L’Aquila: Amarcord, il dovere della testimonianza

Mi sono chiesta in questi mesi se le mie parole fossero giunte a destinazione: se avessero saputo raccontare davvero quello che ho vissuto e visto, se avessero potuto trasferire un po’ di quella polvere, di quelle urla, di quella paura, di quella desolazione. Ero lontana quando la tv trasmetteva servizi speciali strazianti: la prima settimana […]

Foto: Manuel Romano

Mi sono chiesta in questi mesi se le mie parole fossero giunte a destinazione: se avessero saputo raccontare davvero quello che ho vissuto e visto, se avessero potuto trasferire un po’ di quella polvere, di quelle urla, di quella paura, di quella desolazione. Ero lontana quando la tv trasmetteva servizi speciali strazianti: la prima settimana a Roma e poi a Pescara . Vedevo volti conosciuti ingigantiti, guardavo attonita quegli sfondi che erano stati fino a qualche settimana prima la mia vita. E pensavo : c’è sempre qualcosa di stonato, una voce troppo forte dell’intervistatore, un’affermazione inesatta, una verità incompleta. Raramente ho potuto dire: Sì. è proprio così. Forse questo è il privilegio e la dannazione del testimone, la sensazione di colui che ha vissuto direttamente quell’esperienza e a cui, come dice Primo Levi, mancano le parole perché quelle parole non esistono. Qualche volta possono supplire le immagini. Ho visto fotografie più eloquenti di tante parole. Eh, si forse siamo un po’ troppo sensibili. Ma per noi in quelle case c’erano amici, vita, storie, ricordi, anni, . momenti. Dopo l’abbuffata mediatica durata mesi è piombato un silenzio; s’è alzato un muro di gomma, non c’erano più i volti straziati e rigati di sangue o di dolore, non c’erano più storie strappalacrime da raccontare.

Silenzio.

Anzi, le accuse e il dileggio: “ che vogliono , questi aquilani piagnoni? Gli hanno fatto le case, gli hanno dato i soldi e gli aiuti, che vogliono ancora? “ Per mesi abbiamo cercato di spiegare che solo un terzo degli aquilani sono sistemati nel progetto C.A.S.E, e che i due terzi sono ancora in sistemazioni ancora più provvisorie e lontane; che l’economia della città è in ginocchio, che tutte le attività produttive sono ferme, che viviamo in una città che non c’è. Con fatica con tenacia con compostezza. Eravamo in 20.000 a dirlo pochi giorni il 16 giugno. Avete potuto leggere il bel resoconto di Nando Giammarini su queste stesse pagine, eppure altrove siamo stati quasi ignorati. Oggi le principali testate nazionali televisive e giornalistiche sono all’Aquila, in giro per il macery tour.

Finalmente.

Che facciano vedere.

Anche senza parlare. Sono immagini così evidenti che non hanno nemmeno bisogno del commento sonoro. Bastano da sole. Speriamo che questo muto di gomma si sgretoli, com’è accaduto ai muri delle nostre case. Senza un contributo di solidarietà, senza una tassa di scopo per la ricostruzione non ce la faremo a salvare questa città. Un capoluogo di regione, una città candidata a diventare bene dell’Unesco, che ha il quinto centro storico per estensione ridotta a macerie. Come un anno fa. Portavo un cartello, alla manifestazione del 16 con una semplice domanda: L’Aquila come Pompei?

Patrizia Tocci

Una risposta a “L’Aquila: Amarcord, il dovere della testimonianza”

  1. TerryMoto ha detto:

    Cara Patrizia, CORAGGIO!!! (e so che non ti manca)
    L’Aquila non è, ne mai sarà…Pompei.
    Vedrai ce la faremo anche questa volta.

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