Il teatro in 12 categorie e una nota sulla morte della bellezza

In tutto 12 categorie per altrettante terne di finalisti, decretate a giugno da una giuria di esperti presieduta da Gianni Letta e poi votate, durante l’estate per posta, da oltre 500 artisti e professionisti della scena. Ieri sera, con diretta su Rai 1 in seconda serata, l’edizione 2012, dal Teatro S. Carlo Di Napoli, del […]

In tutto 12 categorie per altrettante terne di finalisti, decretate a giugno da una giuria di esperti presieduta da Gianni Letta e poi votate, durante l’estate per posta, da oltre 500 artisti e professionisti della scena.

Ieri sera, con diretta su Rai 1 in seconda serata, l’edizione 2012, dal Teatro S. Carlo Di Napoli, del premio teatrale Le Maschere, il più importante d’Italia, ideato da due grandi visionari, Luca De Fusco,  che era da poco diventato direttore del Teatro Stabile del Veneto, e Maurizio Giammusso, per rappresentare tutto il teatro italiano nella ricchezza delle sue esperienze, nella varietà delle sue anime produttive e culturali.

A presentare il bravissimo Tullio Solenghi, con un “parterre” d’eccezione: Michele Placido “contro” Gabriele Lavia e Massimo Ranieri “contro” Luigi Lo Cascio e, ancora Mariano Rigillo, Lina Sastri, Filippo Nigro, Ferdinando Bruni,  Elio De Capitani e tanti altri.

Per lo spettacolo in prosa “The coast of utopia”di Marco Tullio Giordana, ha battuto “I masnadieri” di Gabriele Lavia, e“Così è (se vi pare)” di Michele Placido e, come regista, Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani  per “The history boys”, hanno battuto Gabriele Lavia e Michele Placido.

Miglior attore protagonista, l’incredulo (grande stagione per lui), Luigi Lo Cascio per  “La diceria dell’untore” da Bufalino, con altri finalisti Mariano Rigillo (“Ferito a morte”, da Raffaele La Capria) e Massimo Ranieri (“Opera da tre soldi”).

Migliore attrice Laura Marinoni (“Un tram chiamato desiderio”), che ha battuto Lina Sastri (“La casa di Bernarda Alba”) e Mascia Musy (“Trovarsi”).

Come miglior attore non protagonista il premio è andato a Ugo Maria Morosi (“Opera da tre soldi”), che ha prevalso su Pippo Pattavina (“La governante”e “La menullara”) e Giancarlo Conde (“I giganti della montagna”).

Invece, per l’attrice non protagonista, l’ha spuntata Elisabetta Valgoi (“Un tram chiamato desiderio”),  su Gaia Apreia (“La casa di Bernarda Alba”) e Margherita Di Rauso (“Opera da tre soldi”).

Il premio per l’Attrice/Attore emergente se l’è preso  Federica Sandrini (“La casa di Bernarda Alba”), superando Silvia Siravo (“Questa sera si recita a soggetto”) Filippo Nigro (“Occidente solitario”) e quello per il monologo è andato alla grande Annamaria Guarnieri (“Eleonora, ultima notte a Pittsburgh”), preferita a  Toni Servillo (“Toni Servillo legge Napoli”) e Galatea Ranzi (“Mistero doloroso”).

Come autore di novità italiana la maschera è stata assegnata a Vincenzo Pirrotta  per “La diceria dell’untore”; per la musica a Germano Mazzocchetti  per “Le allegre comari di Windsor”; per i costumi  a Francesca Sartori ed Elisabetta Campo  per “The coast of utopia” e, infine, per la scenografia, a Fabrizio Plessi  per ‘Opera da tre soldi’.

Il Premio Speciale alla Carriera a Maurizio Scaparro, critico, regista, per molti anni direttore del Festival Internazionale di Teatro all’interno della Biennale di Venezia, signore del teatro italiano per eccellenza, ieri sera festeggiato a pochi giorni da un traguardo importante, gli 80 anni, che ha compito lo scorso 2 settembre.

E Scaparro, in trenta secondi, ha tracciato il futuro che questa Nazione “affacciata sull’Europa”, deve percorrere: spazio ai giovani in tutti i settori ed unità fatta non di banche, ma di cultura.

Scriveva alcuni anni fa  sulla “Review of book” di New York, il critico James Roy Mcbean :” Ho avuto l’opportunità di vedere nel corso di pochi giorni a San Francisco la versione cinematografica e quella teatrale del Don Chisciotte di Scaparro. Come in Brook c’è in lui un’intelligenza multiforme unita a una lucidità teatrale capace di rendere le sue idee in una forma particolarmente chiara. Inoltre Scaparro, come Brook, ha il coraggio intellettuale di affrontare le ‘grandes ideas’ sulla condizione umana, privilegiando il lato più tenero della nostra vita, la vivacità della nostra fantasia, la vulnerabilità dei nostri sentimenti”.

Su Scaparo ho letto un libro, frutto di una lunga intervista di Daniele Aluigi, aperto da un saggio Maria Grazia Gregori, firma de L’Unità e studiosa di teatro, intitolato “Scaparro. L’illusione teatrale”, uscito lo scorso anno, in cui si analizza a il suo lungo e originale percorso artistico, dalle prime esperienze di regista (con la sua ‘scandalosa’ “Venexiana”), passando per spettacoli che sono spesso rimasti nella memoria storica del teatro italiano e ricordando anche il lavoro svolto sui palcoscenici e nelle istituzioni pubbliche italiane ed europee.

In questo ambito ricordiamo i progetti attorno ai temi a lui cari dell’utopia teatrale e della festa, con l’eco suscitata negli anni Ottanta dal suo Carnevale del Teatro alla Biennale di Venezia, fino alla costante attenzione per il rapporto tra linguaggio teatrale e cinematografico, partendo dal suo ormai famoso progetto multimediale del 1983 sul “Don Chisciotte” fino al recentissimo film dedicato al teatro, “L’ultimo Pulcinella”, con Massimo Ranieri, uscito in sordina nel 2008.

Per Scaparro,   la magia della creazione artistica viene soprattutto dal teatro, da quello presente e da quello passato, dal teatro parigino del 600 e del 700, dove “les italiens” erano amati per la vivacità e la freschezza della loro recitazione e dove si parlava una lingua artistica comune. “Oggi i francesi ci guardano con un po’ diffidenza, ma è solo un atteggiamento iniziale, perché, come diceva Jean Cocteau, in fondo sono solo degli italiani di cattivo umore. La verità è che ci vogliono bene”, ha detto.

Nella serata su Rai1, simpaticamente condotta da Tullio Solenghi, in molti, poi, hanno ricordato (e ringraziato, riconoscenti), un grande del teatro italiano: Giuseppe Patroni Griffi, napoletano di nascita ma emigrato a Roma subito dopo la guerra come molti altri intellettuali partenopei, morto il 15 dicembre di sette anni fa, a 84 anni, creatore (come La Capria) di personaggi spesso in anticipo sui tempi, sempre trasgressivi, portatori di una visione del mondo sensuale e libertaria, che tende a scardinare i tabù sociali legati alla sessualità e le sue storie; laboratori di sperimentazione di tutte le dinamiche erotico-sentimentali possibili.

Numerose le regie teatrali di successo di opere di Pirandello, Eduardo, Cocteau, Pinter, Tennesse Williams, con un lavoro continua ed inesausto, cessato solo con la sua morte  (il lavoro di Patroni Griffi si è interrotto proprio mentre lavorava ad una nuova edizione di un dramma di Williams, Improvvisaente l’estate scorsa, portata al cinema con partitura di Gore Vidal).

Pochi sanno che gli anni del Liceo li ha trascorsi a L’Aquila, presso il Collegio D’Abruzzo, in via Camponeschi ed è forse in quegli anni che, come accaduto per Carlo Maria Martini, sempre a l’Aquila come direttore dell’Istituto Biblico dei Gesuiti, ha imparato la necessità di comprendere gli altri, soprattutto i più poveri e diversi.

Oltre a “Metti, una sera a cena”, Patroni Griffi ha firmato una serie di regie cinematografiche tutte caratterizzate da raffinato estetismo e animate da esplicita volontà di scandalizzare il moralismo della cultura dominante, tra cui ricordiamo “La divina creatura” da un romanzo liberty di Luciano Zuccoli, “Addio fratello crudele”,  da un dramma elisabettiano di John Ford e “Identikit” da un romanzo di Muriel Spark.

Credo, personalmente, che la sua cosa più bella resti comunque il romanzo “La morte della bellezza”, suo ritorno alla narrativa nel 1987, storia ambientata a Napoli negli ultimi anni della seconda guerra mondiale:  una Napoli bombardata, martirizzata, annientata nella sua “bellezza”. Lilandt, un giovane di 27 anni, di madre italiana e di padre tedesco, ed Eugenio, un liceale di 16 anni, si incontrano in una sala cinematografica oscurata dai bombardamenti e si amano. Il più grande sa cosa sta facendo, “aveva accettato di essere quello che aveva sempre saputo, e se ne stette in pace, uomo tra gli uomini”, il più giovane percepisce che si trova davanti a “rivelazioni definitive”, si interroga e quando decide che quello che prova è amore, vi si abbandona. Nella casa di Lilandt, in vicolo del Trono, a Posillipo, i due giovani si amano con violenza e con dolcezza, si masturbano, si penetrano, si conoscono fino a farsi male ed elaborano una loro modalità di amore tra maschi.

Nel romanzo, alla conoscenza violenta dei sensi fa da cornice la violenza della Storia che si abbatte impietosa su Napoli, sicchè la morte della bellezza è la metafora di un amore che muore (Lilandt conosciuto come il tedesco scappa da Napoli), ma anche di una città violentata e stravolta. “Com’era bella Napoli quarant’anni fa…” . Sono le parole con cui inizia il romanzo e riecheggiano per tutto il libro, simbolo di una perdita irreparabile, che diventa rimpianto, memoria di un mondo irrimediabilmente perduto, come la giovinezza e come l’amore dei due protagonisti.

Ho riletto il romanzo dopo il terremoto aquilano del 2009 è mi sono più volte commosso perché, in fondo, il terremoto ci ha tolto non le case, le chiese e la sicurezza, ma il senso stesso della bellezza.

E senza bellezza non vi è umanità, come ho imparato da “La bellezza dell’universo”, saggio a tiratura limitata e numerata di Gesualdo Bufalino, preparazione a “L’uomo invaso”, raccolta di racconti del 1985, che privilegiano sempre e comunque le ragioni del soggetto (ossia del grumo immaginativo ed espressivo con cui il soggetto si identifica) rispetto all’orizzonte vastissimo degli oggetti da esprimere”.

Perché Bufalino è pura letteratura e ce ne accorgiamo ogni volta che leggiamo anche solo una riga dei suoi scritti. Non una sbavatura, non un termine poco appropriato, non una virgola fuori posto nella sua prosa sempre elegante e raffinata, complessa, ricca di una letterarietà e un lirismo fuori dal comune.

Ma non è letteratura sterile e pedante, ma ricerca di bellezza, quella stessa che cerca il teatro e che salva l’uomo da ogni disastro.

In quella raccolta ho consumato le pagine de “Le visioni di Basilio ovvero La battaglia dei tarli e degli eroi”, che ci riporta la storia affascinante di un custode del sapere, intento a preservare tutti i libri di tutte le biblioteche del mondo, da un “invulnerabile verme” che divora le pagine dei volumi rinchiusi in una fortezza sul Monte Athos.

Tenerli ben sigillati e non leggerli sarà una dura prova, così come distruggere definitivamente il morbo flagello del sapere.

Nel “Cid” di Corneille (anche lui, guarda caso, di formazione gesuita), capolavoro del teatro mondiale, predominano i sentimenti del dovere, dell’onore e della ricerca di quell’equilibrio che nasce dalla bellezza,  che danno vita ai due personaggi più straordinari: Rodrigo e Chimena, eroi corneliani che nascono dal tentativo di trovare una sintesi anche estetica, tra la cieca fedeltà al modello e alle regole degli antichi e l’eccessiva e disordinata libertà dei moderni, in cui è proprio la bellezza a rendere l’azione sublime e non disumana.

Sicché, sebbene si dica che è con il giansenista Racine che il teatro francese (ed europeo), esce dalla staticità del classico per approdare al caldo abbraccio della poesia, è proprio Corneille (e già nel ‘600) a dirci che la parola non è magniloquenza e non solo senso, ma scultorea rappresentazione della ricerca della bellezza, che mai l’uomo dovrebbe negarsi e negare, in nessuna circostanza.

Carlo Di Stanislao

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