For President

Ha ragione Bertrand Russell quando dice che quella economica non è scienza seria, anzi, non è affatto scienza. Nei giorni in cui Milano tira, il differenziale fra Buoni e Bund si riducono e la Merkel con Hollande elogiano l’Italia, Standard & Poor rivede al ribasso le stime del Pil per l’Italia, prevedendo per il 2012 […]

Ha ragione Bertrand Russell quando dice che quella economica non è scienza seria, anzi, non è affatto scienza.

Nei giorni in cui Milano tira, il differenziale fra Buoni e Bund si riducono e la Merkel con Hollande elogiano l’Italia, Standard & Poor rivede al ribasso le stime del Pil per l’Italia, prevedendo per il 2012 una contrazione del 2,1% e una flessione dello 0,4% nel 2013.

E, secondo l’agenzia di rating, anche per l’eurozona le stime sono in  calo: -0,6% nel corso di quest’anno e un debole +0,4% nel 2013.

E non si accontenta, ma ci va giù duro dicendo che “vede anche una possibilità del 40% che l’Europa nel 2013 ripiombi in una vera recessione, soprattutto nel caso di un rallentamento nel commercio mondiale” per via del raffreddamento di qualche economia emergente, come la Cina, o “di una prolungato mancato accesso ai mercati di capitali da parte di uno dei principali paesi dell’Eurozona”.

Ma anche la politica è scarsa quando a scienza e previdibilità in relazione a criteri rigorosi. Napolitano, grande sostenitore di Monti, dichiara che è prerogativa sua, come Capo dello Stato, di indire nuove elezioni ed invita tutti  i partiti “a rimuovere le maschere”, togliendo di mezzo  l’ultima scusa accampata dai partiti per rinviare la nuova legge elettorale e cioè la litania, ripetuta da tutti, secondo cui se la legge si fa adesso, , è sicuro che si andrà a votare a novembre. Per questo il Capo dello Stato ha voluto ricordare che non è affatto ovvio e che spetta a lui, e a lui solo, la decisione sullo scioglimento delle Camere.

Ma probabilmente una logica nella mossa di Napolitano è rintracciabile: piuttosto di continuare a stentare in un Parlamento proiettato su una campagna elettorale permanente, Monti avrebbe accettato un accorciamento del suo mandato, specie se nato da un impegno dei partiti della sua maggioranza, in vista delle urne, a non discostarsi dagli impegni di risanamento economico presi con l’Europa, e a impegnarsi all’indomani del voto a riprendere con maggior lena il lavoro condotto fin qui.

Ed è chiaro, a Napolitano a Monti e a tutti, che, a questo punto,  i partiti che hanno sostenuto il governo in questi nove mesi di “strana maggioranza”, avrebbero dovuto  invitarlo a continuare.

Ed è proprio questo, nota Marcello Sorgi su La Stampa, che ha creato il subbuglio a cui stiamo assistendo e in tutti i partiti.

Il primo ad aver fatto capire di non condividerla è stato Bersani, il quale, non è un mistero, forte del consenso che i sondaggi gli assegnano, punta a costruire un’alleanza di centrosinistra in grado di vincere le elezioni, e ad allearsi con Casini se la vittoria non dovesse essere sufficiente a governare, per avere una solida maggioranza in Parlamento.

Coerentemente con questa impostazione, il leader del Pd punta a una legge che assegni un premio elettorale alla coalizione vincente, favorendo così l’avvicinamento dei partiti che puntano a governare insieme, e vedrebbe bene un anticipo delle elezioni che gli consentisse di chiudere rapidamente la partita.

Preme sull’acceleratore, adesso, anche Berlusconi, che fino a poco fa pensava di aver bisogno di tempo per recuperare ed ora, invece, si è convinto che il suo partito, popolato di transfughi pronti ad andarsene con chi gli promette la rielezione, non sopravviverebbe a un altro inverno.

Di conseguenza, il primo passo è stato rimettere in piedi l’asse del Nord con la Lega, che ha votato la riforma semipresidenzialista, e sarebbe pronta a rivotare al Senato, dove ancora, seppure sulla carta, ha la maggioranza, il testo di una legge elettorale concordata all’interno del vecchio centrodestra.

Un gesto di rottura che ha spinto il Pd a minacciare la crisi di governo.

Ma se invece della crisi, in realtà improbabile, la forzatura annunciata dal Pdl bastasse a spostare la trattativa che il Colle è tornato a sollecitare, orientandola verso un’intesa con il Pd e verso una legge che consenta al centrodestra di vincere o di pareggiare senza andare all’opposizione, Berlusconi sarebbe contento.

Chi invece frena e continua a giocare la parte del mediatore è Casini e non perché davvero vuole favorire le possibilità di un ritorno di Monti, stavolta per un governo di legislatura, al quale l’Udc ridarebbe volentieri il suo appoggio; ma per una ragione più delicata e, per così dire, personale. Per Casini è infatti il momento di porsi come candidato alla successione al Quirinale, nella corsa che si aprirà la prossima primavera.

L’ideale per l’ex presidente della Camera, che è giovane,  ma ha tutte le carte in regola per proporsi di sostituire Napolitano, sarebbe che si votasse nel 2013, con una legge elettorale che non lo obblighi a dichiarare con chi si allea prima del voto, e trattare successivamente, con chi vince o si piazza meglio, l’appoggio al governo,  in cambio di quello per la Presidenza della Repubblica.

Senza trascurare, poi, la campagna acquisti per il suo partito, come ha scritto ieri il Tempo, anche se solo nella pagine interne, segnalando che, per favorire l’obiettivo di una coalizione formata da socialisti e democristiani, Casini è pronto ad aprire le proprie liste ai ministri tecnici, tanto che, in una intervista a  Repubblica, dice di voler cooptare sicuramente Andrea Riccardi, Corrado Passera e Alessandro Profumo, al fine di “organizzare un centro moderato e riformista” ed aggiungendo, per maggio chiarezza, “l’Europa è stata fatta nei decenni passati, mettendo insieme le due grandi famiglie politiche del Continente. L’Europa ha avuto protagonisti come Kohl e Mitterand, Juncker e Gonzalez. Socialisti e democristiani. Per l’Italia di oggi vedo un’intesa simile”.

Certo Casini ed il suo partito avranno molto da farsi perdonare e da cancellare, dall’appoggio, poi ritirato, a Berlusconi all’alleanza contro natura con Fini e il suo manipolo di velenosi scudiere, ma sappiamo che la memoria della’ elettorato  è solitamente corta.

Più grave il fatto, per Casini, che da politico che si dice cattolico ci si aspetterebbe che il faro fosse rappresentato dal Pontefice, che a proposito di economia “qualche” consiglio l’ha pure fornito e non certo da tecnici che non paiono in sintonia con la carità cristiana.

Aveva ragione Einaudi: la differenza fra un politico e uno statista sta nel fatto che il primo guarda ad oggi e all’elettore, il secondo al futuro ed alla Nazione.

Einaudi fu liberale e liberista, ma vicino alle istanze cattoliche e per lui,  autointeresse e necessità andavano sempre visti in connessione con l’elemento morale, che pone l’individuo e le sue facoltà come fine del sistema economico. In questo, egli era tributario ai filosofi dell’Illuminismo scozzese, e in particolare ad Adam Smith.

Neanche nei periodi di imperante positivismo Einaudi aderì alla lettura che rendeva la Ricchezza delle nazioni luogo di esaltazione di un egoismo individualistico.

È in questa visione che si comprende appieno la critica che egli fece di John Maynard Keynes riguardo alle cause della crisi economica dei primi anni Trenta. Per Einaudi essa fu innanzitutto una crisi morale, e pertanto non poteva essere risolta con gli strumenti monetari e di bilancio indicati dall’economista inglese. Un mercato funzionante ha bisogno di istituzioni, di norme di comportamento, il cui orizzonte funzionale e temporale oltrepassa i singoli interessi individuali. Di qui il ruolo che egli attribuiva allo Stato, pur nella forte adesione ai principi liberisti, per i quali lo Stato medesimo rappresentava una perenne fonte di pericoli.

Gli anni Novanta hanno visto la rinascita di interesse in Italia per il liberalismo. Questa rinascita è quasi completamente avvenuta grazie alla diffusione del pensiero di giganti come Popper, Mises, Hayek. Un ruolo del tutto secondario è stato svolto dalla riconsiderazione della tradizione liberale che mette appunto capo a Einaudi, e che comprende pensatori come Ferrara, Pantaleoni, De Viti De Marco. È questo un peccato, perché inevitabilmente le ritrovate idee liberali si sono diffuse nella forma di argomentazioni e principi generali, staccati dall’analisi e dalla critica della specifica realtà storica italiana.

Tra queste specificità vi è senz’altro il peso che la religione e la tradizione cattolica hanno avuto e hanno tuttora nel formare l’opinione degli italiani a proposito del capitalismo e del mercato. La posizione di Einaudi (che era credente, e lo affermò sempre chiaramente, seppure senza ostentazioni strumentali) era che cattolicesimo e liberismo non fossero affatto inconciliabili, e che la principale ragione di tanta opposizione della chiesa al capitalismo e al mercato fosse la semplice ignoranza da parte dei sacerdoti dei concetti fondamentali dell’economia. Un concetto sul quale meditare anche dopo la Centesimus annus, se si considera quanto poco riflesso essa abbia avuto nella predicazione e nelle posizioni politiche assunte dal mondo cattolico italiano.

Ma la sua è una delle tante eredità mancate in terra italiana.

Ciò che resta evidente, nelle mille fumose alchimie della politica e fra le bizzarrie indomabili della economia, è quando detto da Napolitano, che ha rinnovato il “forte appello a un responsabile sforzo di rapida conclusiva convergenza in sede parlamentare” sulla riforma elettorale ed aggiunto che: “Ciò corrisponderebbe con tutta evidenza al rafforzamento della credibilità del paese sul piano internazionale in una fase di persistenti gravi difficoltà e prove”.

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