Assemblea 2016 Confcommercio, la relazione del Presidente Carlo Sangalli

Signora Presidente della Camera dei deputati, cari Ministri, Autorità, cari amici e care amiche di Confcommercio, benvenuti all’Assemblea Generale 2016 di Confcommercio-Imprese per l’Italia. Abbiamo sentito storie di singole imprese che sono diventate una storia collettiva e popolare, grazie alla Confcommercio, la più numerosa libera associazione d’impresa in Europa. Quest’anno siamo passati attraverso cento iniziative […]

Signora Presidente della Camera dei deputati, cari Ministri, Autorità, cari amici e care amiche di Confcommercio, benvenuti all’Assemblea Generale 2016 di Confcommercio-Imprese per l’Italia. Abbiamo sentito storie di singole imprese che sono diventate una storia collettiva e popolare, grazie alla Confcommercio, la più numerosa libera associazione d’impresa in Europa. Quest’anno siamo passati attraverso cento iniziative simboliche sul territorio nazionale per chiudere al Teatro La Fenice di Venezia alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il nostro settantennale è stato un cammino entusiasmante tra identità e futuro. Senza memoria comune ed aspettative condivise non esiste nessun vero argomento economico. Ed oggi, siamo al giro di boa. Per metterci alle spalle, ancora una volta, il vento del cambiamento. Siamo sempre stati un’organizzazione “di frontiera”.

Una frontiera mobile, che in questi decenni ha spostato la rappresentanza sempre un po’ più in là, un passo in avanti. Basti pensare alla trasformazione del terziario di mercato. 70 anni fa si diceva Confcommercio e si parlava di “commercio”. Oggi si dice Confcommercio-Imprese per l’Italia e si intende commercio, servizi, turismo, trasporti, logistica e professioni. Ma non solo. La Confcommercio è sempre stata là, dove si spostava la frontiera della politica e delle istituzioni, del territorio e del mondo, della tradizione e del futuro. Siamo stati e restiamo terra di confine: pronti a difendere quello che siamo stati, pronti a cambiare quello che siamo, pronti a dare il nostro contributo per un Paese più moderno e più giusto. Più moderno e più giusto. Perché su riforme ed equità riteniamo si giochi il destino dell’Italia. Abbiamo da tempo sostenuto la necessità e l’urgenza di riforme istituzionali. Soprattutto per rafforzare la governabilità del Paese e quindi promuovere con maggiore efficacia l’economia diffusa, che richiede decisioni chiare e rapide. A questo punto è per noi importante che si sviluppi nel Paese un approfondito dibattito sui contenuti delle riforme. Ed anche per tale ragione, svolgeremo un’articolata riflessione negli organi confederali. Mi piace l’immagine delle faglie e delle soglie. Le faglie sono le spaccature, i crepacci che dividono il Paese e lacerano il suo sviluppo. Le faglie sono i problemi. Poi ci sono le soglie. E sono le soluzioni. Le soglie sono rappresentate da coloro che ricuciono e costruiscono. Come noi, corpi intermedi, gente di squadra. Capaci di metterci a disposizione, di fare anche i gregari come Michele Scarponi che, conquistata in solitaria la vetta della Cima Coppi, ha poi rinunciato al traguardo di tappa per aiutare il suo capitano nella vittoria finale. Il nostro capitano è il Paese. La prima faglia si vede guardando i dati della nostra economia.

Un anno fa parlavamo di segnali di ripresa, una previsione che solo in parte si è realizzata. In questi 12 mesi, in Italia, occupazione, consumi, produzione, fiducia, credito, hanno seguito un andamento altalenante non riuscendo ad imprimere alla ripresa un cambio di passo. Anche il dato di aprile del nostro indicatore sui consumi, pure positivo, non contribuisce a diradare la nebbia che avvolge ancora le possibilità di crescita dell’economia italiana. Lo scenario internazionale è altrettanto articolato. Tassi d’interesse e tassi di cambio dovrebbero spingere investimenti ed esportazioni, ma non stanno funzionando. Bassi prezzi del petrolio e delle altre materie prime dovrebbero premiare i Paesi, come l’Italia, che trasformano e vendono sui mercati esteri. Eppure, la drammatica crisi dei migranti, il rallentamento dell’economia cinese, le recessioni in alcuni paesi emergenti e il rischio Brexit, mettono in discussione il teorema che la crisi sia soltanto un brutto ricordo. Insomma, siamo di fronte ad una ripresa senza slancio e senza intensità. Una ripresa senza mordente che non salta mai la faglia, il crepaccio tra stagnazione e crescita. Come abbiamo visto, il nostro Paese ha ancora molta strada da fare, ma ha certamente le carte in regola per fare meglio. E vogliamo mantenere una quota di ottimismo. Ma per fare meglio si devono realizzare alcune condizioni necessarie. La più importante riguarda l’IVA. L’intenzione del governo di non far scattare le clausole di salvaguardia nel 2017 e quindi di non toccare l’IVA è un impegno irrinunciabile per la crescita. Certo, va rafforzata la capacità del sistema-Italia di competere sui mercati internazionali, come giustamente ripete il Ministro Calenda. E’, però, altrettanto vero che senza una solida ripresa dei consumi interni non può esserci uno sviluppo diffuso. “Spostare la tassazione sulle cose”, quindi aumentare l’IVA, è come lanciare un boomerang. Perché alla fine l’IVA la paghiamo tutti. Occorre, invece, intervenire sui nodi strutturali che bloccano la crescita. Un buon punto di partenza sono i patti europei. Va riconosciuto al Governo Renzi di avere riportato alla giusta dignità la dimensione della crescita all’interno del Patto di Stabilità. La recente conferma dei margini di flessibilità riconosciuti, e non già graziosamente concessi, dalla Commissione europea alla nostra politica fiscale, è di buon auspicio. E’ necessario, inoltre, proseguire lungo il sentiero di riduzione del rapporto debito/Pil, comprimendo senza esitazioni gli sprechi e le inefficienze della spesa, dismettendo asset pubblici con determinazione e riducendo, infine, il perimetro dell’azione pubblica dove non è necessaria, e talvolta dannosa.

La buona flessibilità conquistata in sede europea costituirebbe lo spazio per ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, ad oggi ancora per nulla compatibile con un Paese più moderno ed equo. Comunque, bene l’avvio della riforma della pubblica amministrazione, l’impegno di ridurre i carichi burocratici sulle imprese, alcune misure contenute nel Jobs Act, una politica fiscale distensiva. Riconosciamo, dunque, i passi in avanti mossi in materia fiscale. Provvedimenti senz’altro utili nella logica della solidarietà e dell’emergenza, che rischiano però di essere poco incisivi nella prospettiva della crescita di lunga lena. Avanziamo un dubbio: forse è mancata una visione organica del fisco che si vuole per un’Italia più forte e più dinamica. Il fisco che funziona è equo, trasparente, stabile e fatto di pochi tributi. Non capiamo come mai il nostro Paese debba rimanere il secondo in Europa per prelievo sul reddito delle persone e il terzo per quello sull’impresa. Come non capiamo perché nel nostro Paese occorrano 270 ore per assolvere agli adempimenti amministrativi. E non capiamo, ancora, perché la Tari può costare dieci volte di più tra due comuni confinanti. Ecco perché proponiamo da tempo una profonda riforma fiscale, in particolare dell’IRPEF. Una riforma che preveda poche aliquote e l’introduzione di una “no tax area” uguale per tutti i lavoratori, siano essi dipendenti o autonomi. Cari amici, noi siamo per una forte e coraggiosa lotta all’evasione, all’elusione fiscale, alla corruzione. I proventi derivanti dalla lotta all’evasione e all’elusione devono, però, essere rimessi in gioco – e subito – per ridurre le aliquote e, quindi, a beneficio di tutti. La controparte di un fisco equilibrato è una buona spesa pubblica. E, a questo proposito, forse un giorno, spero prossimo, dovremo immaginare di inserire nella Costituzione un vincolo alla spesa pubblica complessiva. Consentendo così nelle fasi di picco, di crescita, la riduzione della spesa e durante le fasi di recessione la riduzione delle imposte. In modo tale da avere, quindi, meno spesa e meno imposte.

La democrazia sostanziale si basa sul circolo virtuoso tra cittadini e pubblica amministrazione. Con una regola facile facile: tutte le risorse partono dai cittadini e tutte tornano agli stessi cittadini in termini di servizi. Ed è la migliore assicurazione per riprendere il cammino di crescita economica diffusa e per rendere il mercato, un mercato delle opportunità. Un mercato libero è quello che salvaguarda le regole del gioco. A partire dalla professionalità degli imprenditori, dal valore del pluralismo distributivo e quindi, in ultima istanza, a garanzia dei consumatori. Professionalità, pluralismo, centralità dei consumatori significano, in sostanza, qualità dell’impresa e del lavoro, e quindi qualità della vita nelle nostre città. Perché, la nostra preoccupazione è che dietro l’angolo ci sia la deriva delle città “arcipelago”. Dove ci sono isole, talvolta ghetti etnici e sociali, e non ci sono ponti. Mentre sono proprio i ponti che fanno la città. Le città sono relazioni, sono scambi, sono collegamenti. C’è, insomma, il rischio di desertificazione come ha ricordato una recente analisi del nostro Ufficio Studi. Negli ultimi sette anni nei centri storici, soprattutto quelli delle medie città italiane, si è assistito ad una forte riduzione dei negozi tradizionali, delle attività di prossimità, che fanno comunità. E lo stesso vale per le periferie delle grandi città o per i tanti piccoli centri del nostro Paese. Per questa ragione, abbiamo dato il via ad un vero e proprio Patto per le città, con l’Anci, per progettare insieme gli spazi di vita e d’impresa, ma anche per spendere di più e meglio i fondi strutturali dell’Agenda urbana europea. Italo Calvino nelle Città Invisibili scriveva che “d’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”. E la nostra domanda di senso politico resta sempre quella della sussidiarietà, per la quale una democrazia è incompiuta se concentra risorse e poteri, se dimentica le tante autonomie, da quelle locali, a quelle funzionali, a quelle sociali. Siamo per una Repubblica che promuova fino in fondo il decentramento, il protagonismo che nasce dal basso, dagli enti locali, dalle associazioni, dal no-profit. Siamo per una Repubblica delle autonomie e dei territori. Siamo accanto ai Sindaci, ai Presidenti delle Regioni e delle Camere di commercio.

Le istituzioni del territorio sono il primo e fondamentale argine contro l’illegalità. Gli imprenditori hanno il sacrosanto diritto a lavorare in un contesto sereno e sicuro. L’impegno e l’attività di Confcommercio, in questo ambito si sono rafforzati ed è cresciuta la collaborazione con il Ministro Alfano. Ci sono aree del nostro Paese in cui fare impresa, aprire un negozio, mettere su una start up richiede coraggio. Il coraggio e la speranza di vivere e lavorare in un Paese “normale”. Un Paese, cioè, che – in ogni Regione – dia per scontate le condizioni base di sicurezza e legalità. Un Paese “normale” dove anche nel Meridione, il turismo possa esprimere il suo effetto leva per l’economia reale. Ricordo solo un dato: la riduzione della spesa e della permanenza media dei turisti stranieri in Italia, negli ultimi 15 anni, fa mancare all’appello 38 miliardi di euro di entrate valutarie. Il turismo non vive né di rendita, né di exploit. E’ quindi ora di rivedere e migliorare il nostro modello di offerta, di governance, di promozione, di servizi. E siamo in attesa del nuovo Piano strategico nazionale per il turismo, alla cui costruzione abbiamo partecipato insieme a Regioni e territori. Oggi Confcommercio è sempre più la casa comune delle imprese del trasporto e della logistica. E’ un settore che più di altri ci chiama infatti all’importanza di “connettere”: connettere la rappresentanza, connettere il Paese. Basterebbe migliorare l’accessibilità delle nostre Regioni di solo il 5% per avere un incremento del Pil di 24 miliardi di euro. L’accessibilità è un tema strategico per il Paese, di competitività e di apertura globale, che include le grandi opere nei valichi alpini, l’ammodernamento della rete viaria, la “cura del ferro”, fino alle autostrade del mare. Ma sono anche urgenti, misure come quelle in favore del cabotaggio nazionale. Perché l’imprenditore si assume il rischio, ci mette lavoro, idee, soldi, vita. Ma senza gli strumenti giusti per lavorare, senza moderne reti infrastrutturali, il suo diventa un impegno “contro” gli ostacoli, non “per” la crescita. C’è un altro tema che richiama le reti per la crescita. Ed è quello del credito. Una rete che a volte invece di rilanciare, rischia di impigliare gli imprenditori. Perché l’accesso al credito resta un fronte aperto per le aziende. Ed è un tema oggi non tanto di disponibilità finanziaria, quanto di garanzie e, quindi, di fiducia. Proprio di fiducia si occupano i nostri Confidi. Strumenti essenziali per l’economia diffusa, in profondo rinnovamento, ma con un valore aggiunto “sociale”. Un ideale antico di “auto-aiuto”, dove gli imprenditori offrono risorse e garanzie ad altri imprenditori. In questa crisi infinita, i Confidi hanno sostenuto le ragioni di sviluppo, ma anche di sopravvivenza di migliaia di piccole aziende. Eppure, anziché essere riconosciuti, i nostri Confidi si sono trovati la concorrenza “in casa”, rappresentata dagli strumenti statali che erano stati pensati per loro. Per questo chiediamo un ritorno alle ragioni originarie del Fondo centrale che garantisca, attraverso i Confidi, il credito alle piccole e medie imprese.

Agli amici delle banche chiediamo un ritorno a quell’originale spirito d’intrapresa che ha permesso investimenti e sviluppo dell’economia reale. La sola politica di rating e semafori rischia di ampliare la distanza con le aziende. C’è invece bisogno di prossimità, di vicinanza, di partecipazione. La drammatica crisi che correntisti ed imprenditori stanno vivendo sulla loro pelle per il problema di alcune banche locali non dipende mai da troppo coraggio o troppa fiducia. Ma da quel paradosso di troppo credito senza garanzie, troppe garanzie senza credito. Ho riguardato bene, in occasione della festa della Repubblica, il simbolo del nostro Paese: la stella, i rami d’ulivo e di quercia e, all’interno, la ruota dentata che richiama l’articolo 1 della Costituzione e la centralità del lavoro. Il lavoro che c’è e quello che si crea. E anche quello che manca: per i giovani e gli esodati, per i piccoli imprenditori che chiudono e per le start up che rinunciano. Ma il lavoro è anche uno strumento: di dignità prima ancora che di cittadinanza. Confcommercio ha sottoscritto, lo scorso anno, il rinnovo del più grande contratto nazionale del lavoro, quello del terziario, che è vita quotidiana di tre milioni di lavoratori, all’insegna della flessibilità e della produttività per le aziende, con la possibilità di regolare direttamente col sindacato specifiche necessità. Un contratto, insomma, dove i due livelli negoziali – nazionale ed aziendale – sono complementari, senza dover, a tutti i costi, privilegiare una sola strada. Magari decisa dall’alto, rinunciando a quel patrimonio di idee e di impegno comune delle parti sociali. Ecco perché siamo convinti che la materia dei contratti vada lasciata all’autonomia delle parti. Ce lo dice la nostra esperienza, lunga, in questa materia: non esiste una sola rotta per legare flessibilità e produttività e ogni settore ha il suo orizzonte. Con questa idea, abbiamo avviato negli ultimi mesi una riflessione importante con Cgil, Cisl e Uil. Il contratto è una fondamentale declinazione di libertà, come individui e come associazioni. Vengo ad una seconda riflessione: il costo del lavoro. Il Governo ha assunto iniziative importanti nel breve periodo, a partire dagli incentivi per le nuove assunzioni. Ma ora occorre fare un passo in più. Servono anche interventi strutturali. E’ necessario agire, ad esempio, sulle tariffe INAIL e sui contributi INPS che costano alle imprese del terziario oltre 2 miliardi annui in più del dovuto. Il terziario, infatti, è in costante avanzo di esercizio da oltre 10 anni. Il disavanzo di gestione positivo del nostro settore dovrebbe permettere di abbassare i contributi alle imprese che lo generano. Non dovrebbe finanziarne altre. Altrimenti, alla fine, a pagare siamo sempre noi. Non è polemica, è una questione di equità! Siamo però pronti anche alla proposta. Che tenga conto, come sempre, di imprese e cittadini. Che declini, inoltre, quel principio di sussidiarietà che ricordavo prima, in modo concreto e moderno.

Sulla sanità, ad esempio, perché non far giocare insieme Sistema sanitario nazionale e Fondi Sanitari? Sarebbe una sinergia produttiva che, anche rivedendo il sistema fiscale, garantirebbe una maggiore efficienza dell’offerta sanitaria in termini di costi e prestazioni. E’ un tema sul quale abbiamo già presentato insieme a Confindustria lo scorso dicembre una concreta proposta di riforma al Governo e alle forze politiche, per aprire un confronto anche in termini di sostenibilità. La strada del futuro è aperta davanti a noi. E’ aperta, sì, ma ad una condizione: tenere gli occhi spalancati e non tenere le mani in tasca. Fuor di metafora, dobbiamo essere consapevoli di quello che ci circonda e impegnati in quello che facciamo. Con un sentimento solo ad animarci: il senso di responsabilità. Quel senso di responsabilità che nasce dal sapere di rappresentare una parte essenziale del Paese. Responsabilità e consapevolezza, di quello che siamo e di quello che contiamo. I servizi producono quasi tre quarti della ricchezza del Paese. Il terziario di mercato genera il 40% dell’occupazione. Sottoscriviamo contratti collettivi che sono i più diffusi nel Paese. Senza le nostre imprese, non esisterebbe l’economia della creatività, il “gusto italiano”. Sentiamo la responsabilità, insieme agli amici di Rete Imprese Italia, di portare la voce dei nostri imprenditori alla politica, al Governo, alle istituzioni. Sentiamo la responsabilità di fare il nostro lavoro dimostrando che i corpi intermedi – quelli che sono vivi e che funzionano – non sono la zavorra di questo Paese. Anzi, senza di loro, senza la loro spontanea dialettica e capacità di sintesi, una società sana non sta in piedi, si impoverisce e si indebolisce nel tempo. Non c’è dubbio, il nostro lavoro quotidiano, la strada verso il futuro è sempre un po’ una corsa ad ostacoli. Con una scelta di campo. Perché c’è una generazione a cui possiamo e dobbiamo dare voce. È quella dei Millennials, i giovani divenuti adulti negli anni duemila. Che è la generazione “ponte” della rivoluzione digitale. Che quando fanno impresa, molto spesso scelgono il terziario. I Millennials ci insegnano che l’innovazione non è solo uno “strumento”. Non significa solo più computer, più banda larga, più stampanti 3D, più siti internet. L’innovazione è una dimensione identitaria. E noi ci siamo dentro. L’ “Internet delle cose” è un ambito che ci vede sempre più protagonisti. Le nostre aziende dei servizi avanzati fanno della digitalizzazione la brugola che monta e smonta la catena del valore e della produttività. Siamo ancora noi che attiviamo la banda larga, che connettiamo imprese, che costruiamo nuove professioni. Per questo vogliamo esserci in questa sfida di profonda innovazione e connessione del Paese. Cari amici della Confcommercio, in questi primi 70 anni abbiamo spezzato tante volte pregiudizi, rotto preclusioni e superato frontiere dentro e fuori il nostro settore. Siamo imprenditori che non viaggiano con lo specchietto retrovisore. E ci sentiamo cittadini del mondo, consapevoli e protagonisti. Ci riconosciamo nelle nostre aziende, che non stanno ferme, ma cambiano, cambiando il Paese. Con fatica, con coraggio, con idee. Ci riconosciamo in questo Paese, nella sua storia, nelle sue speranze, nella ricchezza della diversità di luoghi e comunità. Ci riconosciamo in un’Italia libera che vuole crescere ancora e non ha paura di farlo insieme. Ci riconosciamo in un’Italia che guarda oltre le proprie frontiere e ogni giorno le spinge un po’ più in là, per costruire un Paese migliore. Ci riconosciamo in un’Italia che sa e vuole parlare al tempo dei nostri figli: il futuro.

Una risposta a “Assemblea 2016 Confcommercio, la relazione del Presidente Carlo Sangalli”

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