Libri: Premio ‘Flaiano’ a Andrea Moro

‘Ho provato a costruire un romanzo che parlasse di idee e potesse coinvolgere piu’ persone possibili, contando sul fatto che mi riusciva questo tipo narrazione. Poi le emozioni sono state talmente tante, mentre scrivevo, che mi sono ritrovato di fronte a personaggi piu’ vividi delle idee stesse. Non ero sicuro che il libro sarebbe piaciuto […]

‘Ho provato a costruire un romanzo che parlasse di idee e potesse coinvolgere piu’ persone possibili, contando sul fatto che mi riusciva questo tipo narrazione. Poi le emozioni sono state talmente tante, mentre scrivevo, che mi sono ritrovato di fronte a personaggi piu’ vividi delle idee stesse. Non ero sicuro che il libro sarebbe piaciuto cosi’ tanto, mi sono stupito io per primo. Poi ieri e’ arrivata questa conferma dal basso, da 100 lettori che non conosco. E dal mio metro e 65, sono diventato di colpo uno e 80′. Nonostante la voce filtrata da uno smartphone, sembra di vederlo il sorriso di Andrea Moro, autoironico quanto basta per stare nell’olimpo di chi scrive perche’ ‘riesce a dire le cose gravi con frivolezza e quelle leggere con gravita”, come diceva Camilla Cederna. Linguista, esperto di neuroscienze e docente dello Iuss di Pavia, classe 1962, e’ il professor Moro ad essersi aggiudicato con ‘Il segreto di Pietramala’ il Premio ‘Flaiano’ di Letteratura-sezione Narrativa 2018, assieme a Gianfranco Di Fiore e Giancarlo De Cataldo nella triade dei finalisti. Un riconoscimento, tanto prestigioso quanto inatteso, giunto ieri per Moro, che vedra’ il suo nome tra i grandi della letteratura chiamati in causa a Pescara dall’associazione culturale ‘Ennio Flaiano’: Saramago, Walcott, Magris, Tabucchi, Consolo, Sepulveda, solo per citare i piu’ noti al grande pubblico.

‘Le confesso che quando me l’hanno detto ero sicuro di un’omonimia- ironizza il professore- e’ un onore doppio essere premiato assieme a figure tanto prestigiose e con il nome di Ennio Flaiano’. È con ‘Il segreto di Pietramala’, edito da La nave di Teseo, che il linguista pavese mette piede nella casa delle storie, la narrativa, e lo fa entrando dalla porta principale, vincendo il ‘Flaiano’ al primo colpo. ‘In realta’ c’e’ una continuita’ con la mia attivita’- sottolinea- Ho iniziato come teorico della sintassi e il mio cavallo di battaglia e’ la struttura del verbo ‘essere’. Negli ultimi anni mi sono occupato molto di come funziona il cervello in relazione al linguaggio e ho sentito l’esigenza di divulgare idee sperimentali e teoriche. Per questo ho cominciato a scrivere saggi di divulgazione. Il pubblico ha reagito bene e io mi sono accorto che mi piaceva raccontare la scienza non come scienza, ma come racconto’.

E al centro del suo racconto, anche stavolta, resta la lingua, fil rouge di un plot narrativo dalla doppia origine. ‘Da una parte avevo voglia di condividere con le persone questa idea che il linguaggio dell’uomo e’ impastato nella carne, che non e’ un’operazione culturale ma il frutto di come siamo costruiti come specie viventi e organismi- rivela alla Dire il professore- Dall’altra, avevo voglia di condividere con il pubblico dei lettori la mia collezione di frasi’. Ebbene si’, frasi. Ci sono cacciatori seriali di dvd, francobolli, monete, moto, bambole, tazzine, insetti, pietre. E poi c’e’ chi, come Moro, appunta frasi di ‘insegnanti, filosofi, persone incontrate sul treno, del papa, dei Beatles’. ‘Ne avevo raccolte piu’ di 200, ma non sapevo come condividerle. Ho deciso di scremarle e ne sono rimaste un centinaio. A quel punto ho immaginato dei personaggi che potessero pronunciarle, costruendo la trama in base alle loro frasi. E lasciando qua e la’ qualche indizio di citazione, alcuni smaccatamente palesi, altri nascosti’. Una specie di caccia al tesoro tra le citazioni, ‘che non e’ necessario cogliere’, ma puo’ essere ‘un gioco in piu’ per il lettore’. La chiave della riflessione del romanzo e’ pero l’assenza, la mancanza che genera il riconoscimento valore di cio’ che non c’e’: ‘Come la sperimentazione della mancanza nella vita quotidiana, l’assenza della lingua provoca riflessioni- sottolinea Moro- Nel romanzo l’assenza e’ tripla’. Il giovane linguista di Parigi, Elia Rameau, si imbatte infatti in un paese abbandonato della Corsica, Pietramala, dove non ci sono persone e non esiste piu’ niente di scritto: ne’ quaderni, ne’ libri, ne’ fogli, ‘come se fosse sparito tutto in modo volontario’. A quel punto, incuriosito, visita il cimitero e, tra le lapidi, non trova tombe di bambini. In Elia si accende il desiderio della scoperta del mistero della lingua scomparsa di Pietramala e, nonostante un amore si metta di traverso, viene catapultato a New York, dove qualcun altro ha gia’ messo le mani su questo segreto. La Corsica e New York, due luoghi di viaggio cari ad un giovane Andrea Moro che con quest’opera prima regala al pubblico appassionato di narrativa un giallo dal sapore un po’ accademico ‘un po’ James Bond’, senza rinunciare ad inserire elementi politici e filosofici.

 Perche’ la lingua e’ anche potere e chi riesce a controllarla, guida il pensiero: ‘Le faccio un esempio- spiega- Un tempo la terminologia medica era accessibile a chiunque avesse una cultura classica. Pensi alle parole emicrania, gastralgia o epatite, in cui si riconosce quello che stava sotto. La medicina contemporanea, invece, crea acronimi e sigle come Aids, Adhd, Doc, completamente opachi, che per essere capiti dai non addetti ai lavori hanno bisogno di qualcuno di quel gruppo che le possa spiegare, creando da subito un rapporto di subordinazione di potere. Un meccanismo che si puo’ replicare identico a livello politico ed economico e serve a controllare le persone con un uso camuffato delle parole’. Come con il fantomatico ‘spread’, che sta tenendo in scacco i Paesi dell’area mediterranea del Vecchio Continente dall’inizio della crisi, ed e’ per lo studioso simbolo di un linguaggio che diventa ‘strumento di occultazione’. ‘Tanto piu’ la gente viene tenuta lontana dai significati tanto piu’ e’ controllabile e viene disabituata a pensare- insiste- L’Italia ha commesso un errore enorme quando ha abolito il latino come lingua di studio obbligatoria. È un’occasione perduta per riflettere sul linguaggio in modo razionale, spero che questo romanzo faccia riflettere anche su questo’. È proprio la scuola, secondo il professor Moro, che dovrebbe farsi carico della complessita’ linguistica della societa’ contemporanea, con una quadruplice attenzione. Alla lingua madre, l’italiano, fondamentale per esercitare diritti di cittadinanza e trovare lavoro; alle lingue degli immigrati, che, assieme all’italiano, sono necessarie ad un’integrazione intesa come scambio; all’inglese, lingua franca che ‘dobrebbe diventare lingua di insegnamento nei nostri atenei per attirare studenti stranieri’. E, non ultima, alla lingua locale: ‘La differenza tra una lingua e un dialetto, diceva Weinreich, e’ che una lingua e’ un dialetto che ha un esercito e una marina- ragiona Moro- la distinzione tra l’una e l’altro e’ solo un fatto politico, non linguistico. In Italia per fortuna, a parte nelle grandi citta’, i dialetti resistono e vengono parlati anche dai giovani. Per questo, andrebbero alimentati dei dialetti autentici, ma l’unico modo per farlo e’ recuperare le letterature locali, facendo un censimento della narrazione dei miti locali un po’ come aveva fatto Calvino con le fiabe, non puntando alla grammatica ma al racconto fatto in lingua’.

Per non ritrovarsi, come Elia, di fronte al segreto di una lingua scomparsa: ‘La scomparsa di una lingua e’ questione molto complessa- spiega- Dal punto di vista culturale, si tratta di una mancanza irreparabile, come bruciare una biblioteca, perche’ non si ha piu’ accesso alla lingua interpretata da chi la parla. Dal punto di vista psicologico- aggiunge- e’ una perdita ancora piu’ grave perche’ le persone si identificano con la lingua madre. Per fortuna gli esseri umani hanno una tendenza naturale a tener vive le differenze. Ma tutte le dittature iniziano con il desiderio di annientare le lingue e anche attorno a Pietramala c’e’ la pretesa di azzerarle’. L’esigenza di salvaguardia delle lingue locali deve andare di pari passo con la ricerca di lingue comuni, perche’ la questione linguistica e’ questione politica, secondo Moro, che ne parla con la leggerezza e la chiarezza di un fuoriclasse della parola innamorato di Flaiano per la sua capacita’ di ‘dipingere la realta’ senza moralismi, ma utilizzando l’ironia come strumento’, senza rinunciare ad una denuncia ‘che non sale in cattedra, ma fa sorridere con intelligenza’. Nel suo futuro, il linguista-scrittore non esclude un nuovo romanzo: ‘Non lo voglio scrivere per forza- conclude Moro- lo voglio scrivere se ho un’idea. Per ora l’idea c’e’, ma non riesco a trovare una storia. Sicuramente non scrivero’ il seguito de ‘Il segreto di Pietramala’ e nel mezzo ci dovrebbero essere un paio di saggi che spero saranno divertenti. Sono pieno di appunti, ma non so ancora come colorarli’. L’intervista e’ finita, Moro sale sul treno che lo portera’ in giro per l’Italia a presentare il suo libro

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