Dopo la rivoluzione del 1979 l’Iran visse un’inaspettata demonizzazione della musica, da sempre parte integrante del patrimonio culturale nazionale. In pochi mesi si passò dal rigetto della “qarbzadegi” – l’influenza occidentale considerata intossicante – alla proibizione tout court di ogni forma musicale, percepita come veicolo di corruzione morale.
L’avvento della guerra con l’Iraq, nell’autunno del 1980, indusse però i guardiani della Repubblica islamica a rivedere questa rigida impostazione: la musica tradizionale e religiosa venne riammessa per sostenere il morale popolare e alimentare la propaganda di regime. Rimaneva però in bilico il destino della musica classica, priva di testi potenzialmente censurabili ma saldamente ancorata alla tradizione occidentale. Nei decenni successivi essa si è affermata come strumento di protesta silenziosa e coraggiosa, costantemente esposta a revoche e sospensioni dell’autorizzazione alle esecuzioni.
Le pesanti sanzioni internazionali trascinarono gli artisti in un mercato clandestino degli strumenti musicali, mentre i concerti venivano organizzati in sale segrete o sotto forma di jam session fuori Teheran, spesso contaminati da sonorità tradizionali. È in questo contesto che, nella metà degli anni Ottanta, Mohammad-Reza Lofti – rifugiatosi a Firenze – si esercitava a pronunciare vocaboli italiani scoprendoli sugli spartiti: “andante”, “allegretto” eccetera.
Intanto a Teheran si sperimentavano nuovi percorsi: si rilanciava la Tazieh, forma artistica tradizionale vicina all’opera lirica, mentre il Barocco di Bach, considerato rivoluzionario come il punk in Occidente, circolava tra appassionati sotto il velo della clandestinità.
Alle radici di questa travagliata vicenda si trovano i tentativi novecenteschi di modernizzazione inaugurati da Nasser Al-Din Shah, che nel XIX secolo commissionò all’occidentale Jean Baptiste Lemaire l’inno “Giovane Iran” e fece costruire un grande teatro dell’opera vicino al Palazzo di Golestan. Nel secolo successivo, durante il regno dei Pahlavi, sorsero l’Orchestra Sinfonica di Teheran (1933), la Tehran Opera Company (1957) e la National Ballet Company (1958), nonché il sontuoso Roudaki Hall, oggi noto come Vahdat Hall.
Proprio in quest’ultima sede, nel marzo 2014, si registrò un’apertura storica: una cantante tornò sul palco in un allestimento di Gianni Schicchi di Puccini con il Teheran Opera Ensemble, figlio della vecchia Opera Company. L’evento coincideva con i primi mesi del governo di Hassan Rouhani, apparso inizialmente favorevole a un’apertura culturale che però si rivelò effimera. Quando nel 2015 la censura tornò a soffocare le esecuzioni, il direttore d’orchestra Ali Rahbari protestò duramente: “Ho detto che ci esibiremo tutti insieme o lasceremo la sala. Finché sarò il direttore di quest’orchestra, non permetterò questo tipo di trattamento”.
Da allora i concerti possono essere annullati anche pochi minuti prima dell’inizio, ma il pubblico non viene meno: la passione per la musica classica, assimilata come qualsiasi altra forma artistica, si nutre di quella tensione tra proibizione e desiderio di partecipazione. Manifestazioni come il Fajr International Music Festival e ospiti internazionali – dalla Fondazione del Festival Pucciniano nel 2017 al concerto di Riccardo Muti con il progetto “Road of Friendship” – confermano l’attrazione globale verso un repertorio che in Iran ha trovato un doppio registro: strumento di propaganda, ma anche cassa di risonanza di un malessere civile, dove le note diventano linguaggio di libertà.