Come direbbe Giulio Cesare, “Italia est omnis divisa in partes tres”: il partito della legalità, il partito dell’impunità, il partito dei quaquaraquà. Quest’ultimo è decisivo, poiché denunciando come manichea l’intransigenza nella lotta contro l’impunità, garantisce i “porci comodi” di ladri corrotti e mafiosi.
Davigo ricorda una frase terribile, attribuita a Giolitti che dice: “Le leggi si applicano ai nemici, e si interpretano per gli amici e ricorda ancora Calvino che scrisse di noi: “c’è un paese che si regge sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia”.
Nel 1951 uscì “Gesù fate luce” che o ottenne il premio Viareggio e, nel 1958, dal racconto Cappuccia Giorgio Ferrari trasse un dramma musicale dal titolo Cappuccia o della libertà.
“Gesù fate luce” è uno dei capolavori del nostro Novecento, dove Domenico Rea osserva l’umanità con sguardo dolente e disperato, incline a credere che nulla davvero cambiweròà nella miseria umana.
Lì si parla di fame e di povertà, assunti come dati di fatto assoluti, extratemporali, ma oggi vengono in mente quelle pagine nelle fattezze di una contingenza storica fatta di politica corrotta, adunca, incline al ladrocinio e alla malversazione, mentre la Nazione langue e si dibatte fra infinite disperazioni.
Sessanta miliardi l’anno ci costa il malaffare, senza tener conto che prendere stipendi dieci volte superrori alla media (e intendo quella di chi uno stipendio lo possiede), è già di per sé un malaffare.
In verità, nel 1987, La SugarCo nel 1987 pubblicò un poderoso lavoro di J. T. Noonar, Ungere le ruote, in cui l’autore la faceva risalire addirittura al 3000 a. C., come caratteristica saliente di tutte le civiltà antagonistiche.
Là dove esiste un potere politico gestito da una ristretta minoranza, lì c’è sempre corruzione. Quanto più l’economia su cui si basa questo potere è ricca, tanto più è forte la corruzione. Sono praticamente leggi di una natura perversa. E in Italia abbiamo avuto degli esempi davvero eclatanti: dalla Banca Romana, ai tempi di Crispi e Giolitti, allo stragismo rimasto impunito, alla P2, al caso Moro, a Mani pulite, al più recente berlusconismo.
Il fatto che i nostri politici siano particolarmente corrotti non deve indurre a pensare che il popolo italiano sia peggiore di altri popoli. Anzi, considerando la netta separazione che vige nel nostro paese tra politica e società, si potrebbe pensare che gli italiani, fin quando non s’interessano di politica, sono un popolo altamente morale e che eventualmente diventano immorali quando cercano di difendersi, a titolo individuale, dalle prepotenze dello Stato; in tal caso infatti, poiché comunque lo Stato chiede d’essere pagato e obbedito, il cittadino più furbo scarica sul più ingenuo il costo e i doveri di quanto lui stesso dovrebbe sostenere.
Ma, ciononostante, i livelli di guardia sono stati largamente superati e le organizzazioni criminali che si sono assise al vertice delle più alte cariche dello Stato e degli organi di governo territoriale, esprimendo esponenti di rappresentanza politica dei propri interessi economici e dimostrando chiaramente, di possedere, afferrata saldamente con i propri artigli, l’intera comunità nazionale, dipingono una situazione allarmante e davvero deprimente.
E’ tuttavia sbagliato l’atteggiamento di chi pensa che tutti i politici sono corrotti, perché genera fatalismo e rassegnazione. In realtà, ci sono tante persone che si sforzano sinceramente di compiere il loro dovere e non tutti gli atti compiuti nel servizio della cosa pubblica sono soggetti a questa accusa.
Senza questo ridimensionamento, entriamo nel genericismo, nella nebulosa nera che ci impedisce di operare.
La corruzione non sarebbe un male irrimediabile se coloro che hanno a cuore questi problemi prestassero aiuto, collaborazione, riflessione.
È verissimo che l’immoralità politica ha raggiunto in non pochi paesi livelli preoccupanti e però rischia di oscurare nell’ opinione pubblica anche i meriti che la classe politica nel suo insieme ha acquisito, e che noi dobbiamo anzitutto riconoscere. Se consideriamo la storia democratica del nostro paese e pensiamo alla situazione di quarant’anni fa, non possiamo sottacere i meriti amplissimi della classe politica nel suo insieme.
E dunque importante usare un linguaggio attento, serio, non irresponsabile, secondo il principio della verità evangelica: pane al pane, vino al vino, chiamando le cose con il loro nome e predendo che su ogni cosa o scandolo si faccia “piena luce” e non si stenda né veli pietose, né ombre distoglienti.
Ciò che occorre sempre rammentare è che Lla corruzione non solo rende inapplicabili leggi e regole, e le piega al desiderio del più forte, e del più ricco, ma rende inefficaci principi di uguaglianza e libera concorrenza che sono le basi fondamentali per una economia sana.
Non per nulla i Paesi che hanno indici di corruzione, politica e nella pubblica amministrazione, sono abitualmente i più poveri e quello ove regna il caos, e spesso anche la guerra civile.
Carlo Di stanislao
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