Emergenze sismiche e vulcaniche nel mondo. Grande successo Egu Spring Meeting

“Dicembre 2012, altro che profezia Maya, per noi precari è una drammatica e reale scadenza”(Dott. Precarius). Il terremoto aquilano del 6 aprile 2009 (Mw=6.3; 309 morti; 1600 feriti) ha evidenziato rilievi geologici di superficie molto interessanti per lo studio della dinamica geologica e strutturale degli Appennini. La Natura aborre il vuoto sismico e vulcanico ma […]

Dicembre 2012, altro che profezia Maya, per noi precari è una drammatica e reale scadenza”(Dott. Precarius). Il terremoto aquilano del 6 aprile 2009 (Mw=6.3; 309 morti; 1600 feriti) ha evidenziato rilievi geologici di superficie molto interessanti per lo studio della dinamica geologica e strutturale degli Appennini. La Natura aborre il vuoto sismico e vulcanico ma l’unica lezione finora impartita da quel drammatico evento non sembra concentrata sulle politiche di prevenzione e mitigazione degli effetti delle catastrofi naturali come avviene in tutti i Paesi civili del mondo. Si continua a perdere tempo e risorse in Italia. Dopo la distruzione di L’Aquila, le nostre città continuano ad essere esposte alle catastrofi naturali, la maggior parte delle quali sono causate dalla violenza politica dell’uomo. Le Tredici Raccomandazioni della International Commission on Earthquake Forecastingfor Civil Protection per salvarsi dalle catastrofi sismiche e vulcaniche, espresse nel 2009 dai geo-scienziati di tutto il mondo all’indomani del sisma aquilano, devono ancora essere rigorosamente applicate. La situazione sismica italiana è certamente nota ad un livello di dettaglio euro-mediterraneo senza precedenti. Le emergenze sismiche e vulcaniche nel mondo, accanto agli effetti del Global Warming indotto dall’attività umana sulla Terra, sono stati i temi al centro dell’Egu Spring Meeting di Vienna (Austria, 22-27 Aprile 2012) che ha ottenuto un grande successo scientifico. Il Premio Europeo in Geoscienze è stato attribuito a tre giovani ricercatori italiani: Giuliano Di Baldassarre, Claudia Cherubini e Claudio Zaccone. La “Jean Baptiste Lamarck Medal” è stata assegnata allo scienziato Emiliano Mutti. La “Jean Dominique Cassini Medal & Honorary Membership 2012” alla memoria, è stata riconosciuta alla planetologa Angioletta Coradini. Sono stati premiati due giornalisti scientifici, Alexandra Witze e Jane Qiu. Più di 11mila partecipanti provenienti da 95 Paesi, hanno animato oltre 13.500 presentazioni scientifiche in 700 sessioni. Claudia Cherubini, 32 anni appena compiuti, ricercatrice del Politecnico di Bari, ha ricevuto a Vienna dall’European Geoscience Union, il più importante organismo nell’ambito delle scienze ingegneristiche e ambientali in Europa, il premio “Division Outstanding Young Scientists Award”, nel settore delle geoscienze. Un comitato scientifico internazionale ha apprezzato i contributi scientifici e gli studi della Cherubini nel campo dell’idrogeologica finalizzata alla gestione delle risorse idriche. Il settore di cui si occupa la Cherubini riguarda la gestione delle acque sotterranee in regioni come la Puglia dove varie cause ne minacciano la qualità. La contaminazione chimica, dovuta ad un utilizzo industriale ed agricolo improprio, l’intrusione marina facilitata dagli emungimenti non equilibrati negli ambiti costieri, sono soltanto alcuni dei temi che sono stati da lei semplificati in modelli per lo studio delle soluzioni innovative nell’ambito di sinergie internazionali di ampio respiro. I giornalisti premiati all’Egu, Alexandra Witze e Jane Qiu, si sono visti assegnare l’ambito titolo di “Comunicatori delle Geoscienze” per i loro progetti relativi all’informazione della vulcanologia e dei cambiamenti climatici in atto sulla Terra, ricevendo ciascuno un assegno di 2.500 euro. La Witze ha pubblicato un libro sull’eruzione del vulcano islandese Laki del 1783, “uno dei disastri ignoti più grandi della storia”. La Qiu ha analizzato gli effetti del Global Warming sul Terzo Polo, una regione dell’altipiano tibetano caratterizzata da neve e ghiaccio, “la chiave per comprendere il passato, il presente e il futuro climatico del nostro pianeta”. Dei 34 progetti presentati da geoscienziati praticanti e giornalisti scientifici, i giurati dell’Egu hanno selezionato i lavori di Emily Baldwin, editore di Astronomy Now, e Paul Voosen, reporter del Greenwire, relativi all’astrobiologia e le scienze atmosferiche. L’Egu Geosciences Communications Fellowship è una competizione annuale aperta ai giornalisti scientifici che desiderano comunicare al grande pubblico i temi di ricerca delle geoscienze, vivendo a stretto contatto con i ricercatori e gli scienziati che operano sul campo. La European Geosciences Union (www.egu.eu) è la più grande Associazione scientifica e ambientale no-profit europea, dedicata alla promozione ed allo sviluppo dell’eccellenza nella ricerca geofisica, planetaria, energetica e spaziale al servizio dell’umanità. La chiave di volta dell’Egu è la sua interdisciplinarietà capace di stimolare le giovani menti. Fondata nel 2002, l’Egu pubblica le proprie ricerche su 14 riviste scientifiche internazionali, promuovendo meeting, dibattiti, incontri tra scienziati, ricercatori e media di tutto il mondo con attività sul campo. I principali lavori vengono comunicati mediante la Newsletter Geo. L’Assemblea annuale dell’Egu a Vienna offre ospitalità a migliaia di geoscienziati che, su invito, possono presentare pubblicamente i loro lavori, molti dei quali riguardano le energie rinnovabili. Il nuovo studio sul rischio sismico a Fukushima dopo il disastroso terremoto-tsunami di Tōkai (magnitudo 9 dell’11 marzo 2011 con onde di 30-35 metri), sulla base degli oltre 6mila eventi sismici analizzati, rivela che l’apocalisse vera e propria deve ancora accadere sulla costa nipponica e sui relativi impianti nucleari. Si sarebbero attivate diverse faglie vecchie e nuove in grado di liberare energie equivalenti o superiori. I risultati sono stati pubblicati sul giornale scientifico “Solid Earth” dell’Egu. La ricerca invita espressamente le autorità a potenziare i sistemi di sicurezza nella centrale nucleare di Fukushima Daiichi danneggiata dall’evento dell’11 marzo focalizzato a circa 160 km di distanza dalla costa, in pieno oceano pacifico. “Ci sono poche faglie attive nell’area dell’impianto nucleare – fa notare il geofisico Dapeng Zhao, professore dell’Università di Tohoku, a capo della ricerca – e i nostri risultati mostrano chiaramente l’esistenza di simili strutture anomale sotto entrambe le regioni di Iwaki e Fukushima Daiichi. Sulla base del recente forte evento sismico di Iwaki, riteniamo possibile un simile terremoto a Fukushima”. Non è la prima volta nella storia della geologia nipponica che le previsioni scientifiche di un evento naturale raggiungono statisticamente livelli di confidenza apprezzabili e immediatamente fruibili nella prevenzione sismica. Il terremoto dell’11 Aprile 2011 di magnitudo 7 che ha colpito Iwaki, infatti, è stato l’aftershock più forte dopo l’evento principale dell’11 Marzo, poiché ha avuto come epicentro la terraferma, 60 km a sud-ovest di Fukushima, ossia 200 km dall’epicentro dell’11 Marzo. La ricerca pubblicata da “Solid Earth” mostra che l’evento di Iwaki è stato scatenato da fluidi in risalita verso la crosta terrestre dalla placca sommersa del Pacifico che affonda sotto la crosta nord-orientale del Giappone ricca in superficie di vulcani. L’attrito fa aumentare la temperatura e la pressione nelle rocce liberando l’acqua dai minerali e generando fluidi che sono meno densi dei minerali. I ricercatori hanno scoperto che questi fluidi nel risalire verso la superficie potrebbero attivare le faglie sismiche. “I fluidi in ascesa – scrive Ping Tong – possono ridurre la frizione di parte della faglia attiva e così scatenare un terremoto. Questo fenomeno di lubrificazione, unito alle variazioni di stress causate dall’evento dell’11 Marzo, è la causa del sisma di Iwaki”. Contrariamente a quanto accaduto in Abruzzo dopo l’evento aquilano, il numero di terremoti registrati a Iwaki è aumentato considerevolmente dopo la catastrofe di Tōkai. I movimenti nella crosta terrestre indotti dall’evento dell’11 Marzo 2011 hanno causato variazioni nella pressione delle rocce prossime alla grande faglia. Ma anche nelle faglie sotto la costa nipponica. In particolare attorno a Iwaki, il network sismologico giapponese ha registrato oltre 24mila terremoti dall’11 Marzo 2011 al 27 Ottobre 2011, con un forte incremento rispetto ai 1.300 eventi sismici segnalati nei nove anni precedenti. I 6mila terremoti selezionati per questo studio dagli scienziati dell’Egu, sono stati analizzati da 132 stazioni sismografiche giapponesi dal Giugno 2002 all’Ottobre 2011. I ricercatori da questi dati hanno realizzato immagini ad alta risoluzione delle profondità della Terra, utilizzando una tecnica chiamata Tomografia Sismica. “Il metodo è un potente strumento per mappare le anomalie strutturali, come la risalita di fluidi nella crosta terrestre e nel mantello superiore, grazie alle onde sismiche – rivela Zhao – che possono essere utilizzate come i raggi X nella TAC”. Gli scienziati, naturalmente, non possono ancora predire la data esatta del futuro terremoto di Fukushima Daiichi. Ma possono affermare con certezza che la risalita dei fluidi in atto, così come galileianamente osservata nell’area, indica inequivocabilmente il prossimo evento distruttivo. La molla è carica e pronta a scatenarsi di nuovo. Nei giorni successivi all’evento sismico aquilano di 38 mesi fa, in accordo con i geologi del Centro Nazionale di Ricerca (Cnr) e dell’Istituto di Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), i geologi del Dipartimento di Scienza della Terra dell’Università di Camerino (Farabollini P., Agosta F., Aringoli D., Materazzi M., Pierantoni P. e Tondi E.) hanno effettuato dei rilievi lungo la porzione occidentale dell’area epicentrale abruzzese. I risultati delle osservazioni eseguite in campagna lungo le faglie normali principali affioranti nell’area e sugli effetti di superficie associati all’evento sismico e in relazione alle caratteristiche geologiche e geomorfologiche dell’area aquilana, mostrano che “la conca di L’Aquila e la conca Subequana appartengono ad un’unica depressione allungata, di circa 60 km, in direzione NW-SE entro cui scorre il fiume Aterno, delimitata a SW all’allineamento Monte Sirente – Monte Ocre ed a NE dal massiccio del Gran Sasso. Il substrato è rappresentato da calcari di piattaforma meso-cenozoici, intensamente fagliati, piegati e carsificati; la depressione è invece colmata da sedimenti continentali quaternari, deposti dal Pleistocene inferiore all’Olocene e formati da sequenze deposizionali, molto eterogenee ed eterometriche, con frequenti variazioni laterali e verticali di facies e con spessori rilevanti”. Procedendo da nord-ovest verso l’area epicentrale, i primi rilievi dei ricercatori sono stati effettuati a monte dell’abitato di Pizzoli. “Sono state rilevate poche lesioni nei manufatti, mentre nessuna evidenza di deformazione superficiale è stata osservata lungo il piano di faglia. Di seguito, si è proceduto in direzione di Arischia, dove alla sommità del paese è stata rinvenuta una frana di crollo-scorrimento. Sono stati rilevati crolli di blocchi di roccia ed una nicchia di distacco di forma arcuata, la quale ha tagliato sia la sede stradale sia il muro di contenimento della stessa. Al piede della frana che ha interessato il versante, sono state documentate profonde lesioni agli edifici. In corrispondenza degli abitati di San Vittorino ed Acqua Oria, e nei rilievi circostanti, non sono state trovate evidenze di deformazione superficiale legate al terremoto del 6 Aprile. Al contrario, procedendo verso sud-est, lungo la strada per Canzatessa, sono state osservate lesioni profonde agli edifici”. Le osservazioni effettuate lungo il rilievo calcareo bordante il versante meridionale del Monte Pettino hanno confermato quanto descritto per la faglia di Pizzoli, cioè che “i piani di faglia principali non sono stati riattivati in superficie durante il terremoto. In prossimità della città di L’Aquila, l’intensità delle lesioni agli edifici ed ai manufatti è risultata aumentare sensibilmente. I danni provocati dallo scuotimento sismico del suolo sono stati rilevati sia in edifici relativamente recenti sia in altri più antichi. In località Case Castelvecchio sono state rilevate diverse fratture nell’asfalto orientate parallelamente alla faglia in parola. Alcune di queste fratture hanno mostrato un rigetto verticale di pochi centimetri. In località San Sisto non sono state osservate fratture nel terreno, mentre gli effetti dello scuotimento del suolo indotto dal sisma sugli edifici presenti sono risultati essere molto evidenti”. All’interno dell’abitato di L’Aquila sono stati condotti diversi rilevamenti lungo la traccia della faglia. “Pur avendo riscontrato profonde lesioni sugli edifici, ed il crollo di alcuni di essi, non sono state riscontrate fratture nel terreno. Nel quartiere di Gignano sono state documentati diversi crolli di edifici, mentre in Piazza D’Armi la Caserma dell’Esercito Italiano è risultata essere intensamente danneggiata. Anche il castello cinquecentesco è stato coinvolto dagli effetti del sisma, che ha determinato la formazione di fratture nell’asfalto, il crollo del solaio e la lesione, con conseguente parziale ribaltamento delle mura. Poche decine di minuti dopo aver effettuato il sopralluogo, il sisma del 7 Aprile 2009 (ore 19:42) ha provocato il crollo delle mura stesse. In località Collebrincioni, nella porzione occidentale della faglia normale, sono state rinvenute diverse fratture nell’asfalto, alcune delle quali mostrano rigetti verticali centimetrici. Queste fratture, orientate parallelamente alla faglia in parola, sono state rinvenute anche all’interno della roccia calcarea. Tra Collebrincioni ed Aragno sono state rinvenute fratture aperte, anche decine di cm, e fenomeni gravitativi lungo una fascia di deformazione diffusa larga circa 20-40 metri e lunga più di 100 metri. Proseguendo lungo la strada in direzione di Le Macchie sono state rinvenute diverse fratture nell’asfalto aperte pochi cm. Presso Le Macchie, in corrispondenza di una cava attiva dove affiora un piano di faglia ad alto angolo caratterizzato da una cinematica di tipo normale, sono state rinvenute 78 fratture sia nell’asfalto sia nel suolo. Queste fratture, orientate N120°E lungo il lato settentrionale della cava e N170-180°E lungo quello meridionale, hanno mostrato superfici fresche e non alterate. Si suppone quindi che queste ultime si siano formate in seguito all’evento sismico del 6 Aprile 2009. Dai plot dei due set di dati riguardanti la frequenza delle loro spaziature, si nota come la frequenza della spaziatura delle fratture orientate N120°E formi un inviluppo di best-fit ellittico. Proseguendo verso il paese di Tempera, il quale purtroppo è uno tra gli abitati più danneggiati dal sisma, sono stati rilevati crolli parziali della sede stradale e numerosi danni agli edifici. Ad est del paese di Tempera, a ridosso del fosso di Fontanelle, sono state rilevate 30 fratture orientate parallelamente alla faglia. Tali fratture, orientate N120°E, sono aperte di pochi centimetri e morfologicamente mostrano rigetti verticali di diversi millimetri. Il plot riguardante la frequenza della loro spaziatura, denota l’inviluppo ellittico del best-fit dei dati. In corrispondenza dell’abitato di Paganica, sono state rilevate diverse fratture aperte aventi orientazione N140°E). Queste, distribuite in un’area di diverse centinaia di metri quadri, interessano con continuità sia le opere antropiche sia il suolo. Lungo la SS 70 tra L’Aquila e Collebrincioni (al km 3,75) è stata individuata una scarpata di faglia in roccia, di circa 2 metri di altezza, alla base della quale sono presenti evidenze di fagliazione superficiale. Il sistema di fratture che attraversa gli abitati di Tempera e di Paganica, presenta una notevole continuità laterale, con uno sviluppo di circa 2-3 km, che è verosimilmente da mettere in relazione alla riattivazione cosismica superficiale della faglia di Paganica, già cartografata nel foglio Geologico CARG “L’Aquila”. Si può notare come tale faglia da Paganica-Tempera si estenda fino a Collebrincioni, dove le evidenze cosismiche risultano più continue e consistenti con la struttura sismogenetica che ha generato il terremoto del 6 Aprile 2009 di magnitudo momento 6.3. Lungo la faglia di Bazzano, in particolare nella sua terminazione SO, alla base del piano di faglia in bedrock è stata rilevata una free face di circa 5 cm di altezza: tale fenomeno cosismico si può seguire con continuità per alcune centinaia di metri. Lungo la strada asfaltata che s’inerpica in direzione dell’abitato di Bazzano, nel punto in cui la strada intercetta il piano di faglia è presente una frattura aperta di alcuni cm”. Il rilievo degli effetti cosismici indotti sull’ambiente fisico e sulle strutture ed infrastrutture è stato condotto dai ricercatori dell’Università di Camerino con particolare attenzione alla loro eventuale correlazione con le caratteristiche geologiche e geomorfologiche dell’area. “Gli effetti cosismici rilevati sono rappresentati essenzialmente da: crolli di roccia e/o debris avalanches, lungo versanti a luoghi anche non molto ripidi, interessando aree antropizzate e non; valanghe e/o slavine sul versante sud-est del Gran Sasso; attivazione e/o riattivazione di frane, delle quali molte superficiali; liquefazione e/o cedimenti, come nel caso del Lago Sinizzo nelle vicinanze di San Demetrio ne’ Vestini; variazioni di portata di alcune sorgenti (a Tempera è stato possibile, attraverso informazioni di abitanti del luogo, rilevare la scomparsa di alcune sorgenti o lo spostamento dei punti di emergenza; analogamente a Paganica sono state evidenziati aumenti significativi nella portata di alcune sorgenti; fratturazione al suolo e/o sul manto stradale (Paganica, Tempera; Onna, Poggio Picenze, San Demetrio ne’ Vestini, ecc.) dovuta ad assestamenti e/o compattazione dei sedimenti quaternari. Numerose infatti sono le fratture distribuite nell’area epicentrale, le più estese ad Onna, lungo gli argini fluviali dell’Aterno ed in prossimità dei ponti sul fiume Aterno stesso”. La distribuzione degli effetti menzionati hanno evidenziato un quadro più complesso rispetto a quello che ci si aspettava sulla base della semplice osservazione della risposta sismica locale dei terreni. “L’esempio più evidente è dato dal confronto del danneggiamento tra l’abitato di Onna e l’abitato di Monticchio che, a parità di contesto strutturale dell’edificato ed essendo posti a soli due chilometri di distanza tra loro, presentano un grado di danneggiamento degli edifici decisamente differente (maggiore ad Onna rispetto a Monticchio)”. Tale difformità della risposta sismica locale “è sicuramente da imputare ad una situazione geomorfologica molto articolata, caratterizzata anche da morfologie sepolte che a volte sfuggono alla sola analisi di campagna, ed alle forti eterogeneità del substrato quaternario, di spessori notevoli, diversamente organizzato e cementato, con forti variazioni laterali e verticali di facies (Gemina, 1962; Bagnaia et alii, 1989; Blumetti et alii, 1996 e 2002; Foglio CARG, 2009). Nella zona ad est dell’abitato di Collebrincioni sono evidenziati alcuni fenomeni superficiali legati al carsismo del substrato meso-cenozoico così come al diverso grado di cementazione del substrato quaternario”. Questi fenomeni, secondo i geologi, contribuiscono in maniera rilevante e puntuale a determinare un’estrema eterogeneità del substrato e quindi della relativa risposta sismica locale. La presenza di depressioni circolari e morfologie circoidi, rilevate nell’area a differenti scale e che hanno condizionato anche l’antropizzazione del territorio, sono in genere da mettere in relazione con la presenza di sinkhole, sia su depositi quaternari sia su substrato calcareo. “Tali morfologie, alle quali risulta spesso associata una particolare frequenza ed importanza dei fenomeni cosismici, sono legate a processi carsici che hanno interessato il substrato calcareo dell’area aquilana (Lorè & Tallini, 1997; Petitta & Tallini, 1999), e dei quali ancora c’è testimonianza nel territorio (Fossa, San Martino d’Ocre, San Panfilo d’Ocre, ecc). Queste, molto spesso risultano mascherate dai depositi di riempimento quaternario, e sono riconoscibili solamente ad una attenta analisi geomorfologica da foto aerea e di campagna”. Sulla base dei rilievi effettuati dal gruppo di lavoro del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Camerino, integrati con quelli sia geologici che geofisici disponibili, è possibile sostenere che “la faglia di Paganica-Collebrincioni rappresenti l’espressione in superficie della struttura sismogenetica che ha generato il terremoto del 6 Aprile 2009”. Anche se i rilievi geologici hanno permesso di individuare con una certa confidenza la faglia responsabile del sisma, i ricercatori hanno subito ritenuto opportuno fare alcune considerazioni sulla tettonica attiva dell’area e sulla risoluzione del dato geologico per la valutazione della pericolosità sismica dell’Appennino centrale (Tondi & Cello, 2003). “Tali considerazioni auspichiamo possano essere di stimolo per la comunità scientifica delle Scienze della Terra al fine di rendere gli studi geologici sui terremoti sempre più rigorosi e quindi utili alla società”, con una comunicazione tempestiva, rigorosa, comprensibile e capillare. Nella zona di L’aquila da tempo sono note numerose faglie quaternarie (Bagnaia et alii, 1992; Blumetti et alii, 1996; Cello et alii, 1998; Ghisetti & Vezzani, 1998; Blumetti et alii, 2001; Centamore et alii, 2006), tutte con indizi di attività recente, “alle quali è possibile, sulla base delle loro dimensioni, attribuire un potenziale sismogenetico superiore a magnitudo momento 6. Lungo molte di queste faglie, come emerge dai rilievi effettuati anche da altri gruppi di lavoro, si sono avuti fenomeni superficiali che in alcuni casi hanno ringiovanito la scarpata in roccia (anche se in limitate porzioni) e/o fagliato il suolo”. A questo punto sorgono spontanee alcune domande: prima dell’evento sismico di L’Aquila, sulla base di quali considerazioni geologiche si poteva indicare la faglia di Paganica come quella che avrebbe generato il terremoto nell’aquilano, piuttosto che la faglia di Pizzoli, di Monte Pettino, di Campo Imperatore, e di chissà quante altre ancora? La faglia di Paganica è la “vera” faglia attiva dell’area o lo sono anche le altre? Se lo sono anche le altre, esiste un problema di compatibilità cinematica e/o di interazione tra le faglie attive nell’aquilano? Analogamente all’aspetto prettamente geologico e strutturale, gli scienziati segnalano sempre il ruolo delle caratteristiche geomorfologiche sul danneggiamento e sugli effetti all’ambiente fisico di un terremoto come quello del 6 Aprile 2009. Per sottolineare la necessità di verificare e soprattutto quantificare il contributo che hanno avuto i sinkhole nel determinare effetti di amplificazione locale, sia in bedrock sia nei depositi continentali quaternari, durante l’evento sismico aquilano. Queste ricerche si sommano a quelle dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) che conta 950 unità di personale tra cui 270 dipendenti a tempo determinato. Quasi tutti i 270 precari sono scienziati che si cimentano da anni su studi correlati e di comparazione con la Sismologia, cioè la disciplina che è il principale mezzo d’indagine per lo studio dell’interno della Terra. All’Ingv lavorano i geochimici, gli addetti al monitoraggio della sala sismica, chi studia i meccanismi che provocano i terremoti, chi studia le strutture e i movimenti tettonici grazie ai sismi, chi utilizza le registrazioni delle onde prodotte dai terremoti in ogni angolo della Terra, la sismologia Globale, chi costruisce modelli, chi ci comunica in tempo reale, grazie alla sismologia storica, dove avverrà un terremoto entro un lasso di tempo medio/lungo. I terremoti sulla Terra ancora non si possono prevedere anche perché la sismologia è una scienza giovane. E se i giovani italiani che studiano la sismologia vanno a casa (perché precari a tempo determinato) continueremo ad avere migliaia di morti l’anno in Italia e in Europa, con buona pace della divulgazione scientifica nelle inevitabili elaborazioni culturali para-liturgiche post evento. Il connubio tra valutazione dei rischi, prevenzione e Ingv, è di evidente interesse pubblico. L’Ingv è l’eccellenza della ricerca per gli studi sui terremoti e sui vulcani di tutto il mondo, è un Ente strategico e di vitale interesse, sulla cui gestione la Corte dei Conti ha espresso la piena promozione. I terremoti, i maremoti, le eruzioni vulcaniche non seguono le logiche politiche umane! Dal 30 aprile 2012 il professor Stefano Gresta è il nuovo Presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Lo ha nominato con il Decreto n.111  del 27/3/2012 il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Francesco Profumo. Stefano Gresta è professore di Geofisica della Terra Solida all’Università di Catania da circa 25 anni. Fin dalla sua fondazione è anche uno dei più assidui collaboratori dell’Ingv, con numerose pubblicazioni effettuate insieme agli scienziati dell’Ente. Prima di diventare ricercatore universitario, è stato per oltre due anni scienziato presso l’Istituto Internazionale di Vulcanologia di Catania (una delle strutture dalla cui fusione è nato nel 2001 l’Ingv). Nel corso degli anni ha lavorato con diversi colleghi dell’Osservatorio Vesuviano e dell’allora Ing. Dal 1998 al 2001 ha ricoperto incarichi di responsabilità nel Sistema Poseidon, altra struttura dell’Ingv. Nel corso di tutti questi anni è stato relatore di circa 150 tesi di laurea e tutor di una ventina di dottori di ricerca. Questa attività didattica e di ricerca è stata spesso svolta con la collaborazione di ricercatori “senior” dell’Ingv. Anno dopo anno i migliori “suoi ragazzi” hanno proseguito le ricerche (molti di essi sono ancora precari) all’interno dell’Ingv, soprattutto presso la Sezione di Catania. É naturale che molte delle sue pubblicazioni siano frutto di questa proficua sinergia. Sismologia e vulcanologia sono le discipline per le quali l’Ingv è universalmente riconosciuto come un Istituto leader al mondo. Ma la qualità di tutte le altre ricerche (oceanografiche e ionosferiche, purtroppo meno conosciute dal grande pubblico) è di qualità eccellente. Proprio per diffondere il messaggio, questo è stato il tema della prima conferenza che è stato invitato a tenere come nuovo Presidente Ingv, dal titolo “INGV: non solo terremoti e vulcani”. Infatti l’Ingv svolge un’opera di monitoraggio geofisico e geochimico a tutto vantaggio dei cittadini, e di analisi ed elaborazione dei dati raccolti a fini di ricerca. Questi due aspetti sono indissolubilmente legati. La ricerca ha bisogno di dati sperimentali, con tutte le incertezze che questi, come ogni misura, possono avere. “Soltanto chi lavora quotidianamente sulla raccolta, l’analisi e l’elaborazione dei dati sperimentali – rivela il prof. Gresta – ne conosce pregi e difetti, ne può definire i limiti per una corretta interpretazione dei fenomeni o per la verifica di modelli teorici. Allo stesso modo gli strumenti o le reti di misura possono migliorare anche ricevendo le indicazioni dei “fruitori” dei dati. Separare il monitoraggio dalla ricerca porterebbe in breve tempo ad un impoverimento culturale e funzionale di entrambi”. I sismologi di tutto il mondo concordano sul fatto che ancora non è possibile fare previsioni puntuali sui terremoti: i dati a disposizione, tuttavia, consentono di svolgere opera di prevenzione. I cittadini vogliono sapere in che misura oggi, in Italia, quest’opera di prevenzione è effettivamente applicata sul territorio e da chi. “La cultura della prevenzione nasce dall’educazione e dall’informazione. L’opera della Protezione Civile, in tutti i suoi aspetti e dimensioni, da locale a nazionale, è encomiabile. Tuttavia – fa notare il prof. Gresta – ritengo che si faccia ancora troppo poco e soprattutto che non ci sia un piano coordinato in questo senso. Esistono realtà locali molto sensibili e l’Ingv svolge da tempo un’efficace azione nelle scuole, là dove si è riscontrata questa sensibilità. Eccellenti anche alcune nostre iniziative nel campo della divulgazione scientifica. A livello di informazione ritengo che soprattutto il servizio pubblico televisivo potrebbe incidere molto più efficacemente per la diffusione di una corretta informazione scientifica”. I vulcani in Italia richiedono un attento monitoraggio per la riduzione del rischio, come per esempio il Vesuvio, Vulcano, Stromboli, Campi Flegrei. È aumentata anche l’attenzione per alcuni vulcani attivi sottomarini, come il Marsili nel Tirreno e l’Empedocle nel Canale di Sicilia. Bisogna migliorare la loro sorveglianza perché sono bombe termonucleari innescate da decine di migliaia di anni, pronte a liberare distruttivamente la loro energia in megatoni. “Sono fortemente convinto che il monitoraggio vulcanico, ma anche sismico, in Italia debba necessariamente passare attraverso lo sviluppo e l’implementazione di una rete di osservatori sottomarini multidisciplinari. Ne migliorerebbero la qualità delle localizzazioni ipocentrali di molti terremoti, la conoscenza dei campi di potenziale, dei parametri chimico-fisici delle acque di fondo; e ovviamente anche le ricerche vulcanologiche. Ci sono anche delle tecniche radar innovative che, se applicate alle regioni interessate dal vulcanismo sottomarino, potrebbero dare ottimi risultati anche in termini di sorveglianza”. L’Ingv conta circa mille dipendenti tra ricercatori, tecnici e amministrativi, di cui circa un quarto precari. “Qui occorre seguire due distinti ragionamenti. Il primo concerne le soluzioni di carattere tecnico-amministrativo che la nostra amministrazione sta già mettendo in atto. Un accordo d’Ente in deroga ai vincoli di durata dei contratti a tempo determinato fissati dalle norme di legge e di contratto per il personale del comparto delle Istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione, per continuare ad avvalersi del personale “precario”, anche dopo la data del 31 dicembre 2012. Una richiesta ben documentata ai Ministeri competenti, di allargamento della pianta organica dell’Ingv. Una richiesta di deroga dal limite del 20% delle cessazioni dal servizio per i posti da rimettere a concorso. Il secondo punto riguarda l’aspetto pratico, ma essenziale della continuità degli emolumenti. Ho molto apprezzato nel recente incontro con i precari dell’Ente, la dichiarata disponibilità a seguire corsi di aggiornamento tecnico-scientifico e alla mobilità. É anche da qui che passa la possibilità di sviluppare nuove ricerche su nuove aree geografiche e/o su nuove tematiche. I nostri ricercatori dovranno essere bravi a proporre (e farsi finanziare) nuovi progetti di ricerca; nuovi contratti o convenzioni non solo attraverso i consueti e consolidati canali, ma attraverso nuove proposte, per esempio, nell’ambito dell’Ambiente, dei Beni Culturali, dello Sviluppo economico. Credo che l’attuale situazione economica sia preoccupante non solo per un neo Presidente, ma anche per Presidenti dotati di lunghe e consolidate esperienze. Mi conforta però il fatto che un popolo antico e saggio come quello cinese, esprima il concetto complesso di crisi utilizzando l’associazione di due concetti base, che sono da un lato Pericolo, ma dall’altro Opportunità”. E i nostri scienziati hanno le carte in regola per giocare e contare davvero nello scacchiere scientifico e tecnologico internazionale. Lo studio geochimico di alcuni elementi che si riscontano nella piattaforma iblea (Sicilia Sud Orientale) sta portando alla scoperta di alcune caratteristiche del mantello terrestre, lo strato che si trova al di sotto della crosta. I risultati della ricerca dal titolo “New evidence of mantle heterogeneity beneath the Hyblean Plateau (southeast Sicily, Italy) as inferred from noble gases and geochemistry of ultramafic xenoliths”, sono stati pubblicati su “Lithos” dai ricercatori Correale, Martelli, Paonita, Rizzo, Brusca, Scribano. Questo tipo di studio ha delle importanti implicazioni in quanto le lave dei vulcani basaltici come l’Etna si generano direttamente dalla fusione parziale proprio di queste rocce del mantello. Questo studio ha avuto come oggetto alcuni xenoliti mantellici, cioè campioni di roccia che facevano parte del mantello terrestre e che sono stati strappati dalla loro sede e trasportati verso la superficie da un magma in risalita. Negli Iblei (un altopiano collinare localizzato nella parte sud-orientale della Sicilia, compresa tra le province di Ragusa, Siracusa e Catania) il fenomeno è avvenuto 7-11 milioni di anni fa, quando nell’area si è sviluppata un’intensa attività eruttiva. Questi xenoliti hanno un alto valore scientifico in quanto permettono di ottenere informazioni dirette sul mantello terrestre al di sotto degli Iblei, provenendo da profondità di 30-40 km sotto la superficie. Le ricerche riguardano le analisi degli elementi maggiori e in traccia che costituiscono gli xenoliti, di alcuni isotopi (Sr, Nd) particolarmente significativi nei processi geologici, e dei gas nobili contenuti all’interno delle fluid inclusions. Queste ultime sono piccole bolle di fluidi che rimangono intrappolate all’interno dei minerali durante la formazione dei minerali stessi in condizioni magmatiche. Lo studio ha evidenziato che il mantello sottostante gli Iblei è eterogeneo ed in particolare costituito da due porzioni con caratteristiche geochimiche differenti, una formata prevalentemente da minerali come le olivine (porzione peridotitica), l’altra da minerali come i pirosseni (porzione pirossenitica); i due livelli interagiscono attraverso fenomeni di “metasomatismo” che avvengono in profondità, generando porzioni di mantello con caratteristiche intermedie. Alla vigilia della Grande Luna (al perigeo) del 5-6 Maggio 2012 (la Luna sarà il 30 percento più splendente e 14 percento più grande) la riflessione sugli influssi gravitazionali del nostro satellite naturale è d’obbligo. Anche perché sembra che le eruzioni dello Stromboli siano influenzate dalle fasi lunari. Almeno secondo quanto risulta da una ricerca statistica che si basa sui dati raccolti dalle reti di monitoraggio dell’Ingv. Lo studio è stato condotto da due ricercatori romani, Gianluca Sottili (Cnr, Roma) e Danilo M. Palladino (La Sapienza, Roma), su “Terra Nova” col titolo “Tidal modulation of eruptive activity at open-vent volcanoes: evidence from Stromboli, Italy”. Il tema delle possibili correlazioni tra l’attività eruttiva e gli effetti tidali è stato lungamente dibattuto in passato, evidenziando che queste correlazioni rientrano nel campo degli agenti secondari insieme agli effetti metereologici, come dimostrato in un lavoro pubblicato su “Geophysical Research Letters” da Patanè ed altri nel 2007. I risultati della ricerca sono stati anticipati in Italia da un articolo di F.F. Martin, uscito sul mensile “Le Stelle” diretto dal giornalista scientifico Piero Bianucci. “La ragione per cui la Luna possa in qualche modo influire sulle eruzioni vulcaniche è intuitiva, ma non per questo scontata” – si legge. Sia alla Luna Piena sia alla Nuova, cioè con cadenza di circa 14 giorni, la Terra subisce il massimo di effetto gravitazionale dovuto all’allineamento Sole-Terra-Luna, che si evidenzia sulle masse d’acqua con il fenomeno dell’alta marea, in maniera visibile a tutti; e sulla Terra solida in modo invisibile, ma strumentalmente rilevabile. Può tutto ciò avere conseguenze sull’efflusso della lava dalle bocche, o su altre manifestazioni dell’attività vulcanica? Sottili e Palladino hanno sottoposto al vaglio 17 mesi di attività dello Stromboli, durante i quali sono state registrate 150mila esplosioni ai crateri posti alla sommità del vulcano. Gli eventi esplosivi possono sembrare tanti rispetto al periodo di osservazione, ma proprio questa è la peculiarità del più settentrionale vulcano eoliano: in media, un’esplosione ogni cinque minuti. Grazie alla sua caratteristica attività persistente, lo Stromboli è un candidato perfetto per uno studio statistico efficace. Così, partendo dai dati registrati dalla rete di monitoraggio gestita dall’Ingv, i due autori dello studio hanno evidenziato la coincidenza fra i picchi massimi dell’attività stromboliana e le lune piene o nuove. Può una raffinata analisi come quella pubblicata basarsi sui grafici di bollettini ed essere veramente esaustiva per spiegare la correlazione tra l’attività eruttiva e lo stress mareale quando le forze in gioco sono migliaia di volte inferiori a quella della pressione del gas nel magma? Lo Stromboli è un vulcano esplosivo che erutta circa ogni ora, ma il 7 settembre 2008 la normale attività è stata interrotta da un evento di maggiore intensità. Da questo avvenimento nasce uno studio dell’Ingv in collaborazione con l’Università di Wurzburg in Germania e l’Univeristà di Bari, da poco pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale “Journal of Geophysical Research” e dal titolo “The 7 September 2008 Vulcanian explosion at Stromboli volcano: Multiparametric characterization of the event and quantification of the ejecta”. La ricerca ha permesso di calcolare l’entità del rilascio di energia cinetica degli eventi eruttivi maggiori. Sarebbe almeno dieci volte più alta di quella registrata nel corso dell’attività esplosiva persistente, che caratterizza questo vulcano. Le misure effettuate in zona sommitale dalle stazioni elettriche fisse di nove centraline, confrontate con l’analisi della sismicità e delle immagini registrate dalle telecamere di monitoraggio installate sull’isola, hanno permesso di quantificare e caratterizzare il materiale eruttato durante gli eventi esplosivi che normalmente si verificano a Stromboli, e di rapportarlo alla quantità e tipologia di materiale eruttato nel corso di eventi esplosivi cosiddetti maggiori, cioè di energia più elevata rispetto al normale. Nel corso degli eventi maggiori viene eruttata una seppur minima quantità di cenere con caratteristiche freato-magmatiche che indicano un’interazione con l’acqua di falda presente nell’edificio vulcanico, tipologia non presente nell’attività normale. “Questo studio – rivela la vulcanologa Sonia Calvari, prima firmataria dell’articolo scientifico – rappresenta anche un’analisi dei processi che portano il vulcano alle condizioni di poter produrre gli eventi esplosivi maggiori, e rileva tra i meccanismi scatenanti la diminuzione dell’attività esplosiva ad una delle bocche sommitali. Questa diminuzione si traduce in un raffreddamento superficiale del magma e quindi una parziale ostruzione della bocca eruttiva, che favorisce l’accumulo dei gas al di sotto della parte di magma raffreddato e quindi le condizioni per un possibile rilascio attraverso esplosioni più energetiche”. Sotto osservazione sono anche le potenzialità di un nuovo metodo per misurare le colate di lava. Una miriade di minuti frammenti di lava incandescente viene lanciata dalla bocca di un vulcano per poi ricadere verso terra, creando uno spettacolare effetto da fuoco d’artificio. È la spettacolare immagine dell’attività vulcanica che siamo abituati a vedere durante le eruzioni dell’Etna e dello Stromboli. Ma quanto è rilevante, in termini di volumi di magma fuoriuscito, la fenomenologia delle cosiddette “fontane di lava”? Il quesito se lo sono posti alcuni ricercatori dell’Ingv arrivando a conclusioni davvero interessanti grazie a un nuovo metodo per l’analisi delle immagini satellitari. In un articolo pubblicato su “Geophysical Research Letters” nel mese di marzo 2012, dal titolo “A year of lava fountaining at Etna: Volumes from SEVIRI”, i ricercatori Gaetana Ganci, Andrew Harris, Ciro Del Negro, Yannick Guehenneux, Annalisa Cappello, Philippe Labazuy, Sonia Calvari e Mathieu Gouhier, dell’Ingv e dell’Univerisità Blaise Pascal (Francia), arrivano a concludere che la quantità di lava emessa durante gli eventi parossistici del 2011 è confrontabile con i volumi annuali che hanno caratterizzato le eruzioni effusive etnee dal 1970 ad oggi. Gli studiosi hanno valutato in 28 milioni di metri cubi il magma totale emesso durante 19 fontane di lava (dal gennaio 2011 al gennaio 2012) elaborando le immagini termiche acquisite dal sensore SEVIRI a bordo del satellite Meteosat. “La curva di raffreddamento di una colata – fa notare Ciro Del Negro, dirigente di ricerca dell’Ingv – ha un andamento nel tempo che dipende dalla quantità di lava eruttata. Maggiori volumi saranno anche più spessi ed impiegheranno più tempo a raffreddare, quindi misurando quanto velocemente la lava si raffredda è possibile calcolare il volume con sufficiente precisione. A questo scopo, abbiamo sviluppato un metodo che analizza le immagini termiche del sensore SEVIRI per calcolare il flusso di calore prodotto da ciascuna colata di lava e utilizzando un modello teorico di raffreddamento della lava è stato stimato il volume di lava emesso”. Le fontane di lava sono episodi che accadono con frequenza molto irregolare all’Etna. “Si passa da un massimo di 66 episodi – rivela Del Negro – osservati nel 2000, a nessun episodio come nel 2005, quando ci sono state esclusivamente effusioni laviche. Durante il 2011 si sono verificate 18 fontane di lava. Quello del 1° Aprile è il quinto episodio del 2012”. L’importante è valutare i volumi di lava emessi dal vulcano.“I parametri dimensionali di una colata lavica sono proporzionali alla sua capacità distruttiva. Maggiore è il volume di una colata, più essa sarà lunga, e più lontane dalla sommità del vulcano saranno le aree potenzialmente soggette ad invasione lavica. Conoscere dall’inizio di un’eruzione qual è la portata della lava emessa dalla bocca effusiva permette di avviare tutte le simulazioni previsionali che individuano le aree maggiormente a rischio. In aggiunta, colate molto voluminose possono essere seguite da fasi di collasso della zona sommitale del vulcano”. Le nubi ardenti, infatti, sono i fenomeni più distruttivi in assoluto perché non lasciano scampo: potrebbero radere al suolo una città come Napoli e Catania in pochi secondi. Non solo. Lo scorso settembre 2011 alcuni ricercatori Ingv hanno pubblicato sulla rivista “Nature Scientific Reports” un articolo su alcuni terremoti verificatisi in Nuova Zelanda. Nature Press ha emesso un comunicato stampa relativo a questo lavoro. Oggi, l’Aspen Institute ha pubblicato un report, dal titolo “Italian Contribution to Research” in cui inserisce anche questo studio. La collaborazione dei cittadini è indispensabile. Le persone che da alcuni anni seguono il sito dell’Ingv sugli effetti dei terremoti (www.haisentitoilterremoto.it) oggi possono apprezzare delle interessanti novità: la pagina web è stata rinnovata nei contenuti e nella grafica con un più ricco corredo d’informazioni. I visitatori, compilando il questionario macrosismico, danno vita, grazie ai loro contributi volontari, a un mezzo utilissimo sia per la ricerca in sismologia sia per sensibilizzare la popolazione alla cultura dei terremoti, ricevendo informazioni sugli eventi sismici. Dal 2007 ad oggi, sono stati compilati quasi 300mila questionari, elaborate oltre 3.500 mappe di terremoti e registrati oltre 14mila iscritti. Gli utenti sono informati, tramite e-mail, ogni volta che si verifica un terremoto vicino alla loro zona di residenza. Senza contare le “App” elaborate dall’Ingv per i dispositivi Apple. Attraverso una specifica procedura basata su calcoli statistici, i dati sono raccolti ed elaborati in tempo reale. Grazie alla tempestività ed alla numerosità delle risposte della popolazione, le mappe degli effetti dei sismi sono disponibili in breve tempo. Tra le maggiori novità, segnaliamo le informazioni per ogni singolo terremoto, organizzate in una pagina dedicata: mappe macrosismiche sia in gradi Mercalli sia nella Scala Europea, mappa della percezione acustica, grafico dell’attenuazione, numero dei questionari compilati nel tempo ed altro. È possibile consultare la mappa dei questionari compilati nell’ultima ora in tutto il territorio italiano, che può essere utile per monitorare in tempo reale la percezione dei terremoti da parte della popolazione. “Siamo certi – dicono i ricercatori che hanno ideato il progetto – che in un vicino futuro il numero dei questionari compilati per evento sismico sarà sempre maggiore, garantendo un migliore dettaglio delle informazioni fornite dalle nostre mappe”. Gli scienziati non sono né profeti né maghi né fattucchieri. Essi, quando la Scienza lo consente, possono avvisare chi di dovere per l’approntamento delle necessarie misure di sicurezza e di emergenza, sulla base dei modelli e dei relativi scenari di protezione civile scelti, progettati ed attuati. Ogni scenario contempla il numero di vite umane salvabili per ciascun evento. Questo eccezionale lavoro congiunto tra ricercatori, mass-media e istituzioni, consente di evitare la morte di milioni di persone non solo in Giappone, riducendo sensibilmente il rischio sismico, vulcanico e nucleare. Gli scienziati nipponici non hanno chiesto la chiusura delle centrali nucleari, dopo l’evento dell’11 Marzo 2011, ma la realizzazione di misure e sistemi di sicurezza più efficienti. Queste ricerche dovrebbero essere divulgate capillarmente in tutto il mondo perché i futuri scenari apocalittici di Fukushima Daini, Onagawa e Tōkai, hanno molto da insegnare alle Istituzioni, presenti e future, deputate alla Protezione civile planetaria sulla Terra. 

Nicola Facciolini

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