Michael Cimino: l’innocenza di un bambino e la saggezza di uno stregone

Del cinema ha scritto che “è un a verità che mente di continuo” ed ancora che “si può impararne la tecnica in poche settimane, ma occorrono anni di buone letture per farne qualcosa di durevole”. Michael Cimino, morto due giorni fa a 77 anni nella sua casa di Los Angeles, è stato definito poeta megalomane, genio […]

Del cinema ha scritto che “è un a verità che mente di continuo” ed ancora che “si può impararne la tecnica in poche settimane, ma occorrono anni di buone letture per farne qualcosa di durevole”. Michael Cimino, morto due giorni fa a 77 anni nella sua casa di Los Angeles, è stato definito poeta megalomane, genio incompreso, artista libero, maestro discusso ed insieme indiscutibile, artefice di capolavori riconosciuti come “Il Cacciatore” (5 premi Oscar) e misconosciuti come “ I cancelli del cielo”: flop totale che costò la bancarotta alla United Artists.

Un altro film indimenticabile, girato nel 1996, è “Verso il sole”, dove si vede che Cimino è stato qualcosa di particolare nella storia del cinema: un artista completo ed eccentrico, che sapeva di architettura e pittura, capace di scrivere e dai vasti, vastissimi interessi.
Da regista si è avvicinato troppo presto al sole e in tutta la carriera ha pagato quel successo con la scarsa fiducia dei produttori (appena otto film in carriera), dopo il già ricordato ed ingiusto tonfo brutale de “I cancelli del cielo”.

Poco spesso si è sottolineato il suo talento come sceneggiatore: da “2002 la seconda odissea” per il genio degli effetti speciali Douglas Trumbull, a “Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan”, con cui seppe reinventare il mito del giustiziere Clint Eastwood. Dal doloroso e personale “The Rose” di Mark Rydell, con Bette Midler sulle orme di Janis Joplin, a “I mastini della guerra” di John Irvin.
Nato a New York il 3 febbraio 1939 da piccoli borghesi immigrati dalla Sicilia, il giovane Michael arde di passione per l’arte fin da adolescente. Studia architettura, musica, letteratura, ma trova la sua prima vocazione nella pittura, che praticherà per tutta la vita esponendo in gallerie di sempre maggior prestigio.

Dopo un breve periodo sotto le armi nel cuore del dramma vietnamita, riesce a tornare alla vita civile, lavorando per la tv e la pubblicità.
Frequenta anche l’Actors Studio, con compagni come Al Pacino, Dustin Hoffman, Meryl Streep. Nel ’71 sbarca a Hollywood. Clint Eastwood garantirà per lui, permettendogli il debutto come regista appena tre anni dopo “Una calibro 20 per lo specialista”
“È il più faraonico dei registi con i quali ho mai lavorato”, ha detto di lui Oliver Stone, che con Cimino ha scritto “L’anno del dragone”.
Tutta la sua filmografia appare come una ricerca delle radici della sua terra d’elezione, come se ogni volta dovesse giustificare la sua doppia identità interiore.

Così andrà in Italia come Coppola per “Il siciliano” sul Bandito Giuliano; seguirà le orme di un maestro tipicamente americano come William Wyler nel remake di “Ore disperate”; reinventerà il road movie come pretesto di un viaggio della coscienza nell’allucinato “Verso il sole” con Woody Harrelson, che rimane il suo testamento cinematografico.
E’ stato un uomo coerente, che ha oltrepassato la linea d’ombra, che ha sposato il cuore di tenebra e che per sopravvivere all’esclusione del grande giro delle major hollywoodiane (necessarie per realizzare i suoi film ambiziosi) ha inventato un dominio tutto suo attraverso cui parlare e regalare visioni del mondo.
Lo ha fatto con i libri soprattutto, soprattutto, io credo, con “Big Jane”, che lui stesso presentò a Venezia nel 2003 e dove fa dire alla protagonista: “non finirò mai sotto terra, ma lascerò che il mio cadavere venga divorato dagli uccelli, sugli alberi del mio ranch in Montana”.
Non è andata così perché nessuno se l’è sentita di rispettare questa volontà, ma idealmente lui è morto con la convinzione di volare libero nel cielo, divorato dagli uccelli.

Era una fonte inesauribile di storie, che raccontava con l’entusiasmo innocente di un bambino e la saggezza diabolica di un vecchio stregone.
Tornando al romanzo, come nei suoi film, Cimino racconta la sua America, che ricorda, per certi versi, quella di Una calibro 20 per lo specialista: un paese fatto di lunghe strade sulle quali viaggiano sogni e speranze, di locali e stazioni di servizio sparsi nella quieta provincia, di personaggi in perenne equilibrio tra realtà e mito; cowboy falliti, pellerossa, soldati, ma anche artisti e gente del cinema (a Hollywood, ovviamente, che Cimino non perde occasione di condannare aspramente). Un universo multiforme nel quale Jane passa come una saetta, sulla sua moto, gettando uno sguardo fugace e ripartendo subito, incapace di trovare quello che cerca.
E quando Billy scompare, travolto da un destino più grande e crudele di lui, il viaggio di Jane prosegue, inarrestabile, soltanto velata da una malinconia indifferente a ogni sussulto e mai totalmente sopraffatta. Dal Texas alla Death Valley a Los Angeles, Jane si lancia a testa bassa verso il futuro, sola con la sua giovane follia.
Nemmeno la guerra la spaventa. Volontaria in Corea (il romanzo è ambientato nei primi anni Cinquanta), Jane scopre l’orrore dei combattimenti, la tragedia della morte e degli spargimenti di sangue, ma anche il calore del cameratismo e dell’amicizia (impossibile non pensare, in questo caso, a Il cacciatore).

Con un linguaggio diretto e immediato, a tratti lirico, a tratti crudo e triviale, Cimino racconta un’avventura on the road, alla ricerca di qualcosa che neppure ha un nome (libertà, forse, o felicità, o pienezza). Un viaggio “in presa diretta”, dolente e disperato, sulle note di canzoni urlate a squarciagola durante paurose e spericolate evoluzioni sulla moto o nei roadhouse che appaiono all’improvviso lungo le interminabili strade americane.

Cimino maneggia efficacemente le tecniche narrative, utilizzando una prosa accattivante, quasi mai descrittiva e sempre attaccata all’azione, fedele allo svolgimento degli eventi.
Il romanzo è un vorticare di situazioni che si intrecciano le une con le altre, senza pause (anche se la meditazione è presente, ma bisogna cercarla soprattutto tra le righe), la cui mutevolezza riflette il disagio interiore della protagonista, la sua volontà di cambiamento. Il regista dà il meglio di sé nei dialoghi, asciutti e serrati, e nelle descrizioni visive dei luoghi. È chiara la derivazione cinematografica dell’autore: sembra quasi, a volte, di leggere una sceneggiatura, della quale Big Jane conserva la brillantezza dei dialoghi, l’efficacia drammatica di certe scene (vere e proprie “sequenze” cinematografiche), la potenza visiva di alcune immagini: “ingranò la marcia, esitò un istante, poi riprese l’autostrada, accelerando in direzione del tentacolare raccordo autostradale. Il sole le spendeva sul petto, la luna le illuminava d’argento le spalle”

Sono d’accordo con Giulia D’Angelo Vallan, che lo aveva conosciuto nel 2000, mentre lavorava ad una monografia su Clint Eastwood.
Cimino è stato un esempio di irriverenza sublim,e che fece di lui un paria a Hollywood, e che, in fondo al cuore, dietro alle battute al vetriolo, ha accusato una dopo l’altra le frecciate che da Hollywood, ciascuna delle quali creava un piccolo squarcio in più nell’enorme ferita che lo separava dalle cose che amava maggiormente: l’America e il suo cinema.
Non è stato mai davvero compreso questo autore dalla sua stessa gente.
Prova ne è il fatto che nel 2012 quando l’etichetta DVD Criterion decise – con il sostegno e la collaborazione di Cimino – di restaurare la versione integrale di “I cancelli del cielo”, gli applausi furono lunghi ed interminabili tanto a Venezia che al New York Film Festival, tanto che, a trentasei anni dalla prima uscita, si riaprì il dibattito sul film e, dopo la nuova distribuzione nelle sale, in molti cominciarono a parlare, ma troppo tardi, di capolavoro incompreso.

In fondo ciò che Cimino ha fatto, come regista, romanziere e pittore, è stato di offrire a chi sapeva vederla, un’intensa metafora del disfacimento del sogno americano, ma anche una possibilità di redenzione nella capacità di andare sempre avanti, inseguendo il proprio “personale” sogno, per incontrare, alla fine, una vittoria che ha il sapore della scoperta di se stessi e del proprio ruolo in una realtà crudele e contraddittoria

Carlo Di Stanislao

Una risposta a “Michael Cimino: l’innocenza di un bambino e la saggezza di uno stregone”

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