Un disastro da mezzo secolo di interventi

Il disastro provocato in questi giorni al largo del Parco Nazionale Breton (Isole Chandeleurs) rischia di superare addirittura quello del 1989 della Exxon Valdez,  al largo delle coste dell’Alaska. La British  Petroleum ha ammesso nelle scorse ore che dalle falle fuoriescono 5 mila barili al giorno e non mille come precedentemente annunciato. La marea nera […]

Il disastro provocato in questi giorni al largo del Parco Nazionale Breton (Isole Chandeleurs) rischia di superare addirittura quello del 1989 della Exxon Valdez,  al largo delle coste dell’Alaska. La British  Petroleum ha ammesso nelle scorse ore che dalle falle fuoriescono 5 mila barili al giorno e non mille come precedentemente annunciato. La marea nera che ormai si trova a 25 km dal delta del Mississippi rischia di provocare molti danni alla già fragile economia della Louisiana e degli altri stati del Sud tanto che, nella giornata di ieri, gli allevatori di gamberi della Louisiana hanno comunicato l’avvio di una class action. Il presidente Barack Obama ha visitato ieri le località colpite, impegnandosi a “un soccorso senza interruzioni” ma continuando a puntare il dito contro la britannica BP.”Fatemi chiarire: BP è responsabile della perdita. BP pagherà il conto”, ha detto Obama. “Stiamo facendo fronte a un disastro ambientale massiccio e forse senza precedenti”. “Il petrolio che ancora fuoriesce dal pozzo potrebbe danneggiare gravemente l’economia e l’ambiente degli stati del Golfo e potrebbe durare per un lungo periodo. Potrebbe mettere in pericolo il sostentamento di migliaia di americani che hanno qui la loro casa”, ha detto il presidente durante la visita in Louisiana. Ma intanto il NY Times, titola, nell’edizione del 2 maggio: “Il Presidente si è mosso in ritardo” La compagnia anglo-olandese British Petroleum ha fatto sapere, attraverso un suo portavoce, che si sobbarcherà il costo per il disastro causato dall’affondamento della piattaforma Deepwater Horizon. Il gruppo ha annunciato sul proprio sito di aver lanciato la fase volta al contenimento ed alla pulizia dell’area del Golfo del Messico in cui si è verificato l’incidente. Il conto per BP sarà salato. Si parla di 6 milioni di dollari al giorno (tanto sono le spese per la pulizia) a cui dovranno aggiungersi le spese legali e di risarcimento, le multe per aver occultato con false comunicazioni la reale portata della catastrofe e i costi di messa in sicurezza delle piattaforme del gruppo. Per bloccare la fuoriuscita di greggio si sta pensando di scavare un secondo pozzo che intercetti il flusso del primo, ma ci vorranno almeno tre mesi. Fra 6-8 giorni arriva una “cupola” per cercare di bloccare la fuoriuscita di greggio, ma gli esperti si dicono  scettici sulla riuscita. Intanto dalla piattaforma continuano ad uscire 5 mila barili di petrolio al
 giorno (pari a 800 mila litri) ed il disastro preannunciato sarà tale da necessitare di interventi per almeno mezzo secolo. Oltre alle immagini dei primi delfini bloccati e dei primi uccelli imbrattati da quella che è già stata soprannominata “chocolate mousse”, i primi danni riguardano i pescatori, per lo più vietnamiti, dell’area attorno a Venice.  Il governo Usa ha infatti proibito ogni tipo di attivita’ di pesca per almeno 10 giorni nelle acque piu’ colpite dal flusso di petrolio: il divieto imposto dal National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) riguarda l’area compresa tra la foce del fiume Mississippi fino allo spazio di mare dinanzi a Pensacola Bay, al largo della Florida. Dalla Louisiana arriva un terzo della produzione nazionale di ostriche e l’industria ittica nel Golfo del Messico porta circa 2,4 miliardi di dollari alla regione. E il Golfo del Messico, essenziale punto di sosta per gli uccelli migratori, e’ anche vitale per la deposizione delle uova di peschi, gamberetti e granchi. Intanto, secondo il Corriere della Sera, il disastro del pozzo BP rischia di essere il più grave da quello dei pozzi del Kuwait nel ’91, quando l’esercito iracheno in ritirata diede loro fuoco e contemporaneamente rovesciò 8 milioni di barili di greggio dagli oleodotti nel Golfo Persico. Lo dicono gli esperti, richiamandosi allo scoppio di un altro pozzo sottomarino nel ’79, sempre nel Golfo del Messico, quello della Ixtoc, che diffuse nelle acque oltre 2 milioni di barili: la fuoriuscita del greggio incominciò a giugno del ’79 e fu completamente bloccata solo a marzo dell’80. Oggi, i superiori mezzi tecnici dovrebbero ridurre i tempi drasticamente, ma esperti come Mike Miller, della Safety boss canadese, e John Ocevar di Greenpeace parlano di tre mesi: un tempo davvero infinito, poiché, in questo lasso di tempo, gli esperti affermano che la macchia di greggio avrà il tempo di assumere assuma dimensioni gigantesche. Il prof Michael T. Klare docente di   peace and world security studies” nell’ Hampshire College, nel  il suo ultimo libro: “Rising Powers, Shrinking Planet: The New Geopolitics of Energy, ci inviata a riflettere più ampiamente e lucidamente sul fatto che, iibattito attuale che gira  intorno alla< fondamentale questione  se abbiamo già raggiunto il picco di produzione del petrolio o se questo accadrà, a voler essere ottimisti, nel prossimo decennio, si incentra su un indubbio dato stiamo vivendo il passaggio da un’epoca basata sul petrolio considerato come fonte principale di energia ad un’epoca in cui una sempre maggiore quantità di investimenti energetici proverrà da fonti di energia alternative soprattutto da quelle rinnovabili del sole, del vento e delle onde. Allora, allacciatevi le cinture, sarà un viaggio turbolento in condizioni estreme. Sarebbe ideale, questo è ovvio, che il passaggio dal petrolio ai suoi sostituti più clementi in termini ecologici, si producesse lentamente attraverso un macro-sistema, ben coordinato ed interconnesso, di installazioni di energia eolica, solare, mareomotrice, geotermica e di altre fonti rinnovabili. Sfortunatamente è abbastanza improbabile che ciò accada. Quel che più è certo è che prima vivremo un’epoca caratterizzata da un uso eccessivo delle ultime e meno attraenti riserve di petrolio e carbone, così come di idrocarburi “poco convenzionali” ma altamente inquinanti come le sabbie bituminose del Canada o altre alternative fossili decisamente poco allettanti. Con un rischio crescente, anche, di apocalittici disastri ambientali. Inoltre, per molti di noi la vita nell’era dell’eccesso energetico non sarà per niente facile. I prezzi dell’energia aumenteranno, i pericoli ambientali si moltiplicheranno, quantità sempre maggiori di diossido di carbonio si riverseranno nell’atmosfera e il pericolo di possibili conflitti crescerà. Abbiamo solo due opzioni in grado di abbreviare quest’epoca complessa ed attenuarne l’impatto. Sono entrambe assolutamente ovvie, cosa che purtroppo non rende più semplice la loro applicazione: accelerare drasticamente lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e diminuire sensibilmente la nostra dipendenza dai combustibili fossili, riorganizzando le nostre vite e la nostra società in modo da non dover ricorrere necessariamente al loro utilizzo in tutto ciò che facciamo. Per maggiori dettagli si veda:  www.huffingtonpost.com

Carlo Di Stanislao

Una risposta a “Un disastro da mezzo secolo di interventi”

  1. barbara ha detto:

    Carlo, le piattaforme petrolifere oggetto delle istanze di titoli minerari sulla costa abruzzese sorgono al massimo a soli 5 km dalla costa

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