogmatica Lumen gentium (Lumen gentium, 6), citando san Paolo nella lettera ai Romani (Rm 11, 28-29), che gli Ebrei “rimangono carissimi a Dio”, che li ha chiamati con una “vocazione irrevocabile”. Su queste convinzioni poggiano i nostri rapporti attuali. Nell’occasione di questa visita alla vostra Sinagoga, io desidero riaffermarle e proclamarle nel loro valore perenne. È infatti questo il significato che si deve attribuire alla mia visita in mezzo a voi, Ebrei di Roma. Non è certo perché le differenze tra noi siano ormai superate che sono venuto tra voi. Sappiamo bene che così non è. Anzitutto, ciascuna delle nostre religioni, nella piena consapevolezza dei molti legami che la uniscono all’altra, e in primo luogo di quel “legame” di cui parla il Concilio – insegna Giovanni Paolo II – vuole essere riconosciuta e rispettata nella propria identità, al di là di ogni sincretismo e di ogni equivoca appropriazione. Inoltre è doveroso dire che la strada intrapresa è ancora agli inizi, e che quindi ci vorrà ancora parecchio, nonostante i grandi sforzi già fatti da una parte e dall’altra, per sopprimere ogni forma seppur subdola di pregiudizio, per adeguare ogni maniera di esprimersi e quindi per presentare sempre e ovunque, a noi stessi e agli altri, il vero volto degli Ebrei e dell’Ebraismo, come anche dei Cristiani e del Cristianesimo, e ciò ad ogni livello di mentalità, di insegnamento e di comunicazione. A questo riguardo, vorrei ricordare ai miei fratelli e sorelle della Chiesa cattolica, anche di Roma, il fatto che gli strumenti di applicazione del Concilio in questo campo preciso sono già a disposizione di tutti, nei due documenti pubblicati rispettivamente nel 1974 e nel 1985 dalla Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo. Si tratta soltanto di studiarli con attenzione, di immedesimarsi nei loro insegnamenti e di metterli in pratica. Restano forse ancora fra di noi difficoltà di ordine pratico, che attendono di essere superate sul piano delle relazioni fraterne: esse sono frutto sia dei secoli di mutua incomprensione, sia anche di posizioni diverse e di atteggiamenti non facilmente componibili in materie complesse e importanti. A nessuno sfugge che la divergenza fondamentale fin dalle origini è l’adesione di noi Cristiani alla persona e all’insegnamento di Gesù di Nazaret, figlio del vostro Popolo, dal quale sono nati anche Maria Vergine, gli Apostoli, “fondamento e colonne della Chiesa”, e la maggioranza dei membri della prima Comunità cristiana. Ma questa adesione si pone nell’ordine della fede, cioè nell’assenso libero dell’intelligenza e del cuore guidati dallo Spirito, e non può mai essere oggetto di una pressione esteriore, in un senso o nell’altro; è questo il motivo per il quale noi siamo disposti ad approfondire il dialogo in lealtà e amicizia, nel rispetto delle intime convinzioni degli uni e degli altri, prendendo come base fondamentale gli elementi della rivelazione che abbiamo in comune, come “grande patrimonio spirituale” (Nostra Aetate, 4). Occorre dire, poi, che le vie aperte alla nostra collaborazione, alla luce della comune eredità tratta dalla Legge e dai profeti, sono varie e importanti. Vogliamo ricordare anzitutto una collaborazione in favore dell’Uomo, della sua vita dal concepimento fino alla morte naturale, della sua dignità, della sua libertà, dei suoi diritti, del suo svilupparsi in una società non ostile, ma amica e favorevole, dove regni la giustizia e dove, in questa nazione, nei continenti e nel mondo, sia la pace a imperare, lo “Shalom” auspicato dai legislatori, dai profeti e dai saggi d’Israele. Vi è, più in generale, il problema morale, il grande campo dell’etica individuale e sociale. Siamo tutti consapevoli quanto sia acuta la crisi su questo punto nel tempo in cui viviamo. In una società spesso smarrita nell’agnosticismo e nell’individualismo e che soffre le amare conseguenze dell’egoismo e della violenza, Ebrei e Cristiani sono depositari e testimoni di un’etica segnata dai Dieci Comandamenti, nella cui osservanza l’Uomo trova la sua verità e libertà. Promuovere una comune riflessione e collaborazione su questo punto è uno dei grandi doveri dell’ora. E finalmente vorrei rivolgere il pensiero a questa Città dove convive la comunità dei Cattolici con il suo Vescovo, la comunità degli Ebrei con le sue autorità e con il suo Rabbino capo. Non sia la nostra soltanto una “convivenza” di stretta misura, quasi una giustapposizione, intercalata da limitati e occasionali incontri, ma sia essa animata da amore fraterno. I problemi di Roma sono tanti. Voi lo sapete bene. Ciascuno di noi, alla luce di quella benedetta eredità a cui prima accennavo, sa di essere tenuto a collaborare, in qualche misura almeno, alla loro soluzione. Cerchiamo, per quanto possibile, di farlo insieme; che da questa mia visita e da questa nostra raggiunta concordia e serenità sgorghi, come il fiume che Ezechiele vide sgorgare dalla porta orientale del Tempio di Gerusalemme (Ez 47,1 ss.), una sorgente fresca e benefica che aiuti a sanare le piaghe di cui Roma soffre. Nel far ciò, mi permetto di dire, saremo fedeli ai nostri rispettivi impegni più sacri, ma anche a quel che più profondamente ci unisce e ci raduna: la fede in un solo Dio che “ama gli stranieri” e “rende giustizia all’orfano e alla vedova” (Dt 10,18), impegnando anche noi ad amarli e a soccorrerli (Lv 19,18.34). I Cristiani hanno imparato questa volontà del Signore dalla Torah, che voi qui venerate, e da Gesù che ha portato fino alle estreme conseguenze l’Amore domandato dalla Torah. Non mi rimane adesso che rivolgere, come all’inizio di questa mia allocuzione, gli occhi e la mente al Signore, per ringraziarlo e lodarlo per questo felice incontro e per i beni che da esso già scaturiscono, per la ritrovata fratellanza e per la nuova più profonda intesa tra di noi qui a Roma, e tra la Chiesa e l’Ebraismo dappertutto, in ogni Paese, a beneficio di tutti. Perciò vorrei dire con il salmista, nella sua lingua originale che è anche la vostra ereditaria: “Celebrate il Signore, perché è buono: perché eterna è la sua misericordia. Dica Israele che egli è buono: eterna è la sua misericordia. Lo dica chi teme Dio: eterna è la sua misericordia (Sal 118,1-2.4). Amen”. Scrive la storica Anna Foa sul Rav Toaff: “Era il suo tempo, eppure speravamo che l’angelo della morte si fosse dimenticato di lui, come di tanti altri della sua generazione: uomini forti, intelligenti, anime delle loro comunità, dei loro paesi. Per questo la scomparsa di Rav Toaff ci ha sorpreso, oltre che addolorato. È difficile dire in poche parole qual’è stato il suo ruolo. Ha traghettato la Comunità di Roma fuori dal lutto della Shoah, ha aperto al mondo ed è stato il tramite tra gli ebrei di Roma (e non solo di Roma) e le istituzioni, il mondo esterno. È stato in ogni momento attento agli altri, mai chiuso o ostile al mondo esterno. Ricordo quando ha preso accanto a sé, in un discorso pubblico, due bimbi rom, con tenerezza. È stato un politico abilissimo, ma della stirpe di quei politici che abbiamo perduto, per cui la politica è una passione autentica e disinteressata. È stato un grande studioso, un grande ebreo. Ci mancherà”. Scrive Vittorio Mosseri, Presidente Comunità ebraica di Livorno: “Rav Elio Toaff, sia il suo ricordo di benedizione, un uomo che ha saputo caratterizzare la vita dell’intero Ebraismo italiano. Un uomo che ha reso e continua a rendere onore a Livorno, anche con questo suo ultimo atto di volontà che lo vuole sepolto al fianco della moglie, nella città in cui nacque e in cui germogliarono i primi semi di una carriera rabbinica destinata a lasciare il segno. La città dove aveva ottenuto, ultimo studente, la Laurea rabbinica, presso la prestigiosa Scuola Rabbinica Livornese. In queste ore di profonda commozione e cordoglio, in queste ore in cui vecchie e nuove testimonianze ci sfiorano, sentiamo tutta la città di Livorno vicina e partecipe al lutto. Il sindaco, le istituzioni, tanti comuni cittadini. Pur non essendo stato rabbino a Livorno, Rav Toaff ha sempre mantenuto saldo il proprio rapporto con le radici ed è stato per molti anni un punto di riferimento per tanti di noi. Lo ricordo come uomo dalla spiccata sensibilità e umanità, oltre i prestigiosi incarichi che ha ricoperto in una vita che è stata lunga, intensa e proficua. Un aneddoto tra gli altri mi ha sempre commosso. E cioè il fatto che – mi è stato raccontato – si facesse accompagnare a prendere il caffè sul litorale di Ostia. Per vedere il mare, quel mare che in qualche modo gli ricordava Livorno. Grazie Rav. Sei stato un esempio, una guida, la coscienza spirituale e morale dell’Ebraismo italiano. La tua lezione e il tuo sorriso non saranno dimenticati”. È dunque urgente condannare e prevenire l’antisemitismo e l’antisionismo. Il Forum Globale per Combattere l’Antisemitismo (#‎GFCA) che avrà luogo a Gerusalemme tra il 12 ed il 14 Maggio 2015, rappresenta un ritrovo per valutare lo stato dell’antisemitismo a livello globale e per formulare delle iniziative sociali e governative per porre fine a tale fenomeno. Il GFCA è una coalizione attiva di figure pubbliche, leader politici, membri del clero, giornalisti, diplomatici, educatori e cittadini dediti all’innovazione antropologica, culturale e sociale nel superamento della intolleranza verso l’altro e nella sconfitta di ogni forma di razzismo e odio dovuto a ragioni etniche e religiose. Fra le iniziative per festeggiare i 95 anni di Toaff, il Museo Ebraico di Roma insieme alla Fondazione Elio Toaff per la cultura, presentarono la mostra “Auguri a Rav Toaff: omaggio a un grande ebreo italiano”, allestita al Museo Ebraico della Capitale. Curata dalla direttrice Daniela Di Castro e da Caterina Napoleone, proponeva documenti, foto d’epoca e testimonianze. Fra le varie iniziative anche la pubblicazione di una raccolta di studi coordinata dalla storica Anna Foa e un documentario con materiali delle cineteche Rai, per ripercorrere la vita del Rav Toaff, maestro di vita e guida spirituale della Comunità Ebraica di Roma. Nel corso del suo lungo incarico rabbinico, Rav Toaff ha saputo guardare al mondo esterno alla realtà ebraica e, mostrando una formidabile capacità di comprensione dei mutamenti politici e culturali del Belpaese, è riuscito a rendere la Comunità interlocutrice rispettata delle Istituzioni italiane, senza perdere mai di vista le proprie origini e la propria identità. La Fondazione “Elio Toaff” si propone di contribuire al progresso della Comunità ebraica

i Roma soprattutto nell’ambito della promozione della cultura, della tutela, della conservazione e dell’incremento del patrimonio culturale ebraico in tutta l’Italia. “Ma soprattutto – è il sentito augurio di Toaff, diretto a tutti – di non perdere mai l’occasione di impegnarsi nelle due attività che ci fanno essere noi stessi. Aiutare gli altri. E studiare”. Shalom alechem!

© Nicola Facciolini

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