Guerre per il controllo dell’acqua; quando l’assurdo diventa realtà

Negli ultimi tempi la penuria di acqua, complice anche la riduzione delle precipitazioni e l’affermarsi di un clima decisamente tropicale, ha assunto un rilievo sempre più marcato nell’area mediterranea e nell’Africa subsahariana e, stante la sua comprovata capacità di innescare guerre o di accentuare situazioni di tensione sociale già di per sé esistenti, essa sta […]

Negli ultimi tempi la penuria di acqua, complice anche la riduzione delle precipitazioni e l’affermarsi di un clima decisamente tropicale, ha assunto un rilievo sempre più marcato nell’area mediterranea e nell’Africa subsahariana e, stante la sua comprovata capacità di innescare guerre o di accentuare situazioni di tensione sociale già di per sé esistenti, essa sta proponendosi come ulteriore fattore di rischio per un pianeta già alle prese con un fardello di problemi dalla improba soluzione.
Vero è che un argomento del genere sembra avere tutte le caratteristiche del paradosso, soprattutto per chi di acqua ne dispone in abbondanza, ma proprio per questo è indispensabile puntualizzarlo a dovere: ed in effetti l’acqua, il più prezioso dei beni ed in quanto tale insostituibile, è destinato a rappresentare al contempo un formidabile nemico per la pace e la sicurezza mondiale, non meno pericoloso in ciò dell’integralismo religioso o del traffico di armi, e sempre più lo sarà nel futuro prossimo, se è vero che la sua accentuata scarsità spingerà intere comunità o popoli a fare di tutto per accaparrarsene la disponibilità.
D’altro canto, se uccidere in nome dell’acqua può apparire un qualcosa di semplicistico o addirittura di inevitabile, a ben guardare un simile problema ha poco o niente di banale, vista la sua drammatica diffusione in almeno tre continenti, la tendenza a degenerare in faide locali difficili da controllare e, come logica conseguenza, l’utilizzazione da parte di elitès politiche corrotte ed incompetenti come ottima scusante per accentuare rivalità e, in generale, per destabilizzare aree a dichiarato rischio di conflittualità.
E che uno scenario del genere sia destinato ad aggravarsi lo sottolineano gli scienziati, i quali ci ricordano che nel giro di una decina di anni, a fronte di un incremento vertiginoso della popolazione mondiale, destinata a toccare gli 8 miliardi di individui, si avrà parimenti un aumento di coloro che non hanno accesso all’acqua potabile; questi ultimi, valutabili nella cifra mostruosa di circa tre miliardi, dovranno fare i conti con risorse idriche sempre più modeste per non dire inesistenti, tali da compromettere alla radice qualsiasi prospettiva di sviluppo economico, mentre i cambiamenti climatici legati al dissesto ambientale stanno riducendo drasticamente le precipitazioni piovose ponendo così una pesantissima ipoteca sul futuro dell’intero pianeta.
Occorre sottolineare che i conflitti legati al controllo delle risorse idriche sorgono quasi sempre all’interno di uno stato, contrapponendo ad esempio (è il caso di alcuni paesi del Sud America) i latifondisti, sostenitori dell’agricoltura intensiva, ai piccoli proprietari terrieri, e danneggiando immancabilmente il grosso della popolazione, sia quella che vive nelle campagne che quella concentrata nelle periferie delle grandi città, alle prese con una cronica penuria di acqua e con condizioni di accesso dichiaratamente proibitive, stante l’aumento incontrollato delle tariffe; sotto quest’ultimo aspetto in Bolivia si è giunti in più di una occasione ad una passo da una sollevazione civile causa il paventato aumento dei costi idrici, il che dimostra che anche una cattiva gestione delle acque pubbliche può sfociare in episodi di violenza. Ed è la logica a dirci che eventi del genere, proprio perché legati ad un bene pressoché insostituibile, sono destinati di necessità a moltiplicarsi, interessando milioni di persone e degenerando in situazioni di tensione atte a coinvolgere più stati e che ben si prestano ai peggiori sviluppi.
Già negli anni ’80 i servizi segreti americani ipotizzarono che in almeno dieci stati sarebbero potute scoppiare guerre legate alla gestione delle risorse idriche, nello specifico Giordania, Israele, Cipro, Malta, Arabia Saudita, Algeria, Egitto, Marocco, Tunisia e Yemen, il che conferma come il Medio Oriente sia una delle zone più a rischio anche sotto questo profilo.
Un esempio calzante al riguardo, e sconosciuto ai più, ci è offerto dalla Turchia, da anni alle prese con una situazione di dichiarata conflittualità nei confronti della Siria e dell’Iraq per il controllo del Tigri e dell’Eufrate, problema non da poco e che l’avvento dello Stato Islamico o Isis che dir si voglia rende impossibile da affrontare, anche in termini di semplice approccio; al contempo, gli integralisti islamici potrebbero fare dell’acqua un elemento strategico non indifferente sia come arma di ricatto che per consolidare le loro conquiste ed i progetti di supremazia nell’area mesopotamica, se è vero che la tattica di accaparrarsi l’”oro blu” consente automaticamente di avere in pugno la vita di milioni di individui.
Non sorprenderà allora che il controllo delle risorse idriche, nel caso di specie quelle rappresentate dal fiume Giordano, rappresenta da decenni un ottimo elemento di tensione (il termine è riduttivo) tra israeliani e palestinesi, là dove i primi utilizzano il grosso delle acque del fiume imponendo ai secondi delle restrizioni che non hanno giustificazione alcuna e che limitano drammaticamente la possibilità di coltivare i terreni; in un caso del genere l’acqua costituisce dunque un ottimo elemento non solo per garantirsi la supremazia ma, altresì, per sottomettere il più debole e renderlo politicamente più malleabile.
Nel 1997 una Convenzione delle Nazioni Unite sulla utilizzazione delle acque internazionali ha stabilito con assoluta chiarezza che queste ultime debbano essere condivise in modo equo e razionale ma Israele, per quel che concerne il controllo del Giordano, non sembra curarsene più di tanto, e lo stesso dicasi per India e Bangladesh che dagli inizi degli anni ’90 hanno innescato una guerra non dichiarata per lo sfruttamento delle acque del Gange. Allo stato attuale sono numerosi i documenti di carattere internazionale redatti allo scopo di disciplinare una materia così delicata e di ricondurla nell’alveo del diritto, ma al contempo sono cresciuti in misura esponenziale i conflitti legati più o meno direttamente all’accesso, utilizzo e proprietà delle risorse idriche, forse più di cinquanta, una situazione di non ritorno quest’ultima innescata ed alimentata da governi irresponsabili per i quali il sacrificio di vite umane non conta assolutamente nulla; a peggiorare il quadro d’insieme si aggiunga che quotidianamente sono circa diecimila le persone che muoiono per mancanza di acqua o per l’utilizzo di acque inquinate (situazione questa accentuata anche dalla progressiva avanzata del deserto) mentre un buon 90% delle risorse del pianeta, acqua su tutte, è utilizzato, spesso dilapidato, da poco più del 10% della popolazione mondiale, una situazione paradossale che di per sé costituisce un solido presupposto per ulteriori disastri.
Ne consegue che anche sul fronte delle risorse idriche, uno dei più sensibili in assoluto, si ripropone la classica spaccatura tra una cerchia di privilegiati, concentrata nei paesi industrializzati, ed una massa crescente di disperati, contrapposizione vergognosa di cui non si tiene alcun conto ma che alimenta quotidianamente odio, rancore e violenza.
E’ opportuno sottolineare che, se pure la causa di un conflitto è di tutt’altra natura, la necessità di accaparrarsi le risorse idriche costituisce un ulteriore pretesto per allargare il fronte delle violenze a dismisura, offrendo ai guerrafondai di turno una eccellente motivazione per far valere le proprie ragioni, dunque per uccidere.

Forse aveva ragione Mark Twain, quando sosteneva con ironia che “il whisky è per bere e l’acqua per combattersi”, ed in effetti le tesi di osservatori internazionali ed esperti dell’argomento sembrano confermare in pieno quella riflessione così intrisa di saggezza. Se poi si pensa che più di un capo di stato era ed è convinto di tale assunto, allora c’è di che essere veramente preoccupati; nel 1979 infatti il premier egiziano Sadat, riferendosi all’Etiopia, affermò che “l’unica questione che può portare di nuovo l’Egitto in guerra è l’acqua”e, nello stesso anno, il re Hussein di Giordania si espresse negli stessi termini nei confronti di Israele.
Paradosso dei paradossi, l’acqua da strumento insuperabile di vita si trasforma in mezzo di morte, atto a spargere efferatezze in tutta una serie di aree, Medio Oriente e vaste porzioni dell’Africa in primis, in cui la destabilizzazione socio-politica costituisce da sempre una tragica realtà; nel frattempo nell’assonnato Occidente si fa finta di niente, imprigionati come siamo tra una politica incapace di prendere coscienza di determinati drammi ed una opinione pubblica che per beata ignoranza preferisce comportarsi di conseguenza.

Giuseppe Di Braccio

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