La logica rigorosa della Scienza salverà il mondo per conquistare la Pace

Te Deum! La logica rigorosa della Scienza salverà il mondo nell’Anno Domini 2016, per conquistare “l’alte vie dell’universo intero”. Non gli imperi galattici di Star Wars. Altrimenti faremo la fine di Atlantide, inaugurando “Waterworld” sulla faccia della Terra. Correva l’Anno del Signore 1824, il mese di Maggio, quando nel “Dialogo della Natura e di un […]

Te Deum! La logica rigorosa della Scienza salverà il mondo nell’Anno Domini 2016, per conquistare “l’alte vie dell’universo intero”. Non gli imperi galattici di Star Wars. Altrimenti faremo la fine di Atlantide, inaugurando “Waterworld” sulla faccia della Terra. Correva l’Anno del Signore 1824, il mese di Maggio, quando nel “Dialogo della Natura e di un Islandese” Giacomo Leopardi deposita l’amaro disincanto del suo “pessimismo cosmico”, un concetto prossimo all’idea di Natura matrigna e nepotistica, appresa da tutti sui banchi di liceo e divenuta manifesto del naturalismo leopardiano. All’Islandese preda degli affanni che invano scappa dalla Natura percorrendo il globo, essa rivela d’improvviso la sua incontenibile potenza replicandogli indifferente: “Io sono quella che tu fuggi”. La lezione leopardiana riverbera nell’ultimo volume di Gaspare Polizzi “Io sono quella che tu fuggi”, uno studio rigoroso che restituisce la concezione leopardiana della Natura così complessa e ricca di accenti filosofici e scientifici, alla luce della Fisica Quantistica, sfuggenti nelle tradizionali definizioni scolastiche. Il risultato è una fitta rete di nessi intricati tra il pensiero scientifico moderno e l’opera omnia del Poeta, la sua filosofia della natura, le cui fonti superano l’esclusivo “orizzonte degli eventi” umanistico per abbracciare le Scienze. Tra quelle studiate, l’Astronomia, più delle altre, cattura lo sguardo affascinato di Leopardi, spesso intento a volgere al cielo i suoi occhi di bam
circolazione di tematiche talvolta estranee ai veri e propri obiettivi della scienza accademica, contribuì indubbiamente allo sviluppo di questa convinzione, unitamente alla progressiva specializzazione delle discipline scientifiche e umanistiche caratterizzate sempre più da un linguaggio di non facile accesso ai non specialisti. In questo contesto, Atlantide iniziò ad assumere un significato ben diverso da quello che gli era stato attribuito dopo la scoperta dell’America nel 1492. E non deve sorprendere che, negli ultimi decenni dell’Ottocento, sia stato un altro personaggio non accademico a fornire al dibattito sull’esistenza di Atlantide una nuova, straordinaria popolarità. Ignatius Donnelly, uomo politico (vice governatore del Minnesota e membro della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti d’America) e cultore di storia antica al pari del celebre collega britannico William Ewart Gladstone. Fu grazie a Donnelly se le discussioni su Atlantide cominciarono ad uscire dalle stanze degli specialisti per diventare uno dei terreni privilegiati di azione di appassionati e non professionisti. Nel 1882 Donnelly pubblicò l’opera “Atlantis: The Antediluvian World”, nella quale veniva presentata una personale e disinvolta rielaborazione di tutte le tipiche tematiche che avevano attraversato il dibattito sull’esistenza di Atlantide nei due secoli precedenti, attraverso l’enunciazione di  tredici affermazioni fondamentali: “un tempo nell’Oceano Atlantico, di fronte alle Colonne d’Ercole, esisteva un’isola immensa, che era quanto restava di un continente noto nell’antichità con il nome di Atlantide; la descrizione di tale isola fornita da Platone non era, contrariamente a quanto si era a lungo ritenuto, frutto di fantasia, ma un autentico resoconto storico; Atlantide fu la prima area del mondo dove l’Uomo passò dalla barbarie alla civiltà; nel corso del tempo Atlantide divenne una nazione popolosa e potente, dalle cui migrazioni le coste del Golfo del Messico, del fiume Mississippi, del Rio delle Amazzoni, della costa pacifica del Sud America, del Mediterraneo, delle coste occidentali di Europa e Africa, del Baltico, del Mar Nero e del Mar Caspio furono colonizzate, sviluppando a loro volta popolazioni locali civilizzate; si trattava del vero mondo Antidiluviano, ossia del Giardino dell’Eden, del Giardino delle Esperidi, dei Campi Elisi, del Giardino di Alcinoo, del Mesomphalos, dell’Olimpo, dell’Asgard delle storie degli antichi popoli, a rappresentanza della memoria universale di una grande terra, popolata a lungo da un’umanità arcaica, pacifica e prospera; gli dei e le dee degli antichi Greci, dei Fenici, degli Indù e degli Scandinavi non erano altro che re, regine ed eroi di Atlantide, e le azioni attribuite loro nella mitologia sono un insieme confuso di eventi storicamente accaduti; le mitologie di Egitto e Perù ritraevano la religione originaria di Atlantide, veneratrice del Sole; la colonia più antica degli Atlantidei fu probabilmente in Egitto, la cui civiltà riproduceva quella dell’isola originaria; i manufatti dell’Età del Bronzo europea avevano avuto origine in Atlantide e furono gli Atlantidei a lavorare per primi il ferro; l’alfabeto fenicio, progenitore di tutti gli alfabeti europei, derivava da quello di Atlantide, che fu trasmesso ai Maya dell’America centrale; Atlantide fu l’originaria dimora del gruppo dei popoli Ariani o Indo-Europei, così come dei popoli Semitici e probabilmente anche dei Turanidi; Atlantide perì a seguito di un terribile disastro naturale, in cui l’intera isola sprofondò nell’Oceano, trascinando con sé quasi tutti i suoi abitanti; solo alcuni scamparono a bordo di navi e zattere e, ovunque approdarono, narrarono la spaventosa catastrofe; quelle storie sono giunte a noi in forma di leggende su inondazioni e diluvi avvenuti in diverse zone del mondo antico e moderno”. Donnelly utilizzò molte delle più recenti acquisizioni scientifiche per corroborare la bontà delle sue speculazioni. Si appoggiò ai risultati delle spedizioni che in quegli anni dettero inizio alla moderna Oceanografia, fra cui quella fondamentale del Challenger (1872-1876). John Murray, uno dei padri di questa nuova scienza e tra i più importanti membri del Challenger, dubitava nel 1913 che gli scandagli effettuati dalle spedizioni oceanografiche dimostrassero, come riteneva Donnelly, l’esistenza di un antico continente collocato nell’Atlantico: “Si è supposto che le montagne occidentali dell’Europa e le montagne orientali degli Stati Uniti altro non siano che i resti delle grandi catene montane dell’Atlantide, ora seppellita sotto il fondo del Nord Atlantico; si è supposto inoltre che parti del Sud America, dell’Africa e dell’India siano i resti di un continente ora sepolto sotto i piani sommersi del grande Oceano del Sud; ma lo studio delle profondità oceaniche e dei sedimenti rocciosi non pare diano ragione all’ipotesi che una terra continentale abbia potuto sparire sotto il fondo del mare nel modo testé indicato”. Queste affermazioni, tuttavia, non avevano ancora la forza per essere decisive. Nel 1911 il ritrovamento di Machu Picchu, la città perduta degli Inca, ad opera di Hiram Bingham, destò una enorme sensazione nell’opinione pubblica, grazie anche alle foto diffuse dalla celebre rivista “National Geographic”. Negli anni successivi Bigham tornò varie volte a Machu Picchu, contribuendo a rendere l’archeologia sempre più popolare. In breve tempo anche la città degli Inca sarebbe stata “collegata” alla storia di Atlantide e all’esistenza di un antichissimo popolo che aveva diffuso la civiltà in tutto il mondo. Datazioni tutte da definire, remote culture, mondi perduti, sorprendenti scoperte e fantastici miti, contribuivano a rendere ancora molto incerto il quadro degli studi archeologici e antropologici. In una guida turistica dell’Egitto, pubblicata all’indomani della scoperta della tomba di Tutankhamon, ufficialmente aperta il 29 Novembre 1922, si poteva leggere: “La Sfinge resta ai nostri giorni il grande enigma della sabbia per gli egittologi. Le è attribuita un’antichità molto grande. Sembra essere esistita molto tempo prima della costruzione della Grande Piramide di Cheope, vecchia 5700 anni, e rappresentare l’unica testimonianza di una civiltà molto remota esistita prima dell’era della costruzione delle piramidi”. Fu proprio l’Egitto, in quegli anni, a stimolare lo sviluppo del cosiddetto “diffusionismo”. La concezione secondo la quale è impossibile che un’invenzione o un’innovazione possano realizzarsi in maniera autonoma in popoli situati in luoghi diversi e lontani fra loro. Concetto che contribuì a rendere plausibili le ipotesi relative ad Atlantide come punto di origine della civiltà: bastava semplicemente sostituire Atlantide con Egitto e il gioco era fatto. Soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale, lo sviluppo delle ricerche scientifiche sarà in grado di mostrare con certezza, sulla base di nuove prove e documenti, l’inconsistenza delle affermazioni di Donnelly, prima fra tutte quella relativa all’esistenza di un antico continente nell’Oceano Atlantico. Tali prove, tuttavia, hanno fatto fatica a imporsi al grande pubblico e oggi continuano ad essere ben presenti sia in ambito pseudoscientifico sia in quello del cinema, della letteratura e dei fumetti, nonostante le attuali mappe di “Google Earth”. Come dimostra anche “Topolino”, l’idea che Atlantide abbia rappresentato il luogo di origine della prima civiltà umana, poi cancellata da una catastrofe, è stata ampiamente presente nella cultura popolare della seconda metà del Novecento, e continua ad esserlo tutt’oggi grazie all’Ufologia. Nel 1956, nel suo “Altmexikanische Kulturen” (Civiltà dell’antico Messico) Walter Krickeberg presenta le più recenti scoperte archeologiche relative ai popoli dell’antico Messico, che smentiscono l’esistenza di una relazione fra le antiche civiltà del Vecchio e Nuovo Mondo e, conseguentemente, buona parte dell’impianto di Donnelly: “questa ipotesi ebbe un’apparenza di verità soltanto fintantoché furono malamente note le antiche civiltà americane, e perciò si poteva credere giusto giungere a tale conclusione sui rapporti fra esse e le civiltà mediterranee o europee basandosi su vaghe somiglianze”. Due anni dopo, Peter Kolosimo, il noto divulgatore di misteri, ribalta tranquillamente queste conclusioni nel suo primo libro, “Il pianeta sconosciuto”, più volte aggiornato in numerose edizioni: “Troppi sono, infatti, i misteriosi legami che paiono unire la cultura egizia a quella dei preistorici abitanti d’America, dalla mitologia all’arte, all’architettura (è sotto il comune segno delle piramidi che fioriscono le due lontanissime civiltà), al folclore, al simbolismo, alla stessa scrittura, che presenta elementi di straordinaria affinità, persino caratteri geroglifici del tutto simili”. Nel Marzo 2015, la rivista “Archeo Misteri Magazine” dedica un articolo ad Atlantide (“I Re di Atlantide diventarono gli dei”), riproducendo un estratto dell’opera di Donnelly che viene presentata in questi termini: “a oltre 120 anni di distanza, le sue argomentazioni non hanno minimamente perso la propria attualità”! Forse per i fumetti e il fantasy. Non certamente per la ricerca scientifica che oggi guarda alle altre stelle. Mentre uno studio guidato da Beniamino Gioli dell’Istituto di Biometeorologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Ibimet-Crt) e da Donatella Zona della University of Sheffield, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” (Pnas), evidenzia come nella stagione fredda le emissioni di gas serra della regione artica possano essere sorprendentemente maggiori che in Estate. Le conoscenze disponibili finora, spiegano i ricercatori, lasciavano credere che gli ecosistemi artici fossero emettitori di gas serra solo nella stagione calda, quando il permafrost riesce a scongelarsi in superficie e la sostanza organica viene decomposta, causando il rilascio di Metano (CH4). Gli studi si concentravano però soltanto sui mesi estivi, trascurando quelli invernali e primaverili che rappresentano il 70-80% dell’anno nelle regioni artiche. I dati raccolti, che saranno assimilati in nuove parametrizzazioni delle emissioni di Metano nei modelli climatici globali, contribuiranno al miglioramento delle strumentazioni e dei metodi atti a prevedere il ruolo degli ecosistemi nei processi climatici. Perchè, a quanto pare, “Moby Dick” ama anche le acque italiane. Un gruppo di femmine e giovani maschi di capodoglio popola il Mar Ionio. È frutto di una ricerca apparsa su “Plos One”, condotta da un’ampia collaborazione scientifica nell’ambito del progetto “Submarine Multidisciplinary Observatory” finanziato dal Programma Futuro in Ricerca del Miur. Le informazioni utili a ricostruire l’identikit di questa popolazione di cetacei sono state ottenute grazie a particolari microfoni sottomarini messi a punto dall’Infn. I segnali emessi dai cetacei, opportunamente intercettati, analizzati ed elaborati dai ricercatori, hanno consentito di ricostruire le dimensioni dei diversi esemplari. Una popolazione di capodogli, i maestosi animali marini resi celebri dal romanzo “Moby Dick”, abita al largo delle coste del Golfo di Catania, nel Mar Ionio. Fortunatamente, però, sulle tracce dei cetacei nostrani non ci sono cacciatori di balene vendicativi come i protagonisti del capolavoro di Herman Melville, ma fisici e biologi dalle intenzioni pacifiche, riuniti in nome della Scienza nel progetto “SMO-Submarine Multidisciplinary Observatory”. La caccia del tutto incruenta ingaggiata dai ricercatori verso questi affascinanti esemplari viene condotta attraverso la stazione di ascolto sottomarina di nome “Onde”, posizionata a 25 chilometri dalle coste di Catania e a una profondità di 2100 metri sotto il livello del mare, equipaggiata di speciali sensori acustici messi a punto dai Laboratori Nazionali del Sud dell’Infn. Grazie ai sofisticati microfoni sottomarini impiegati nel progetto SMO, i ricercatori sono riusciti a catturare i segnali acustici emessi dai capodogli del Mar Ionio per comunicare tra loro: i “click”, come vengono chiamati, sono gli impulsi multipli della durata di poche decine di millisecondi emessi dalla parte frontale dell’imponente cervello di questi giganti del mare. Analizzando i segnali acustici intercettati, i fisici e biologici della collaborazione SMO hanno così realizzato insieme un nuovo algoritmo che ha consentito loro di ricostruire le dimensioni dei capodogli. “I risultati mostrano che nell’area del Golfo di Catania in precedenza poco studiata – rivela Francesco Caruso, biologo del Dipartimento di Scienze Biologiche e Ambientali dell’Università di Messina, tra gli autori della ricerca – la popolazione di capodogli ha una dimensione compresa tra i 7,5 e i 14 metri, ed è rappresentata soprattutto da femmine adulte o giovani maschi”. L’analisi dimostra che la distribuzione della taglia degli esemplari varia anche in funzione dei diversi periodi dell’anno. La tecnologia utilizzata per ottenere queste informazioni, definita Monitoraggio Acustico Passivo, è nuova e promettente perché, basata solo sull’ascolto continuo ad alta risoluzione dell’ambiente marino profondo, consente di misurare i livelli di inquinamento acustico del mare. Questa tecnologia potrebbe essere presto utilizzata per proteggere i capodogli e altri grandi cetacei come le balene dall’attività marittima dell’uomo, segnalandone la presenza alle navi che potrebbero incrociarne la rotta, come spiega Giorgio Riccobene dei Lns, responsabile del progetto SMO. Un obiettivo importante, questo, dal momento che il capodoglio, un animale prezioso per l’equilibrio ecologico dei nostri mari, è incluso nella lista rossa delle specie ad alto rischio di estinzione dell’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura. Finanziato nell’ambito del programma Futuro in Ricerca del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, “Submarine Multidisciplinary Observatory” utilizza antenne sperimentali originariamente nate per testare nuove tecnologie per la costruzione del Telescopio Sottomarino di Neutrini “KM3NeT”, che hanno trovato importanti e immediate applicazioni anche nel campo della Biologia e della Geofisica. Il progetto coinvolge, oltre all’Infn e all’Università di Messina, anche La Sapienza Università di Roma, il Centro Interdisciplinare di Bioacustica e Ricerche Ambientali dell’Università di Pavia, il Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Catania e l’Istituto per l’Ambiente Marino e Costiero del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Capo Granitola, a Trapani. Te Deum! “Noi Ti lodiamo, Dio Ti proclamiamo  Signore. O eterno Padre, tutta la terra Ti adora. A Te cantano gli Angeli e tutte le Potenze dei cieli: Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’Universo. I cieli e la terra sono pieni della Tua gloria. Ti acclama il coro degli Apostoli e la candida schiera dei martiri; le voci dei profeti si uniscono nella Tua lode; la santa Chiesa proclama la Tua gloria, adora il Tuo unico figlio, e lo Spirito Santo Paraclito. O Cristo, re della gloria, eterno Figlio del Padre, Tu nascesti dalla Vergine Madre per la salvezza dell’uomo. Vincitore della morte, hai aperto ai credenti il regno dei cieli. Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi. Soccorri i Tuoi figli, Signore, che hai redento col Tuo sangue prezioso. Accoglici nella Tua Gloria nell’assemblea dei santi. Salva il Tuo popolo, Signore, guida e proteggi i Tuoi figli. Ogni giorno Ti benediciamo, lodiamo il Tuo nome per sempre. Degnati oggi, Signore, di custodirci senza peccato. Sia sempre con noi la Tua misericordia: in Te abbiamo sperato. Pietà di noi, Signore, pietà di noi. Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno”.

© Nicola Facciolini

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