Brexit: a che punto siamo?

Le conseguenze della Brexit, a poco più di quattro mesi dal referendum, sono ambigue. Nonostante molte aziende e banche siano pronte a spostare la sede legale in paesi ancora legati all’Unione Europea, la Nissan – dopo un colloquio privato con Theresa May – ha invece deciso di rilanciare la propria produzione in Gran Bretagna. Sicura […]

Le conseguenze della Brexit, a poco più di quattro mesi dal referendum, sono ambigue. Nonostante molte aziende e banche siano pronte a spostare la sede legale in paesi ancora legati all’Unione Europea, la Nissan – dopo un colloquio privato con Theresa May – ha invece deciso di rilanciare la propria produzione in Gran Bretagna. Sicura delle – a ora misteriose – promesse fatte dal Regno di Sua Maestà. E il PIL britannico rimane più alto di quanto il FMI prospettasse.

I motivi sono, con ogni probabilità, due: da una parte, il rinvio dell’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona che rimanda al 2017 l’incertezza politica ed economica; dall’altra, il calo della sterlina che ha perso quasi il 20% del suo valore da inizio anno, incentivando le esportazioni. Dato che, però, ha prodotto anche un altro effetto: una dinamica inflattiva. Secondo un recente rapporto del National Institute of Economic and Social Research, infatti, l’indice dei prezzi al consumo volerà dallo 0,7% al 4% nei prossimi dodici mesi, contraendo così la capacità di acquisto dei britannici.

Il rinomato settore dell’istruzione e ricerca d’oltremanica non se la passa meglio: la classifica dei migliori atenei del mondo scalza i britannici dai primi posti, con tutte le università del Regno Unito che perdono posizioni nelle classifiche internazionali. In particolar modo Cambridge scende per la prima volta al quarto posto. Ma il prosieguo dell’intera attività accademica è, in realtà, incerto. Se l’istruzione superiore del Regno Unito è finora stata sostenuta da fondi europei per il 14% (dato 2014/2015), il governo di Theresa May non ha ancora assicurato che, con l’uscita dall’UE, lo Stato supplirà alla loro mancanza.

Ciò rappresenterebbe un vero e proprio shock: negli ultimi anni le facoltà hanno infatti potuto godere di un periodo di sviluppo grazie al triplicarsi delle tasse universitarie dal 2012 a oggi, spesso indebitandosi per mantenere alto lo standard o per l’acquisto di nuove strutture. Ora i rettori si domandano come far fronte a tali spese in futuro. Anche perché si registra già un calo degli studenti del continente all’interno delle facoltà della Gran Bretagna: le prime stime per quest’anno parlano del 9% rispetto al 2015/2016, ma bisogna ricordare che le iscrizioni si chiudevano in primavera.

Dunque, una flessione soltanto precauzionale, con lo spettro della Brexit negli occhi, ma senza quella certezza data poi dal risultato referendario: i dati a partire dal 2018 potrebbero essere peggiori. Sono a rischio i tanti studenti europei che rappresentano il 5% del totale nelle università di Sua Maestà. Per non parlare delle difficoltà che incontrerà il settore accademico nel reclutamento di personale e docenti con una fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

Per questo motivo i maggiori rettori di università britanniche stanno pensando alla creazione di “avamposti” in Europa, come avviene già per l’India e la Cina: si tratterebbe di centri di ricerca prettamente inglesi all’interno di istituti europei, in modo da poter continuare ad accedere ai fondi dell’UE. Le mete preferite? Irlanda, Finlandia e in genere le repubbliche baltiche. Anche se una mossa di questo tipo – operare cioè in un regime accademico estero – contiene molte incognite.

Problemi che dovrà affrontare la nuova premier, la quale ha già dichiarato di essere per una “hard Brexit”. Opzione che potrebbe però essere messa in discussione dal Parlamento. Se finora la May non intendeva sottoporre il risultato del referendum all’approvazione dalle Camere, ora forse dovrà farlo. L’Alta Corte ha infatti stabilito che, data la natura consultiva del referendum, l’articolo 50 può essere invocato soltanto con un voto da parte di Westminster e che questo non debba semplicemente ratificare l’accordo finale con l’Unione Europea – come voluto dal governo in carica.

Si attende il ricorso presso la Corte Suprema ma, se così dovesse essere, tutto cambierebbe: un Parlamento pro-Remain potrebbe infatti chiedere un’uscita soft o un nuovo referendum al termine delle trattative. O addirittura si potrebbe aprire una crisi istituzionale e, quindi, dare il via a nuove elezioni.

Giovanni Succhielli-Pressenza

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