L’Aquila: la catastrofe più strana dal 1461 ricostruita nella storia sismica della faglia di Paganica

“Ci sono cose che il destino si propone ostinatamente. Invano gli attraversano la strada la ragione e la virtù, il dovere e tutto ciò che c’è di più sacro; qualcosa deve accadere, che per lui è giusto, che a noi non sembra giusto; e possiamo comportarci come vogliamo, alla fine è lui che vince”(Johann Wolfgang […]

“Ci sono cose che il destino si propone ostinatamente. Invano gli attraversano la strada la ragione e la virtù, il dovere e tutto ciò che c’è di più sacro; qualcosa deve accadere, che per lui è giusto, che a noi non sembra giusto; e possiamo comportarci come vogliamo, alla fine è lui che vince”(Johann Wolfgang Goethe,“Le affinità elettive”). Le regioni appenniniche sono caratterizzate da un fitto reticolo di faglie con sviluppo dalla scala metrica alla chilometrica. In particolare l’Abruzzo dove si contano almeno 70 faglie normali con potenziali sorgenti sismogenetiche in grado di liberare energie epocali in terremoti ignoti agli stessi antichi popoli italici. A 27 mesi dalla catastrofe aquilana, le osservazioni di terreno e la paleosismologia del territorio abruzzese devastato dal terremoto del 6 aprile 2009 (Mw=6.3; 309 morti; 1600 feriti), sono state effettuate da scienziati e ricercatori dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e delle principali Università di tutto il mondo. Per offrire ai tutti i cittadini, dati scientificamente utili per caratterizzare i principali sistemi di faglie che in Abruzzo, d’ora in avanti, potrebbero “risvegliarsi” come non mai nel recente passato della nostra civiltà. La faglia di Villavallelonga, ad esempio, è lunga 36,4 Km; le faglie di Sulmona e del Morrone, rispettivamente 22,6 e 22,7 Km; la Maiella Ovest, 29 Km; la Maiella Est, 23 Km; la Cartone-Duchessa, 29,5 Km; la Campostosto, 22,5 Km; la Campo Imperatore, 20 Km. E così via.

I rilievi geologici si sono resi necessari per valutare gli effetti del sisma sull’ambiente naturale e tra i più rilevanti ricordiamo: l’accelerazione del suolo, le frane, la caduta massi e gli scoscendimenti in zone alluvionali e pianeggianti. Lavori presentati nei principali congressi (Agu Fall Meeting di San Francisco; Egu Spring Meeting di Vienna) e convegni ufficiali della comunità scientifica internazionale, aperti a tutti i media, pubblicati sulle principali riviste e, quindi, validati dal mondo della scienza che ama la verità oggettiva dei fatti. A L’Aquila molto frequenti sono state le osservazioni di fratture che avevano la caratteristica di essere allineate lungo elementi tettonici pre-esistenti. In particolare lungo la famosa faglia di Paganica. Queste strutture sono considerate dagli scienziati come l’espressione in superficie della deformazione prodotta in profondità dal terremoto. Le più evidenti sono quelle direttamente legate al piano di profondità. In effetti il piano di faglia che ha raggiunto la superficie quel 6 aprile 2009 alle 3:32 antimeridiane, corrisponde perfettamente alle rotture della faglia di Paganica osservate in superficie. “Nei mesi successivi al terremoto – fa notare Daniela Pantosti dell’Ingv – gli studi geologici si sono concentrati alla caratterizzazione e mappatura di dettaglio delle faglie che interessano la zona epicentrale, in particolare la faglia di Paganica. Perché abbiamo visto quanto sia importante la conoscenza delle faglie attive sia per il rischio di fogliazione superficiale sia per offrire un contributo più importante agli studi di pericolosità sismica”. I ricercatori hanno effettuato scavi paleosismologici, alla ricerca dei terremoti del passato, per supportare queste osservazioni. In pratica si cerca di riconoscere geologicamente le evidenze di terremoti storici e più antichi che hanno prodotto, come nel 2009, le rotture di superficie. A L’Aquila la faglia geologica è particolarmente evidente (Cinti et altri, 2009) nelle brecce bianche messe a contatto con depositi olocenici più scuri e più organici di circa 10mila anni fa. “Altre fratture più antiche sono di più difficile individuazione e l’analisi di tutti i depositi e dei rapporti strutturali – rivela la Pantosti – ha permesso di riconoscere ben cinque eventi, compreso il terremoto del 2009”. La datazione con il radiocarbonio e con dei frammenti di ceramica di epoca storica, ha consentito di datare ogni evento sismico. È stata ricostruita la storia sismica della faglia di Paganica, in particolare dei cinque eventi passando per il terremoto del 1461 (“molto probabilmente il precedente”) e per gli “eventi più antichi spaziati nel tempo in maniera regolare nell’ordine dei 500/800 anni”. Due catastrofi sismiche (cf. Mo’ tretteca trench) si collocano prima della nascita di Cristo. Il terzo evento poco prima dell’anno Mille. Questi studi sono molto utili per caratterizzare la pericolosità sismica di L’Aquila, dell’intero Abruzzo, di tutta la fascia appenninica che ancora oggi trema (sciame sismico di Montefeltro, maggio-giugno 2011) e dei territori del Mar Mediterraneo le cui coste sono densamente abitate. I ricercatori ammettono che lo sciame sismico culminato con la principale scossa di terremoto del 6 aprile 2009, sia per molti versi tipico ed esemplificativo dello stile sismico abruzzese. In questa regione centro-appenninica (Emergeo Working Group, 2009), la terra trema così. “Purtroppo i dati sismici (http://earthquake.usgs.gov) indicano che le faglie attive della regione hanno generato nel recente passato e sono in grado di generare in futuro terremoti molto più energetici (fino a Magnitudo 7)”. Lo sostengono in un loro contributo, Livio Vezzani, Francesca Ghisetti e Andrea Festa. “L’attuale stato di conoscenze sull’evoluzione tettonica dell’Appennino in relazione ai processi geodinamici a grande scala suggerisce che la fascia di più intensa sismicità presente ed attuale si collochi in corrispondenza dei settori topograficamente più elevati della catena appenninica, con rottura di faglie normali a penetrazione crostale di 10-15 km. In superficie le principali faglie attive sono distribuite in un complesso reticolo di segmenti di faglia, con importanti variazioni in termini di orientazione, inclinazione, entità dei rigetti e spessore delle associate fasce cataclastiche”. Anche se queste geometrie possono essere descritte dalle carte geologiche di superficie e dalle relative estrapolazioni fino a due-cinque chilometri di profondità “siamo tuttavia ben lontani dalla comprensione ed identificazione delle geometrie di rottura alle profondità di nucleazione ipocentrale degli eventi sismici (10-15 km). La propagazione della rottura in superficie può pertanto attivare – durante successivi eventi –diverse superfici di faglia non necessariamente contigue e disperse in un ampio ventaglio direzionale. Questa situazione è ben evidenziata dalle faglie con documentata attività paleosismica, distribuite in una vasta estensione areale e su un ampio ventaglio direzionale. Questo assetto deformativo indica che, seppure alcuni segmenti di faglia appaiano ripetutamente riattivati nel corso delle fasi estensionali Pleistoceniche ed Oloceniche, non è tuttavia possibile definire una dominante struttura di preferenziale attivazione sismica. Questo contesto deve essere adeguatamente compreso ed affrontato in fase di pianificazione territoriale e per la corretta definizione del rischio sismico”(cf. “Caratterizzazione strutturale dei principali sistemi di faglie dell’Abruzzo Aquilano”, rivista GeoItalia n.28).

Oggi sappiamo molte più cose sulle faglie e sulle sorgenti sismogenetiche (non vanno confuse) rispetto al recente passato, anche qui in Abruzzo. Le faglie rappresentano per lo scienziato che voglia capire davvero la natura del suo territorio, l’oggetto del desiderio protagonista delle sue ricerche sul campo. Senza lo studio diretto e indiretto delle faglie non vi può essere comprensione seria né della geologia del terremoto né della tettonica attiva. Conoscere l’esatta ubicazione delle faglie attive, silenti e magari ancora ignote, è molto più importante che investire soldi pubblici e privati in bombe, missili, sbarchi hollywoodiani e guerre infinite niente affatto intelligenti. Ma è molto più importante conoscere il comportamento delle faglie nel tempo. Sì, ma cos’è esattamente la faglia? “La faglia è la frattura che si genera all’interno della crosta terrestre – spiega Francesca Cinti dell’Ingv – quando gli sforzi indotti dal movimento delle placche ed accumulati dalla roccia, superano il limite di resistenza”. Allora la frattura si propaga rapidamente lungo l’intera lunghezza della faglia, liberando energia sismica e dando origine all’improvviso fenomeno naturale del terremoto. Una faglia più lunga libera una quantità di energia maggiore, cioè più distruttiva.

I blocchi rocciosi divisi dalla frattura registrano un movimento relativo: lo scorrimento tipico delle faglie dell’Appennino è di tipo normale con un blocco che si abbassa rispetto all’altro. “In condizioni di fratture ad alto angolo e ad energie elevate (magnitudo maggiori di 5,5-6) la fagliazione può arrivare fino alla superficie formando degli scalini (scarpate di faglia) che sono l’effetto dello scorrimento di faglie avvenuto in profondità”. Questo fenomeno è noto come fagliazione superficiale. Lo scorrimento profondo può andare da qualche decina di centimetri fino a 20-30 metri per terremoti più grandi. “Possiamo così assimilare una faglia a un piano la cui profondità può variare dai 10 ai 20 Km e una lunghezza di qualche decina di chilometri”. La faglia del terremoto di L’Aquila (magnitudo momento 6.3) era lunga circa 18 Km. Tuttavia questa dimensione già così devastante per quanti hanno vissuto la distruzione della città capoluogo della Regione Abruzzo, è nulla in confronto alle dimensioni ragguardevoli che possono raggiungere faglie come quelle del Pacifico sottoposte a sforzi crostali ben maggiori, di diversi centimetri l’anno (non millimetri come sull’Appennino). Tre queste troviamo la faglia del terremoto giapponese dell’11 marzo 2011 (Mw=9.2, decine di migliaia di morti e feriti causati principalmente dallo spaventoso tsunami con onde alte fino a 39 metri) che ha raggiunto una lunghezza di 400 chilometri (cf. video: www.youtube.com/watch?v=iQfdl7y-blE; www.youtube.com/watch?v=23Q4TBf_FKY&feature=related).

Gli scienziati sanno che i terremoti non sono distribuiti a caso nello spazio e nel tempo, ma si ripetono lungo le faglie. “Ciò fa sì che la deformazione causata – spiega la Cinti – si accumuli nel tempo producendo modificazioni e segni visibili nella topografia e nella geomorfologia del paesaggio”. Sia su scala locale con le scarpate di faglia sia su scala regionale con la formazione di rilievi e valli. Le osservazioni dallo spazio orbitale (Google Earth) sono utilissime perché “si possono chiaramente identificare cicatrici che corrono sui versanti montuosi, tanto nette da poter tracciare una linea. Questo elemento è l’emergenza in superficie di una faglia con estensione chilometrica in direzioni pressoché costanti per lunghi tratti”. Provare per credere, cominciando a sorvolare l’Abruzzo per poi visitare tutti i più recenti disastri sismici del mondo. “Le faglie attraversano indifferentemente qualsiasi tipo di deposito e qualsiasi forma del paesaggio”. Valli, montagne, confini politici e naturali, oceani, ghiacciai, laghi, città e deserti, non sono un ostacolo per qualsiasi frattura geologica profonda. Dislivelli notevoli possono essere l’indizio di più terremoti accumulati nel tempo: maggiore è l’energia rilasciata, ossia maggiore è la magnitudo del terremoto, maggiore sarà il dislivello prodotto in profondità. Quindi di riflesso in superficie il segnale sarà più evidente e devastante. Prima e dopo la tragedia di L’Aquila, altre città sono state (semi)distrutte in America, in Asia e in Oceania dalla furia di terremoti, vulcani e tsunami. È l’inevitabile conseguenza dell’alta antropizzazione della Terra in aree molto pericolose (lungo le coste, a ridosso di faglie e vulcani), ma anche di una scelta politica (non scientifica) che espone a tragedie più terribili nell’immediato futuro. A cataclismi, cioè, che potrebbero abbattersi su una megalopoli causando la morte immediata del primo milione di persone vittime di un singolo evento sismico e/o vulcanico con annesso megatsunami. Tuttavia la scienza, nonostante l’Hiroshima culturale nella quale siamo immersi anche in Italia, ha il dovere di avvertire tutti i responsabili politici, i soli deputati a porre un freno alle conseguenze delle loro scelte illogiche, e di lasciare liberi i mass-media affinché si generi una corretta opinione pubblica in grado di determinare la giusta svolta. Perché l’epoca dei capri espiatori è finita. È giusto che vadano tenute rigorosamente distinte le responsabilità scientifiche, associate alla distribuzione di informazioni e dati attendibili, valutabili ed accessibili, da quelle dei decision makers, squisitamente politiche, associate alla traduzione di osservazioni e interpretazioni scientifiche in azioni di mitigazione del rischio in difesa del territorio e dei cittadini, che competono ad altre istituzioni.

L’indagine paleosismologica con l’esecuzione di scavi e trincee attraverso le scarpate, già consente di riconoscere i terremoti più antichi e di ricostruire l’attività delle faglie e i ripetuti scorrimenti.

“Il riconoscimento delle registrazioni geologiche dei terremoti del passato – spiega la scienziata –viene effettuato dai ricercatori attraverso lo studio in dettaglio della stratigrafia delle strutture de formative esposte sulle pareti degli scavi. Si possono così misurare le dislocazioni dei terremoti passati e vincolarne l’età di occorrenza. Con la paleosismologia si valutano le importanti caratteristiche della faglia e del suo comportamento: la dimensione della rottura, la magnitudo attesa e il tempo di ricorrenza che è un dato importante in quanto fornisce un riferimento per la stima del potenziale sismogenetico di una faglia”. Nessuna profezia, nessun incantesimo, nessuna sfera di cristallo, nessuna favola, nessuna preveggenza. Per la scienza il tempo di ricorrenza tipico di una faglia è la media tra i tempi intercorsi tra terremoti successivi. Per semplificare al massimo, “quanto più è vicino il tempo di ricorrenza al tempo trascorso dall’ultimo terremoto su quella faglia, tanto più questa è pronta a produrre un nuovo terremoto, aumentando la sua pericolosità”. I cinque terremoti storici riconosciuti sulla faglia dell’Irpinia prima dell’evento del 1980, aiutano a capire cosa bolle in pentola! Sulla base della ricostruzione (Ingv) della scansione temporale (l’evento immediatamente precedente si verificò prima della nascita di Cristo) “il tempo di ricorrenza media del terremoto dell’Irpinia su quella faglia è di duemila anni”. Quindi è fondamentale conoscere esattamente l’ubicazione delle faglie poiché “sulla base di questi studi si elaborano le mappe di pericolosità sismica del territorio nazionale italiano”. I terremoti e le tragedie del passato aiutano non solo a capire che cosa potrebbe accadere in futuro ma anche cosa bisogna fare subito.

“Le osservazioni geologiche e le modalità di propagazione delle onde sismiche, consentono di ottenere i valori attesi di scuotimento del terreno in un dato luogo a causa di un probabile terremoto”. Questo dice la scienza che indirettamente mette in guardia chi di dovere sulla pericolosità della fagliazione superficiale. L’esatta emergenza di una faglia e la stima massima del movimento atteso, sono dati da conoscere non solo in fase di progettazione abitativa, ma anche nella pianificazione e progettazione di infrastrutture strategiche, critiche e di servizio (dighe, centrali elettriche, nucleari, condotte del gas, acquedotti). È significativo e inaudito che in Italia un acquedotto, nonostante i rapporti e le relazioni scientifiche pubbliche, attraversi apparentemente indisturbato una scarpata di faglia (mentre in Alaska, un oleodotto “corazzato”, a prova di magnitudo 7.5, è ancora in piedi) pronta ad attivarsi durante un evento sismico per smontarlo in mille pezzi come una costruzione della Lego. “Condotta interrotta in quanto sottoposta alle forti tensioni del terremoto di L’Aquila”. L’analisi successiva (Cinti et altri, JGR 2011) avrebbe “evidenziato in situ la presenza di una deformazione ampia con numerose faglie”.

I nostri scienziati ogni giorno si impegnano e dedicano la maggior parte del loro tempo e delle loro risorse nello sviluppo di metodologie scientifiche all’avanguardia, mettendo a disposizione della comunità scientifica e della popolazione tutti i dati prodotti che costituiscono un patrimonio per l’intera comunità delle Scienze della Terra, contribuendo in modo determinante alla valutazione della pericolosità sismica e vulcanica in Italia e nel mondo. Chi di dovere, deve ascoltarli per agire in tempo utile prima delle catastrofi.

Nicola Facciolini

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