Terremoti eruzioni vulcaniche e tsunami in Italia e nel Mondo potrebbero causare milioni di morti

Il nuovo Presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia è il sismologo Domenico Giardini, fresco di nomina, che si insedierà ufficialmente il 15 settembre 2011. Nato il 19 marzo 1958 e cresciuto a Bologna dove si è laureato in fisica teorica nel 1987, Giardini dal 1982 al 1986 è stato membro del gruppo scientifico al […]

Il nuovo Presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia è il sismologo Domenico Giardini, fresco di nomina, che si insedierà ufficialmente il 15 settembre 2011. Nato il 19 marzo 1958 e cresciuto a Bologna dove si è laureato in fisica teorica nel 1987, Giardini dal 1982 al 1986 è stato membro del gruppo scientifico al Dipartimento di Scienze Geologiche dell’Università di Harvard; dal 1987 al 1992 ricercatore senior all’Istituto Nazionale di Geofisica a Roma e professore associato di Sismologia all’Università Roma Tre. Dal 1997 è professore di Sismologia e Geodinamica al Politecnico Federale di Zurigo oltre che direttore del Servizio Sismologico svizzero. Esperto di terremoti profondi, di oscillazioni libere della terra e della dinamica del mantello, Giardini si è occupato anche dell’allestimento e digitalizzazione di una rete sismografica a larga banda in ambito mediterraneo. Oggi è uno dei maggiori esperti di stime di pericolosità e di rischio. Dal 1992 coordina programmi di valutazione sismica globale per la riduzione dei disastri naturali (IDNDR). In questo ambito ha coordinato programmi di ricerca per l’Unione Europea, l’Unesco e la NATO. È attualmente direttore del Centro di Competenza dell’ambiente e della sostenibilità del Politecnico di Zurigo, responsabile della Federazione Globale delle Reti Sismiche Digitali e rappresenta la Svizzera nella Commissione sismologica internazionale. Allievo del professor Enzo Boschi, Giardini è impegnato in un grande progetto per l’OCSE, l’organizzazione per la cooperazione allo sviluppo. Oltre alla valutazione del rischio e della pericolosità sismica su scala mondiale, il progetto valuta anche i danni che le scosse potrebbero fare. Questi modelli vengono poi trasmessi agli organismi internazionali perché possano attuare delle politiche di prevenzione adeguate nei Paesi in via di sviluppo. Lo attende una missione “storica” per la ricerca sismologica italiana nel mondo e per la sua capillare “trasfigurazione” in norme efficaci.

A 30 mesi dal catastrofico terremoto di L’Aquila del 6 aprile 2009 (ore 3:32 AM; Mw=6.3; 309 morti; 1600 feriti) l’unica lezione impartita da quel drammatico evento, infatti, non sembra concentrata sulle politiche di prevenzione e mitigazione degli effetti delle catastrofi naturali come avviene in tutti i Paesi civili del mondo: Nuova Zelanda, Giappone e California. Bensì sull’incredibile discussione polemica della previsione a breve termine grazie ai famosi fenomeni precursori. Senza contare le scene mai filmate di politici ed amministratori locali che si arrovellano il cervello nell’interpretazione dei dati probabilistici (centesimali se non millesimali) acquisiti, per cercare di capire il “dove” e il “quando” colpirà il prossimo evento catastrofico sismico, magari con annesso tsunami. Politico più che naturale in Italia. Panacea di tutti i mali per le evacuazioni di massa è naturalmente la previsione dei terremoti. Tema affascinante, stimolante e interessante ma che tutta la comunità scientifica internazionale ritiene ancora lungi da una soluzione positiva anche parziale. “I terremoti non si possono prevedere”, è la verità della Scienza in un documento inequivocabile firmato da migliaia di ricercatori e scienziati (www.mi.ingv.it/open_letter/) scesi in campo da 100 Paesi di cinque continenti (www.mi.ingv.it/open_letter/archive.php) per far capire alle persone come stanno davvero le cose. La Natura consiglia di non prendere lucciole per lanterne. Queste firme dimostrano come la comunità scientifica internazionale, da sempre impegnata al servizio della società per l’identificazione e la riduzione dei rischi naturali, sia unita nell’affermare l’impossibilità di prevedere un terremoto nel breve termine in Italia come in ogni altra parte del mondo. L’appello è stato appoggiato dalla Società Sismologica Americana, da quella Canadese e dal Centro Sismologico Euro-Mediterraneo (www.emsc-csem.org/Doc/Laquila_indictment_EMSC_Support.pdf). L’elevata qualità e produttività degli scienziati italiani è dimostrata dal fatto che le nostre Università (con l’Ingv, la terza istituzione mondiale nel campo delle geoscienze, sia per numero di pubblicazioni sia per numero di citazioni) producono buona scienza. Queste graduatorie sono consultabili da chiunque, a testimonianza della solida reputazione scientifica internazionale di cui godono i nostri ricercatori. L’Ingv rappresenta nei fatti una realtà di assoluta eccellenza nel campo della ricerca pubblica italiana. Primato che è, a sua volta, frutto di una rigida selezione del personale di ricerca. Se l’opinione pubblica è davvero spaccata sulla “previsione” dei terremoti (da non confondere con la Previsione delle eruzioni vulcaniche), se in questo Bel Paese non si entra più nel merito delle questioni, ma ci si schiera come tifosi o talvolta come “hooligans” contro le persone, contro gli scienziati, favorendo il caos più totale senza risolvere i problemi sociali, politici e strutturali della Nazione in fatto di abitazioni a prova di terremoto, di evento vulcanico, idrogeologico, chi di dovere si assuma le proprie responsabilità (o si dimetta) prima della prossima catastrofe. Oggi, di fronte alla disinformazione scientifica, è proprio il caso di lanciare il classico avviso ai naviganti: non abbiate paura della Natura che si manifesta nei terremoti, negli sciami sismici, nei vulcani (www.emsc-csem.org) e negli tsunami. Abbiate paura piuttosto dei politicanti e dei capi-bastone che, per timore di finire al fresco, magari in assenza di leggi idonee, non fanno il proprio dovere etico e politico al servizio dei cittadini: cioè, mettere in sicurezza le nostre case e città dagli eventi distruttivi del futuro. Come? Si cominci con l’ingabbiare gli edifici con il filo d’acciaio per evitare che muri, cornicioni e coppi pericolanti finiscano sulle teste delle persone durante il terremoto; si mettano in sicurezza le nostre coste, prima degli tsunami; si costruiscano autostrade, ponti e gallerie di sicurezza come via di fuga dalle grandi città, prima delle grandi eruzioni vulcaniche e degli impatti cosmici multipli di asteroidi e comete, le sole catastrofi prevedibili. Invece di spendere miliardi e miliardi di euro in armi stupide e in guerre “umanitarie” senza senso. Il mondo trema, i vulcani esplodono, il cigno nero del totalmente inatteso ci assedia e non possiamo farci nulla? Non è corretto.

In memoria delle vittime del sisma (Mw= 9.2, decine di migliaia di morti dal megatsunami e dal crollo di una diga) nipponico dell’11 marzo 2011, crediamo che sia massimo dovere etico di un giornalista permettere all’opinione pubblica di formarsi la propria opinione sul lavoro degli scienziati, fornendo innanzitutto i fatti-atti scientifici come realmente accadono nel nostro Mondo non più al centro dell’Universo. I tempi della scienza non coincidono con quelli della politica. A volte non sappiamo veramente cosa sia questa “realtà”. Tutto sembra vero, relativo e opinabile. Da un certo punto di vista. Tutto sembra cioè possibile e praticabile per accontentare chi protesta. Magari anche introdurre lo stato di allerta permanente (da non confondere con lo stato d’allarme che nessuno può dichiarare senza il conforto della Legge!) in un’Italia dove si vive praticamente di emergenza senza risolvere un bel nulla. Un’insegnante di scienze era solita introdurre le lezioni con la storiella della rana: se prendete una povera rana e la mettete in una pentola a bollire a fuoco lento, scoprirete che non se ne accorgerà e morirà. Ben altro comportamento manifesterà, se immersa direttamente nell’acqua bollente. Perché, non essendosi adattata all’aumento graduale della temperatura, salterà via! Noi Italiani, corriamo il rischio di condividere l’amara sorte della prima rana perché viviamo in un Paese ad altissimo rischio sismico, vulcanico e idro-geologico. Tuttavia non ne siamo davvero consapevoli e coscienti perché i media glissano il problema per questioni di audience e di raccolta pubblicitaria. Le iniezioni a dosi industriali di buona e corretta divulgazione scientifica, servono a poco. Il paziente è già grave! Inoltre certa politica “del tirare a campare”, restia all’assunzione diretta di responsabilità (magari da imputare al povero scienziato di turno) continua imperturbabile a fare orecchie da mercante, preferendo la demagogia all’azione, ossia all’adozione di progetti scientifici e tecnologici strategici pluriennali per la nostra stessa sopravvivenza. In un Paese civile occidentale del XXI Secolo come l’Italia, gli scienziati e i giovani ricercatori, pubblici e privati, non dovrebbero essere costretti ad esercitare il sacrosanto diritto di sciopero. E passiamo ai fatti. Che il guscio più esterno della Terra (litosfera) sia frammentato in placche o zolle e che queste si muovano reciprocamente alla velocità di millimetri (in Italia) o centimetri l’anno (Nuova Zelanda, Arco del fuoco, Cile, Africa, etc.) allontanandosi o scontrandosi, è ormai noto anche ai bambini della scuola dell’Infanzia.

I geofisici, oltre a misurare i moti relativi fra le placche, si stanno dedicando allo studio dei loro moti assoluti rispetto ad alcuni punti di riferimento all’interno della Terra (il mantello, l’asse di rotazione). A questo tipo di ricerche si sta dedicando con successo un gruppo di ricercatori italiani che ha recentemente pubblicato i risultati dei propri studi sulla rivista scientifica internazionale Tectonophysics. L’indagine si è avvalsa anche delle tecniche più avanzate di geodesia spaziale. Da annoverare la conferma che esiste un moto di deriva complessivo delle placche litosferiche verso Ovest, rispetto al sottostante mantello, e la certezza che i processi convettivi non sono sufficienti a spiegare da soli la cinematica delle placche (fonte Ingv). Insomma si deve anche prendere in considerazione l’energia trasferita alla litosfera dalla rotazione terrestre e dalle maree lunari-solari. Sono in corso esperimenti di sismica passiva, cioè registrazione della sismicità mediante installazione di reti temporanee di stazioni sismometriche digitali che consentono di migliorare notevolmente le localizzazioni ipocentrali. Dai risultati ottenuti si osserva come “la sismicità di fondo tenda a concentrarsi lungo l’asse principale della catena appenninica”(Ingv).

Che dire della sismicità localizzata in zone di mare aperto? La scarsità di stazioni sismiche non consente, al momento, di definire con buona precisione le profondità ipocentrali degli eventi. Ma è ritenuto probabile che parte della microsismicità tenda a concentrarsi nelle zone che definiscono i margini delle grandi strutture sismogenetiche della catena appenninica.

I terremoti profondi, che avvengono cioè al di sotto della crosta terrestre (Chiarabba et altri), sono spiegati dalla tettonica a placche. “In Italia meridionale, in particolare nel bacino del Tirreno – fa notare la dott.ssa Lucia Margheriti dell’Ingv – si verificano spesse volte una serie di terremoti a profondità ipocentrali molto alte, dai 100 Km fino ai 500 Km”. Gli eventi si concentrano lungo l’Arco calabro e nella Sicilia settentrionale. Questi terremoti non si verificano in altre zone d’Italia. “In alcuni casi – spiega la ricercatrice – questi sismi profondi hanno anche magnitudo rilevante: negli ultimi cinque anni ce ne sono stati alcuni, due di magnitudo superiore a 5. Nel 1938 ce n’è stato uno di magnitudo 7.1”. Tra i più forti mai registrati nella zona del mar Tirreno calabro.

Gli scienziati amano “affettare” la superficie terrestre in corrispondenza di linee particolari, per capire come si distribuiscono gli ipocentri in profondità. All’Ingv sono stati verificati alcuni dati interessanti. “La densità di tali terremoti si delinea in un volume sismogenetico nel quale gli ipocentri non risultano sparpagliati ma si addensano formando una linea che viene chiamata Piano di Wadati-Benioff”. I sismologi che per primi, l’uno indipendentemente dall’altro, capirono questa distribuzione dei terremoti in profondità: nel 1935 Kiyoo Wadati dell’Agenzia Meteorologica Giapponese e nel 1949 Hugo Benioff del California Institute of Technology. A quel tempo la Teoria della tettonica a placche non era ancora accettata. “Se osserviamo la sismicità su scala planetaria, si nota che i terremoti non si distribuiscono su tutta la superficie terrestre, ma solo in alcune zone, i margini delle placche litosferiche interessando i primi 100 Km all’interno della Terra”. I terremoti profondi si distribuiscono soltanto in alcuni di questi margini di placca litosferica: in particolare si verificano nelle zone intorno alla placca del Pacifico laddove questa si scontra con le placche circostanti. La Teoria della tettonica a placche spiega come la litosfera si muove e si deforma. “Quando due placche si avvicinano l’una all’altra, una delle due (in genere quella oceanica) si inflette e va sotto quella continentale formando una zona di subduzione (margine convergente) dove si verificano terremoti superficiali e profondi. Quando due placche, invece, si allontanano (margine divergente) allora lasciano spazio in particolare alla parte astenosferica del mantello per risalire”. E si formano delle zone di fratturazione, se ci troviamo nella parte continentale, che diventano molto accentuate sulle dorsali oceaniche laddove l’apertura tra le placche è molto forte. Un’immagine in sezione della subduzione al di sotto del Tirreno, è esemplificativa della situazione sismica che stiamo vivendo anche in Italia. Sotto la Calabria, l’Arco delle Eolie, il monte Marsili, il mar Tirreno e il mar Ionio, da milioni di anni sta accadendo naturalmente qualcosa di scientificamente misurabile. Gli scienziati sanno che la placca ionica si inflette sotto la Calabria e scende verso Nord-Ovest al di sotto del bacino tirrenico. “La subduzione non è solo evidenziata dai terremoti profondi che nell’immagine sono rappresentati nei pallini gialli, ma anche da una zona blu molto estesa che rappresenta un’anomalia di velocità”. L’immagine (Montuori et altri) è stata ottenuta con l’utilizzo di onde sismiche che attraversano il mantello e la crosta della zona. E consente ai ricercatori di ricostruire, con la tecnica della tomografia sismica, un modello di velocità della terra profonda. Le misure di Gps indicano come la superficie terrestre si muove rispetto a determinati punti di riferimento. “I dati Gps – rivela Lucia Margheriti – indicano come la Calabria si muova di 3-5 millimetri l’anno rispetto all’Africa”. Ossia rispetto alla Sicilia settentrionale che invece mostra un movimento di 4 millimetri l’anno (Serpelloni et altri 2010). Quindi “al di sotto della Calabria esiste una vera zona di subduzione che un tempo era molto più grande e correva lungo tutta la catena appenninica”. La subduzione è responsabile della formazione delle montagne degli Appennini. Nel corso del tempo, a causa della successione di strappi nella litosfera, le cose sono cambiate ed oggi “la subduzione è limitata a 200 Km al di sotto la Calabria. Ed è proprio in questa zona ristretta dove la litosfera sprofonda, che si verificano i terremoti profondi”.

Il terremoto che ha devastato L’Aquila segna sicuramente uno spartiacque sociale, culturale, politico e giuridico tra il passato e il futuro nella conoscenza della previsione e della prevenzione del rischio sismico in Italia e nel mondo. La “road map” era stata già tracciata a sei mesi esatti dal disastroso sisma di L’Aquila. Ora spetta ai politici, agli amministratori locali fare la loro parte: ognuno si assuma le proprie responsabilità. Bisogna anche considerare il reale significato di previsione sismica. La scienza dice che esistono vere previsioni di un terremoto (probabilistic seismic hazard analysis). La probabilità sismica funziona, meglio di qualsiasi fittizia certezza uranifera, nel senso che la previsione probabilistica (quake forecasting) dei terremoti è non solo possibile ma anche utilizzabile ai fini della prevenzione del rischio sismico in Italia. Lo è oggi, a maggior ragione, grazie alle tredici linee-guida offerte al Popolo italiano ed al Mondo dagli scienziati della International Commission on Earthquake Forecasting for Civil Protection (costituita il 12 maggio 2009) riunita a L’Aquila. La previsione probabilistica “illumina” letteralmente le aree che saranno colpite da un sisma, dispiegando tutta la sua efficacia nel range matematico tra uno e zero. Si è capito che bisogna interfacciare armonicamente i dati di probabilità sismica acquisiti da vari Istituti di ricerca in Italia e nel mondo, pubblici e privati. Anche gli studi sulle predizioni deterministiche vanno potenziati e servono chiari protocolli d’intervento per la Protezione civile, da realizzare in tre fasi insieme ai social scientists, per favorire una sana e utile informazione alla popolazione. È quanto emerge dal quarto Summit G10 del gruppo indipendente di sismologi, chiamato da tutto il mondo a studiare in Abruzzo il terremoto di L’Aquila. L’incontro si svolse al Centro operativo di Coppito (Aq) dal 30 settembre al 2 ottobre 2009. La Commissione è composta da dieci scienziati, specializzati in sismologia e geofisica, ai vertici delle università e centri di ricerca più importanti del mondo: Tom Jordan, presidente del gruppo di lavoro, direttore del Southern California Earthquake Center (SCEC) e professore di Earth Sciences alla University of Southern California a Los Angeles, Yun Tai Chen, professore di geofisica e direttore onorario dell’Istituto di Geofisica della China Earthquake Administration, Paolo Gasparini dell’Università Federico II di Napoli, Raoul Madariaga della Scuola Normale Superiore di Parigi, Ian Main dell’Università di Edinburgo, Warner Marzocchi, dirigente di ricerca dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), Gerassimos Papadopoulos dell’Osservatorio Nazionale di Atene, Guennadi A. Sobolev, direttore del Dipartimento di Catastrofi Naturali e Sismicità della Terra dell’Accademia Russa delle Scienze a Mosca, Jochen Zschau dell’Università di Potsdam e Koshun Yamaoka della Nagoya University (Giappone). Gli esperti hanno redatto un Report ufficiale inequivocabile: la previsione probabilistica con relativo errore, è la via maestra per prevedere i terremoti; le sequenze sismiche possono accelerare la sismicità ma al momento la comunità scientifica internazionale non è in grado di distinguere le “scosse di preavviso”. Inoltre la previsione a breve-termine permette di identificare le aree dove più probabilmente avverranno gli “aftershock” (repliche) più forti, e con che probabilità si manifesteranno. L’Ingv sta fornendo ogni giorno stime di questo tipo alla Protezione civile: è la prima volta al mondo che ciò viene fatto durante le crisi sismiche. Tredici sono le “raccomandazioni” degli scienziati, tra cui quelle indirizzate al Dipartimento della Protezione Civile (DPC) che, tra l’altro, è chiamata a: continuare a seguire l’evoluzione scientifica delle previsioni sismiche probabilistiche, per sviluppare le infrastrutture e le competenze necessarie a creare dalle informazioni scientifiche, chiari protocolli operativi; coordinare il flusso di dati provenienti da rilevanti Istituti di ricerca italiani, per migliorare la risoluzione delle previsioni probabilistiche; offrire particolare attenzione all’analisi dei dati in tempo reale, alla creazione di cataloghi e mappe sismiche di alta qualità; a favorire la ricerca sui terremoti nei “laboratori naturali” italiani. La ricerca di base deve essere focalizzata alla comprensione scientifica dei fenomeni sismici ed alla loro previsione che deve essere chiaramente parte di un Programma Nazionale di Ricerche. La scienza è libera (secondo la Costituzione italiana, chiunque può offrire il proprio contributo) ma poi i dati e le scoperte vanno dimostrati alla comunità scientifica internazionale. La Protezione civile ascolterà l’unica voce della scienza ufficiale.

Il Summit G10 di sismologia di L’Aquila intende fornire periodicamente lo stato attuale delle conoscenze sulla prevedibilità dei terremoti e indicare delle linee-guida per poter utilizzare al meglio le osservazioni scientifiche sui fenomeni sismici. I progetti vanno interfacciati senza scadenze di “target”: i ricercatori hanno un catalogo sismico di oltre 40 anni da inserire ed elaborare nei computer. Fare previsioni a lungo termine sul verificarsi dei terremoti, non necessariamente dopo uno sciame sismico come quello precedente all’evento del 6 aprile 2009, è una valida realtà scientifica immediatamente utilizzabile ai fini della prevenzione del rischio sismico. I veri Politici, quindi, possono e devono agire in tempo utile. Oggi non servono ulteriori certezze matematiche probabilistiche e/o deterministiche per salvare vite umane, ossia per costruire finalmente edifici solidi a misura di Homo Sapiens Sapiens, in un ambiente a fortissima sismicità come l’Italia. Non esistono metodi per prevedere terremoti a brevissimo termine: nessuno è in grado, prima di un evento sismico, di specificare il luogo, il momento e l’intensità del terremoto con un cerchio di errore apprezzabile, cioè utile per allarmi e pre-allarmi selettivi. Lo dice la scienza ufficiale. A che servirebbe se poi non siamo in grado di salvare vite umane con la prevenzione? Uscire fuori di casa al momento giusto, per beccarsi un cornicione o una tegola in testa, non è una buona idea; come impraticabile risulterebbe la prospettiva di “trasferire” milioni di cittadini in campagna o al mare, al primo pre-allarme! È questo il cuore del risultato dello studio condotto dalla Commissione di dieci esperti internazionali, chiamati per la quarta volta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dall’allora capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, a fare il punto sulla sismicità abruzzese. Viviamo in una realtà quantistica, mi si consenta l’espressione, fondata sul principio di indeterminazione di Heisenberg. Non possiamo, cioè, conoscere tutto con certezza assoluta, cioè senza errori. Ma conosciamo lo status del nostro territorio. La logica matematica non è un’opinione e la Natura vincerà sempre! Ma possiamo sempre anticiparla. La semantica è altrettanto importante: “forecasting” e “predictions”, sono termini in lingua inglese, che non vanno confusi. La società civile sia consapevole del fatto che solo un’accurata conoscenza diffusa delle questioni probabilistiche (eppure le scommesse legali sono molto in voga, si gioca pur sapendo di perdere!) in sismologia, è la chiave essenziale per salvare vite umane, a cominciare dalla nostra. Meglio la probabilità o il cieco determinismo? Una questione delicatissima la cui natura non è affatto di lana caprina o, se preferite, sibillina come l’uovo di Colombo. Non sarà mai possibile fare previsioni sui terremoti a breve termine, azzeccando contemporaneamente energia liberata, ipocentro, epicentro, data e ora. Il G10 di sismologia ha effettuato un monitoraggio dei fattori precursori e non è stato possibile arrivare ad una diagnosi certa su quando, come e dove un terremoto si verificherà un evento. È stata fatta chiarezza sui fattori precursori, cioè su tutti quegli eventi fisici che possono (non necessariamente) precedere un sisma. Il susseguirsi di scosse, la presenza di gas come il radon e il thorio nei minerali uraniferi, i mutamenti nei campi elettromagnetici, i fenomeni acustici e visivi. Gli scienziati ritengono che le previsioni a lungo termine siano oggi le più affidabili. Il G10 aquilano ha inviato alla Protezione civile, un’importante raccomandazione: è necessario creare una struttura di esperti che possa eseguire un’analisi dei modelli previsionali, in modo da fornire sempre nuovi e completi elementi alle Istituzioni ed alla società civile. Nulla deve essere segreto. La previsione a lungo termine consente di avere informazioni sul luogo, sulla magnitudo e sulla frequenza di un sisma. Indispensabile è una mappatura ad alta risoluzione sia del territorio sia degli edifici per renderli tutti antisismici, informando tempestivamente la popolazione sul da farsi. L’attività sismica della Terra non sarebbe in aumento. Le ricerche relative ai precursori sismici non hanno avuto esiti rilevanti: il G10 ha studiato i precursori sismici che però non hanno consentito previsioni a breve termine, ossia non hanno aggiunto nulla al quadro delle attuali conoscenze. La ricerca sui precursori deve però proseguire. Lo studio delle previsioni probabilistiche negli ultimi dieci anni ha fatto passi da gigante in Italia, come rivelano le analisi delle sequenze sismiche effettuate da centinaia di ricercatori dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, rappresentati nel G10 dal professor Warner Marzocchi. Il quale ricorda che “il fenomeno dello sciame sismico viene studiato attraverso modelli matematici ETAS fondati sul fatto che ogni terremoto può generare altri terremoti seguendo regole predeterminate. Tale capacità, che è funzione della magnitudo, decade nello spazio e nel tempo con leggi di potenza simili al decadimento spaziale co-sismico e alla legge temporale di Omori”. Gli esperti del G10 hanno registrato che i terremoti tendono a raggrupparsi: la presenza di repliche aumenta la probabilità di nuove scosse, ma i terremoti riscontrati a L’Aquila nei mesi successivi, “rientrano nella normalità”. Le sequenze sismiche possono accelerare la sismicità ma la comunità scientifica non è in grado di distinguere la scossa preliminare, che può storicamente in genere precedere sugli Appennini un evento di grande intensità, dalla normale attività sismica.

Gli sciami sono frequenti ma non sono sempre legati a terremoti forti e gli eventuali aumenti di probabilità sono comunque molto limitati.

“I terremoti – fa notare Marzocchi – tendono a clusterizzare, a raggrupparsi: le probabilità però sono spalmate nel tempo, non si possono fare stime per il singolo giorno. Posso dire che c’è una probabilità del 25% che in Abruzzo si verifichi una scossa di magnitudo pari o superiore a 5 nei prossimi dieci anni. Se parliamo del prossimo mese la probabilità scende all’uno per cento, massimo al due per cento”. Per quanto concerne gli eventuali legami del terremoto del 6 aprile con terremoti del recente passato, gli esperti del G10 lo escludono. Vibrante è la raccomandazione dei dieci scienziati affinché le previsioni probabilistiche siano rese tempestivamente pubbliche, chiare, leggibili e comprensibili perché la gente deve conoscere il rischio sismico. Per far questo è auspicabile l’affermazione di un Protocollo deontologico anche tra i giornalisti, “per evitare la diffusione di voci di corridoio e allarmismi ingiustificati”. Il G10 è la voce della scienza ufficiale, la fonte primaria che informa la Protezione civile nazionale a cui è demandata la funzione di informare la popolazione sulla situazione contingente avvalendosi degli strumenti della ricerca. Il professor Warner Marzocchi è da sempre convinto assertore “di un’informazione completa anche se ciò alcune volte significa ammettere incertezza. È importante chiarire alla gente come stanno le cose”. Il G10 ha evidenziato altresì la necessità di un pubblico Bollettino del Rischio Sismico, giuridicamente vincolante anche per il Legislatore e la Pubblica Amministrazione, che periodicamente gli scienziati della Commissione mettono a disposizione della Protezione civile italiana. Insomma “non stiamo partendo in braghe di tela e non dobbiamo imparare da nessuno – fa notare il geologo Antonio Moretti dell’Università di L’Aquila – c’è solo bisogno della volontà politica di trasformare le conoscenze scientifiche in applicazioni pratiche. Ricordo a questo proposito che il finanziamento medio della ricerca geologica-sismologica in Italia è stato di qualche miliardo di lira all’anno (il valore di un paio di appartamenti in centro a Roma) contro i 60.000 miliardi di danni del terremoto dell’Irpinia”. Gli scienziati vanno ascoltati. Non ci sono più scuse di carattere politico, culturale e finanziario: le Grandi Opere in cantiere devono contemplare la totale messa in sicurezza delle nostre città, dei nostri paesi e dei nostri villaggi.

I cittadini possono contare su una rete di monitoraggio del territorio senza precedenti nella storia del nostro Paese grazie a scienziati e istituzioni di primissimo livello internazionale. I politici e gli amministratori pubblici, da parte loro, farebbero bene ad aggiornarsi, per evitare tragedie, magre figure e inevitabili fallimenti, approntando protocolli d’intervento adeguati. Altrimenti ci si dimetta prima delle catastrofi!

La comunità scientifica italiana, da parte sua, ha il dovere di avvicinare il grande pubblico alla conoscenza diffusa dei fenomeni naturali, con competenza, dedizione e comprensibilità. L’Abruzzo e le aree limitrofe (il “tetto” della dorsale appenninica) affondando le loro “radici” in una pericolosissima naturale “polveriera”. Viviamo su un’autentica santabarbara geologica, pronta a liberare, sotto i nostri piedi, energie dell’ordine delle decine di megatoni, ossia di migliaia di Hiroshima. Il radon è da molti anni considerato uno dei più promettenti fenomeni precursori a breve termine di un terremoto. È un gas radioattivo: si genera dai minerali thorio-uraniferi di cui sono molto spesso ricche le rocce vulcaniche, sia in profondità sia in superficie. Gli scienziati sanno che in presenza di una faglia attiva, ossia di una frattura in movimento che si propaga dalla crosta profonda, ricca di rocce magmatiche, fino in superficie, il radon può sfuggire ed essere facilmente misurato con strumenti appositi. “Poiché la sua vita è molto breve (pochi giorni) – spiega il ricercatore Antonio Moretti – la risalita deve essere molto veloce, tanto più intensa e veloce quanto maggiore è lo stato di stress della faglia”. In occasione di grandi terremoti, è stato più volte verificato l’aumento di emissione di radon (fino a 10 volte) lungo le faglie attive, con un tempo di latenza (giorni-mesi-anni) tanto maggiore quanto più grande sarà l’evento sismico. “Il problema è che anche molte rocce di superficie sono ricche di thorio ed uranio (è il caso di quasi tutti i suoli vulcanici laziali ed abruzzesi), quindi occorre prima individuare le faglie ed i siti idonei per il monitoraggio, essere certi dell’origine profonda dei fluidi, e quindi posizionare le centraline di rilevamento, meglio se in pozzo”. Spesso sono molto ricche di radon anche le sorgenti termali. “Misurare il radon casualmente con strumentazioni di fantasia – fa notare Moretti – come è stato fatto da certi personaggi che sono convinti di essere scienziati senza avere nessun titolo, è non solo inutile, ma anche offensivo per quanti, come noi, stanno lavorando da decenni sull’argomento”. Il geologo Antonio Moretti del Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università di L’Aquila, conosce molto bene il nostro territorio e la sismicità dell’Abruzzo. “Sono un ricercatore dell’Università e – fa notare Moretti – prima sono stato per molti anni ricercatore a contratto del Gruppo Nazionale Difesa dai Terremoti; collaboro anche con l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Roma. Non stiamo scoprendo niente di nuovo, le conoscenze che abbiamo sono il frutto del lavoro di centinaia di ricercatori per decine di anni. L’Italia possiede, assieme alla Cina, il catalogo sismico più lungo e completo del mondo, e la sua geologia è studiata da secoli, proprio dagli scienziati che hanno scritto la storia delle Scienze della Terra. Le prime stazioni sismiche al mondo sono state installate in Italia dai primi anni del secolo scorso, ed attualmente l’Ingv possiede una rete sismica di altissimo livello tecnico, dal 2005 probabilmente la migliore del mondo, America compresa”. La spiegazione generale su che cosa è accaduto il 6 aprile 2009 a L’Aquila, è chiara, evidente e distinta. Siamo in presenza di un evento naturale molto importante e significativo. Le mappe Ingv riportano gli inviluppi delle isosiste, le aree di danneggiamento simile, di più terremoti sovrapposti. “Vedete i pallini verdi, gialli, rossi ed azzurri? Sono i piani quotati – spiega il geologo Moretti – cioè il dato vero di cui disponiamo, preso dai cataloghi dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ed elaborati dal ricercatore dell’Università di Potenza, Paolo Harabaglia. I valori scelti vanno dal VII grado Mercalli (verdi, per forti lesioni alle abitazioni ma nessun crollo) ad azzurri (X-XI Mercalli, distruzione di oltre il 50% degli edifici)”. La prima figura è relativa a tutti i grandi terremoti appenninici dal 1328 al 1980; la seconda al periodo sismico 1688-1732 e la terza ai terremoti sub-crostali che hanno colpito i versanti adriatici dell’Abruzzo tra il 1881-1882 (Chieti-Lanciano) ed il 1850 (Montereale – Arischia – Teramo). Nella prima mappa appare tutta la sismicità storica dell’Appennino degli ultimi 600 anni. “I terremoti si distribuiscono seguendo la cresta dell’Appennino, tranne quello di Avezzano (1915) che è più arretrato verso il Lazio. In realtà si tratta di una struttura differente – sostiene Moretti – come quelle di Sora e dei monti Carseolani, che si attiva circa ogni 1000 anni. Gli altri seguono le grandi vallate interne della catena ed infatti sono collegate alle grandi rotture (faglie) che generano le vallate stesse (graben)”.

I sismologi hanno scoperto che questi terremoti, oltre che di medio-alta energia (magnitudo 6-7° Richter) sono localizzati a basse profondità nella crosta superiore (10-12 km), quindi vengono risentiti in maniera distruttiva da popolazioni, abitazioni e città. “Già a colpo d’occhio l’asse appenninico è quello con il maggiore numero di terremoti con alta energia. Lo stesso andamento è riportato nella mappa pubblicata nel 2004 dall’Ingv, dove L’Aquila è proprio nel mezzo dell’area di massima pericolosità”. In maggiore dettaglio si nota che “l’attività sismica non è uniforme nel tempo ma – fa notare Moretti – alterna periodi parossistici (1688-1732, seconda mappa) con altri di apparente quiete o ricarica. Al periodo 1688-1732 appartengono i due famosi terremoti del 1703 e quello di Sulmona del 1706, erroneamente considerati gemelli di quello del 6 aprile 2009”.

In effetti, mappa in vista, si nota un piccolo buco proprio nella conca aquilana. “Perché la sorgente del 1703 – rivela Moretti – si è fermata a Pizzoli-Arischia e quella del 1706 riparte da Bussi verso la valle Peligna. Quindi nel ‘700 e nei secoli successivi, il segmento intermedio tra L’Aquila, Paganica e Barisciano – prosegue Moretti – è rimasto fermo, continuando ad accumulare energia, e non era improbabile che proprio questo dovesse essere il primo a rompersi”.

Quando si attiva una faglia sismogenetica di grandi dimensioni, il movimento che ne deriva è di qualche metro (“circa 2 nel nostro caso” – spiega Moretti) lungo una superficie di qualche decina di chilometri. “Come nel caso di uno strappo nei pantaloni, la rottura aumenta lo sforzo nei segmenti vicini, quindi è prevedibile che in un prossimo futuro (anni, decenni) si attivino anche le strutture a Nord (Amatrice, Montereale) ed a Sud (Valle Peligna, Sannio, Beneventano, Irpinia, ecc.) fino a scaricare l’energia accumulata e ricominciare il ciclo. Se poi consideriamo un periodo abbastanza lungo, questa non è più una probabilità ma una certezza geologica”.

Anche nel Teramano i nostri politici non sono certo autorizzati a dormire sonni tranquilli, in attesa dell’inevitabile tragedia storica. “Sul versante esterno dell’Appennino – spiega Moretti – vi sono altre sorgenti sismiche, più profonde (30-40 km, ossia sub-crostali per non confonderle con la sismicità di subduzione che raggiunge i 600-700 km) e legate al piegamento ed all’affondamento della crosta adriatica sotto l’Appennino. A questo tipo appartengono i terremoti del 1881-2 e 1950, ed anche il recente delle Marche, di Ancona, quello di Reggio Emilia del settembre 2009”. Questi ultimi, anche se possono essere di magnitudo paragonabile ai primi, essendo più profondi distribuiscono l’energia su di un’area più vasta e quindi producono danni in apparenza meno violenti. “Sul versante esterno vi sono grossi spessori di argille e di sedimenti soffici che tendono a smorzare le onde. Dal punto di vista geodinamico, i due tipi di terremoti sono dovuti alla stessa causa: l’apertura ed espansione del mare Tirreno, l’avanzamento-rotazione della Penisola verso Est e la chiusura del mare Adriatico. Le relazioni dettagliate tra le deformazioni che caricano la catena sul margine adriatico e quelle dei graben appenninici che la scaricano, sono purtroppo ancora da studiare, e costituiscono una delle maggiori sfide che uniscono geologi, sismotettonici e sismologi”. Forse non tutti sanno che la “faglia del Monte Stabiata” è sorella di quelle di Pettino e di Paganica. Moretti presenta un paio di immagini dell’espressione superficiale della rottura di faglia. “Il sassone che vedete pesa parecchi quintali ed è stato spostato di circa 20 cm; nella stessa zona altri sassi sono stati sbalzati in aria e rovesciati”. I geologi tendono spesso a familiarizzare con gli elementi strutturali, dandogli nomi locali che in genere stanno ad indicare sia il tipo di elemento sia la località dove si può vedere. “È il caso della faglia di Pettino – spiega Moretti – così definita perché si vede bene al monte Pettino, ma anche perché, essendo facilmente raggiungibile dall’autostrada, è meta ogni anno delle escursioni degli studenti di geologia romani”. In realtà le faglie superficiali sono semplicemente l’espressione di una rottura profonda, anch’essa chiamata tecnicamente “faglia”, che è la vera struttura sismo genetica, ossia che origina i terremoti. Cosa vedono i geologi? “Noi possiamo vedere solo gli elementi di superficie e stiamo indagando per conoscerne la sorgente. Praticamente siamo nelle condizioni di un ingegnere strutturista che deve capire la causa di un danno alle fondamenta di un edificio, andando a guardare solo i movimenti delle tegole del tetto”. In realtà i geologi hanno anche altre informazioni che sui media possono causare confusione semantica. “Se guardiamo una carta geologica vediamo tantissime righe rosse indicate come faglie di diverso tipo a seconda del loro movimento: normali, se un blocco si muove verso il basso; inverse, se verso l’alto; trascorrenti, se lo scorrimento è orizzontale. In realtà quasi tutte le faglie indicate sulle carte geologiche sono oramai fossili, ferme da milioni di anni, e portate alla superficie dall’erosione. È proprio questa erosione che ci permette di studiare la superficie di una faglia che si trovava a molti chilometri di profondità e che in un passato lontanissimo ha generato la sua parte di terremoti. Possiamo così riconoscere le geometrie di movimento, la profondità e la temperatura in base ai minerali tipici (la paragenesi) riscontrabili sulla superficie. In alcuni casi si sono potute riconoscere fasce di rocce fuse dal grande attrito generato dal terremoto; in altre faglie che si sono mosse praticamente senza attrito, come fossero lubrificate”. Le faglie interessanti sono quelle “attive” o recentissime (migliaia – decine di migliaia di anni) che per loro natura sono difficilissime da riconoscere proprio perché non sono state ancora scoperte dall’erosione. “Tra gli indizi vari di movimenti recenti, ci sono piccole dislocazioni che attraversano suoli, sabbie e ghiaie molto superficiali, e vengono anch’esse chiamate faglie attive”. Quando poi un ricercatore è convinto che una faglia ci debba essere, ma non riesce a vedere le sue espressioni superficiali, che esista davvero o no, la chiama faglia cieca. “Quindi, quello che produce e rilascia l’energia sismica è il segmento profondo del terremoto, che può essere lungo molte decine o centinaia di chilometri, il quale avvicinandosi in superficie si divide in molte superfici più o meno parallele con una struttura simile ai petali di un fiore (si parla appunto di struttura a fiore)”.

Durante un terremoto, non sempre si attivano contemporaneamente tutti gli elementi superficiali. “Anzi, spesso si muovono uno di seguito all’altro, dal basso verso l’alto, generando le famose repliche. La presenza di una faglia evidentemente attiva non è di per sé pericolosa, ma è il segnale inequivocabile che sotto c’è una struttura pronta a muoversi”.

Come esempio di faglia attiva, Moretti presenta l’immagine Google di quella del monte Stabiata. “La traccia della faglia è quella specie di nastro di rocce bianche, proprio perché si sono scoperchiate molto recentemente”. Come curiosità, tra i metodi di indagine dei movimenti recenti, gli scienziati possono studiare i licheni o le piante pioniere che si insediano sul liscio. Allora perché costruire abitazioni in queste aree, non in grado di resistere ai violenti terremoti?

“In realtà c’è un altro motivo per evitare di costruire su di una faglia attiva, ed è proprio quello che è successo a Pettino o ad Arischia: le faglie costituiscono delle superfici di rottura e di contatto tra rocce diverse, quindi molto spesso le onde sismiche, che si comportano esattamente come onde sonore, possono essere rifratte ed incanalate lungo la superficie, causando localmente scuotimenti anche dieci volte maggiori rispetto ad altre aree stabili; viceversa si possono avere, a poche centinaia di metri di distanza, zone di ombra dove le onde sono molto attenuate; generalmente questi fenomeni sono sistematici, si ripetono nel tempo, quindi è necessario tenere conto della memoria storica, come non hanno fatto a L’Aquila dopo la partenza dei Borboni”.

Allora diamo ai geologi ciò che il terremoto di L’Aquila ha mostrato al mondo. Che è poi anche la richiesta decisa e fatta propria dall’Ordine regionale dei Geologi d’Abruzzo. Le Scienze della Terra sono una materia che compete strettamente ai geologi e al mondo geologico: gli studi di microzonazione sismica, cioè dei fenomeni di interazione tra il terremoto e l’ambiente circostante, rappresentano il primo passo in ogni tipo di pianificazione territoriale fondata sulla responsabilità dei singoli operatori (politici ed amministratori compresi) e sulla convivenza con il rischio sismico. Quello che dice la scienza dovrebbe essere vincolante per Legge.

“L’Ingv ha fornito e sta fornendo con continuità previsioni probabilistiche di lungo e di breve termine. Con le previsioni probabilistiche di lungo-termine – ricorda Marzocchi – si possono identificare (e già lo si è fatto) le aree dove avverranno i grandi terremoti del futuro. Di particolare rilevanza in questo ambito è la mappa di pericolosità elaborata dall’Ingv nel 2004 (http://zonesismiche.mi.ingv.it/) che fornisce lo scuotimento del terreno atteso nei prossimi 50 anni”. Dalla mappa appare evidente la zona colpita dal terremoto del 6 aprile 2009: è quella dove ci si aspettavano alti valori di scuotimento del terreno. In generale, questo tipo di studi permette di definire opportuni criteri di costruzione antisisimica (a tal proposito, se oggi tali procedure si seguissero alla lettera, la previsione dei terremoti sarebbe di scarsa utilità, poiché i crolli sarebbero minimi)”. Per quanto riguarda le previsioni probabilistiche di lungo termine dell’occorrenza dei grandi terremoti, “dal 2005 esiste una pagina web (http://www.bo.ingv.it/~earthquake/ITALY/forecasting/M5.5+/) dove vengono fornite stime di probabilità di occorrenza di eventi con magnitudo 5.5 o maggiore in un intervallo di tempo di 10 anni. Essendo time-dependent, le mappe vengono aggiornate ogni 1° Gennaio e dopo ogni evento con magnitudo 5.5 o maggiore. Nella sezione Results della pagina web si vede che la zona dove è avvenuto il terremoto di L’Aquila aveva la sesta più alta probabilità su 61 zone (di cui 34 con probabilità non trascurabili; mappa A). Se si guarda la densità spaziale di probabilità (mappa B), la zona interessata aveva la seconda più alta densità di probabilità su una griglia con 51 nodi”. Altri studi compiuti di recente sullo stesso argomento nell’ambito della convenzione 2004-2006 tra l’Ingv e il Dipartimento della Protezione Civile (Progetto ”Valutazione del potenziale sismogenetico e probabilità dei forti terremoti in Italia”) hanno mostrato risultati analoghi. “Anche questi studi che hanno utilizzato modelli di occorrenza dei terremoti del tutto diversi da quelli utilizzati per gli studi appena descritti, hanno identificato l’area di L’Aquila come una di quelle a più alta probabilità di occorrenza di un terremoto distruttivo” – spiega Marzocchi. I risultati presentati al recente convegno dell’European Geosciences Union in una sessione speciale dedicata al terremoto dell’Abruzzo, hanno riscosso un notevole successo. Un’altra iniziativa importante in cui l’Ingv è attualmente coinvolto è il progetto internazionale CSEP (Collaboratory Studies for Earthquake Predictability; http://www.cseptesting.org, http://us.cseptesting.org, http://eu.cseptesting.org). Che nasce allo scopo di definire un esperimento scientifico per la verifica e il confronto dei diversi modelli di previsione (probabilistica e deterministica) dei terremoti. Tali analisi e confronti sono effettuate in un centro (Testing Center) dove tutti i modelli vengono utilizzati per produrre previsioni indipendentemente dagli autori dei modelli stessi. “Le nostre previsioni sono vere previsioni – spiega Marzocchi – in quanto i dati utilizzati per il confronto sono i terremoti futuri dell’area investigata (il cosiddetto Natural Laboratory)”. I Natural Laboratories attivi finora sono la California, la Nuova Zelanda, l’Italia, il Giappone, il Pacifico Occidentale e il globo nel suo complesso. “È importante sottolineare che il confronto tra i modelli viene fatto NON in tempo reale (per avere a disposizione i cataloghi ufficiali è necessario aspettare qualche settimana o pochi mesi). Ciò non è un problema per CSEP poiché lo scopo dell’esperimento rimane scientifico. Alla fine del periodo di test (di solito è di 5 anni), l’esperimento si conclude con una “classifica” dei modelli che si sono comportati meglio nella propria classe di previsione. Di particolare interesse sarà anche il confronto tra le classifiche stilate per tutti i Natural Laboratories per vedere se sono sempre gli stessi modelli ad avere le capacità previsionali migliori. L’esperimento nel territorio italiano è condotto per diverse classi di previsione: 1) previsione giornaliera per terremoti di magnitudo superiore a 4 gradi; 2) previsione trimestrale per eventi di magnitudo superiore a 5 gradi; 3) previsione quinquennale per eventi di magnitudo superiore a 5 gradi”. I ricercatori Ingv hanno già presentato modelli di previsione probabilistica per la California, la Nuova Zelanda, il Pacifico Occidentale e il mondo. Tuttavia, non dimentichiamo che molti fattori complicano le sequenze sismiche, incluse le complesse geometrie di rottura nella faglia, la natura caotica dei processi di rottura, le variazioni delle forze in atto nelle faglie. Le variabili sono e saranno sempre tantissime.

Il terremoto di L’Aquila (capitale d’Abruzzo) delle ore 3:32 antimeridiane del 6 aprile 2009, era un 6.3° della scala Richter. I rapporti e le relazioni scientifiche internazionali dichiarano esplicitamente tale magnitudo. A L’Aquila la cronaca ha registrato 309 morti, 1600 feriti, 4 milioni di metri cubi di macerie, 1.010 edifici pubblici danneggiati. Si tratta del quinto più catastrofico terremoto nella Storia dall’Unità d’Italia, dopo Messina 1908 (magnitudo 7.1° Richter), Avezzano 1915 (7.0°), Friuli 1976 (6.4°) e Irpinia 1980 (6.9°). A L’Aquila il sisma del 6 aprile 2009 ha sconvolto la vita a oltre 73mila abitanti. Altre tragedie mondiali sono seguite. E nuovi scenari inquietanti potrebbero profilarsi all’orizzonte. Perché l’Etna è un sorvegliato molto speciale (www.pa.ingv.it).

Secondo alcuni studi dell’Ingv prima o poi “il fianco orientale dell’Etna potrebbe scivolare rovinosamente verso il mare”. È la nuova ipotesi avanzata da alcuni ricercatori che svelano la possibile origine sottomarina del fenomeno. Grazie a una serie di prospezioni geofisiche sottomarine e a un’analisi geomorfologica dettagliata del fondale marino di fronte all’Etna, il grande vulcano basaltico conosciuto in tutto il mondo per le sue frequenti eruzioni, è stato possibile reinterpretare l’assetto tettonico della fascia costiera etnea, evidenziando come sia controllata più dalle strutture sottomarine che da quelle emerse. Gli scienziati sanno che il fianco orientale etneo si muove verso il mare con la rapidità di alcuni centimetri l’anno, però il motivo di questo scivolamento non era ancora del tutto conosciuto agli studiosi. Con i recentissimi dati, risultato dell’indagine di un’equipe di scienziati italiani, è stato possibile avanzare una nuova ipostesi che spiega questo fenomeno. Lo studio, pubblicato sull’autorevole rivista scientifica internazionale Earth and Planetary Science Letters, con il titolo:“Continental margin large scale instability controlling the flank sliding of Etna volcano”, è stato condotto in collaborazione tra i vulcanologi Mauro Coltelli e Danilo Cavallaro dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Catania, ed i geologi marini Francesco Latino Chiocci e Alessandro Bosman dell’Università La Sapienza di Roma e dell’Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria del Cnr. Lo studio illustra un nuovo e originale modello di scivolamento del fianco orientale etneo causato dal collasso della scarpata continentale ionica della Sicilia, di fronte all’Etna, le cui ripercussioni potrebbero avere grandi conseguenze sull’evoluzione del vulcanismo. È stato scoperto che la scarpata continentale della Sicilia, dalla costa sino alla profondità di oltre 2mila metri, presenta un anomalo rigonfiamento di fronte all’Etna che coincide esattamente con la regione che scivola verso il mare. La scarpata è profondamente incisa da una serie di enormi scarpate semicircolari, interpretate come prova di un’instabilità gravitazionale a grande scala. Tali strutture sono lunghe diverse decine di chilometri e permeano tutto il margine continentale estendendosi fino al settore costiero del vulcano dove le deformazioni del suolo sono più intense. L’intrusione di grandi quantità di magma nella crosta sotto il vulcano avvenuta negli ultimi 100mila anni avrebbe causato il grande rigonfiamento del margine continentale sommerso, creando un disequilibrio gravitazionale che si propaga fino al fianco emerso del vulcano. Questo meccanismo causerebbe una decompressione nella crosta terrestre che permetterebbe la risalita dei magmi senza un prolungato stazionamento, permettendo l’eruzione di magmi basaltici a causa proprio della loro veloce risalita dal mantello. L’Etna è un vulcano basaltico la cui anomala posizione sopra una spessa crosta continentale, interessata dai movimenti compressivi che hanno generato la catena appenninica, è inusuale e anomala, come è stato ampiamente dibattuto dagli scienziati negli ultimi 20 anni. Da tempo, infatti, è noto che “il fianco orientale dell’Etna, segnato da faglie, è soggetto a un movimento di scivolamento dell’ordine di diversi centimetri l’anno. L’ipotesi per spiegare questo fenomeno è quella dello scivolamento gravitativo del settore orientale del vulcano per via della sua rapida crescita che – fa notare il vulcanologo Mauro Coltelli dell’Ingv – potrebbe farlo franare rovinosamente, a volte durante un’eruzione com’è avvenuto nel 1980 al vulcano St. Helen negli Stati Uniti, altre volte senza un motivo scatenante come quando si è formata la Valle del Bove. Comunque lo scivolamento gravitativo dei fianchi è un fenomeno osservato in moltissimi vulcani del pianeta”. Significativo è il contributo offerto da questi nuovi studi alla comprensione del fenomeno. “L’ipotesi del collasso gravitativo dovuto alla crescita del vulcano presuppone che il vulcano si deformi principalmente dalla sommità dove è massima l’azione gravitazionale sui materiali che le eruzioni hanno rapidamente accumulato, mentre all’Etna le deformazioni più grandi sono misurate lungo la fascia costiera dal sistema di monitoraggio vulcanico dell’Ingv. Il nostro studio ha per la prima volta evidenziato come su tutta la scarpata continentale sottomarina siano in atto movimenti gravitativi che partono dalla piana batiale ionica e si propagano verso l’alto arrivando ad interessare la fascia costiera etnea. Essi sono evidenziati da grandi scapate di faglia che incidono senza soluzione di continuità sia la parte sottomarina sia quella subaerea. Su questa base abbiamo ricollocato il motore dello scivolamento del vulcano in prossimità della costa dove le deformazioni del suolo più grandi, formulando un’ipotesi sulla sua origine. È una piccola “rivoluzione copernicana”, l’origine di questo processo non sta più al centro sulla sommità del vulcano ma alla sua periferia orientale, dove le misure geodetiche già lo evidenziavano”. I ricercatori hanno evidenziato l’influenza dei periodici rigonfiamenti dell’edificio vulcanico che precedono le grandi eruzioni, sull’instabilità del fianco orientale. “L’ipotesi che avanziamo è che proprio l’intrusione nella crosta terrestre di una grande quantità di magma, solo in piccola parte eruttato alla superficie, ha creato il grande e anomalo rigonfiamento della scarpata continentale che a sua volta tende a franare molto lentamente. Di conseguenza, le nuove intrusioni di magma che vengono osservate come rigonfiamenti dell’edificio vulcanico sono l’effetto superficiale di questo fenomeno che in profondità spinge lateralmente per poi espandere il rigonfiamento che si trascina dietro il fianco orientale etneo. Infatti, negli ultimi 10 anni il collegamento tra alcune eruzioni e le deformazioni del fianco orientale del vulcano è stato osservato direttamente, cioè da quando il sistema di monitoraggio delle deformazioni vulcaniche dell’Ingv ha coperto l’intero edificio e ha ottenuto un grado di precisione e accuratezza molto elevato”. Secondo gli scienziati il fenomeno potrebbe, sia pure in un futuro lontano, innescare il franamento in mare di una porzione del fianco del vulcano. “È difficile a dirsi anche perché ci sono pochi casi al mondo in cui un fenomeno come questo venga regolarmente monitorato e nessun caso in cui sia stato osservato un catastrofico collasso durante una fase di lento scivolamento del versante. Comunque a tutt’oggi non abbiamo sufficienti informazioni per poterlo escludere anche perché occorrerebbe studiare con maggior dettaglio la parte sommersa del vulcano e monitorarne le deformazioni. L’ultimo collasso di versante è avvenuto circa 9mila anni fa formando la Valle del Bove, e successivamente non sono stati riconosciuti depositi o altre evidenze geologiche di fenomeni analoghi”. Al contrario esistono evidenze di eruzioni che possono essere state indotte da repentini spostamenti del versante come l’eruzione pliniana del 122 Avanti Cristo. Quindi “non è da escludere che in un futuro anche non troppo lontano, movimenti del versante orientale etneo possano indurre eruzioni e neppure che ci possa essere franamento di parte del versante orientale etneo, specialmente lungo la parete occidentale della valle del Bove che con i suoi oltre mille metri di dislivello rappresenta una struttura di debolezza del vulcano sollecitato dai movimenti di scivolamento verso la costa ionica. Tuttavia fenomeni di franamento di dimensioni eccezionali sono annunciati da una serie di fenomeni minori di cui oggi non abbiamo alcuna evidenza”.

Alessandro Bonforte è l’autore di due pubblicazioni Ingv sull’Etna che evidenziano l’instabilità del suo versante orientale e le sue relazioni con il sistema di alimentazione, i due aspetti fondamentali del maggior vulcano attivo d’Europa. La prima ricerca, pubblicata su Journal of Volcanology and Geothermal Research e a cura di A. Bonaccorso, A. Bonforte, G. Currenti, C. Del Negro, A. Di Stefano, F. Greco, studia il processo di ricarica del vulcano durante il periodo 1993-2000, prima delle grandi eruzioni del 2001 e del 2002, mediante l’analisi congiunta di dati geodetici e gravimetrici. È stato possibile distinguere una prima fase dal 1993 al 1997, durante la quale il magma si è accumulato a una profondità di 2-6 km sotto il livello del mare, che ha provocato un diffuso rigonfiamento dell’edificio con le sole stazioni costiere che mostravano un movimento verso il basso e un aumento della gravità. Nella seconda fase dal 1997 al 2000, pur continuando ad espandersi, il vulcano ha mostrato una diminuzione della gravità e un generale abbassamento del suo intero fianco orientale rivelando un principio di instabilità diffusa dello stesso. In sintesi, in parte favorito dalla progressiva rarefazione e depressurizzazione causata dal movimento di fianco, il magma è risalito a livelli più superficiali, incrementando a sua volta l’instabilità di questo fianco, che ha così accelerato la sua tendenza allo scivolamento verso il mare Ionio. La seconda ricerca pubblicata su Bulletin of Volcanology (gennaio 2011), a firma di A. Bonforte insieme ai sismologi S. Alparone, G. Barberi, V. Maiolino ed A. Ursino, analizza i dati geodetici e sismici registrati tra il 2003 e il 2004. Lo studio dei meccanismi focali dei terremoti ha messo in evidenza il fatto che essi sono associati a due diversi regimi di stress, in funzione della profondità. Dalla superficie sino a 3 Km sotto il livello del mare, il regime dominante è quello del movimento verso il mare di tutto il versante orientale del vulcano, come dimostrano i dati geodetici e i terremoti tutti concentrati sulla faglia della Pernicana. Da 3 Km sotto il livello del mare in giù, i terremoti mostrano un campo di stress totalmente diverso, legato alla pressurizzazione del sistema di alimentazione, localizzato dalle misure geodetiche alla medesima profondità. È la prima evidenza di una netta e ben delineata discontinuità nel campo di sforzi al di sotto del versante orientale dell’Etna che potrebbe essere indicativa della profondità dello “scollamento” di questo fianco del vulcano emerso più grande d’Europa (www.ct.ingv.it/).

Le rocce della crosta terrestre, sottoposte a lenti processi deformativi, si piegano lentamente, ma nello stesso tempo anche se all’apparenza sembrano reagire in maniera elastica, cioè senza spezzarsi, si riempiono di piccole crepe. E dopo una lunga azione deformativa possono arrivare a sbriciolarsi completamente. Questi tipi di processi per la prima volta sono stati applicati in laboratorio a un campione di roccia molto diffuso sull’Etna: un basalto, allo scopo di capire quali possono essere nel breve e nel lungo termine le conseguenze dei processi deformativi cui è sottoposto, su grande scala, l’edificio vulcanico etneo. Sui risultati di questo singolare esperimento il vulcanologo Sergio Vinciguerra assieme ad altri autori, ha di recente pubblicato sulla rivista internazionale “Earth and Planetary Science Letters” un articolo dal titolo:“Brittle creep in basalt and its application to time-dependent volcano deformation”.

In laboratorio vengono simulare le grandi pressioni che si esercitano sui materiali della crosta terrestre. “Si utilizzano macchinari, come le presse triassiali, che – rivela Vinciguerra – sono in grado di riprodurre il carico litostatico a cui ogni roccia è sottoposta in profondità per via del peso esercitato dalle rocce circostanti e simultaneamente operare sforzi corrispondenti alle forze che si sviluppano per lo scorrimento delle placche nella crosta terrestre. Queste attrezzature consentono anche di iniettare nelle rocce i fluidi che si trovano a profondità e studiarne l’azione di indebolimento sulla resistenza della roccia”. Interessante è il comportamento del basalto analizzato rispetto agli sforzi deformativi applicati. “E’ stato messo in evidenza che il basalto viene indebolito non solo per azione meccanica del carico applicato, ma soprattutto per l’azione dei fluidi, che riempiendo le microfratture e i vacuoli di cui questo tipo di roccia è pervaso, ne promuovono l’espansione e la propagazione. Questo meccanismo fisico è conosciuto come ‘Brittle creep’, cioè scorrimento fragile. E’ un fenomeno che era stato verificato per rocce sedimentarie, che contengono minerali e hanno una composizione tale da reagire con i fluidi, ma che si credeva non potere accadere in rocce cristalline, come un basalto a temperatura ambientale.  I tempi, con cui in natura si manifestano le azioni deformative sulle rocce, sono molto lunghi. “Questo è il punto che conferisce un valore particolare allo studio. Per ragioni pratiche i tempi che si utlizzano in laboratorio sono molto brevi, dell’ordine dei minuti, un paio d’ore al massimo. Questo tipo di approccio permette di capire la ‘dinamica’ della deformazione e rottura, ma ci limita nella comprensione dello sviluppo dei meccanismi deformativi nel tempo. In questo studio invece gli esperimenti sono stati condotti imponendo un carico costante per ore, giorni e perfino diverse settimane, che è la scala dei processi deformativi pre-eruttivi osservati in un vulcano come l’Etna. Si è trovato che pur variando il tempo il campione deve raggiungere uno stato di danneggiamento critico per innescare la rottura, che è costante, indipendentemente dal carico applicato e dal tempo impiegato a raggiungere il carico critico”. Evidente è l’utilità pratica della conoscenza del comportamento di una roccia in seguito alle deformazioni subite. “Le utilità pratiche sono molteplici. In termini di deformazioni della copertura basaltica abbiamo sviluppato una legge macroscopica che stima i tempi di rottura su diversi tempi e per diversi carichi, che ben riproduce  i patterns deformativi osservati sul vulcano per tempi e carichi corrispondenti. Questo permette di modellare e stimare quantitativamente i tempi di rottura in presenza di sovrappressioni, quali tipicamente accadono in un vulcano come l’Etna per la risalita dei magmi e lo scorrimento delle faglie. In termini applicativi, i parametri ottenuti sono utili per stimare la risposta dei materiali cristallini a sovrappressioni. Basti pensare alla geotermia, dove si stimola la produzione tramite idrofratturazione indotta o allo stoccaggio di materiale radioattivo o semplicemente alla stabilità dei versanti o infrastrutture (es. gallerie)”.

Gli scienziati dell’INGV sanno che i fenomeni di deformazione lenta sono stati recentemente riconosciuti essere un obiettivo prioritario dall’Unesco in occasione dell’anno internazionale dedicato al pianeta Terra. Sebbene la previsione delle rotture nella crosta terreste non sia possibile, l’allestimento di sistemi di Early Warnings più attendibili passa attraverso la conoscenza dello sviluppo della deformazione nel tempo. È questa la grande sfida scientifica e politica. La crescente competitività della ricerca mondiale, non ammette errori e disinformazioni. Gli scienziati sanno che terremoti, eruzioni vulcaniche e tsunami in Italia e nel mondo potrebbero causare prima o poi milioni di morti. Dal 6 aprile 2009 a L’Aquila i danni reali (inclusa l’emergenza, le chiese e i monumenti) ammontano a diverse decine di miliardi di euro. L’Aquila deve tornare a vivere immediatamente con il suo Centro Storico pulsante. La Regione Abruzzo è oggi la prima responsabile di fronte al Mondo intero, dal punto di vista politico e istituzionale, sul fronte della ricostruzione della Città di L’Aquila e del tessuto sociale, economico e culturale; sul fronte della divulgazione capillare ai cittadini del rischio sismico e dei mezzi per la totale messa in sicurezza delle nostre abitazioni. Non solo. Sul fronte dello sviluppo di un Servizio geologico-sismico che recepisca il quadro normativo europeo e nazionale nonché l’urgente necessità di redigere ed applicare a livello comunale gli studi di microzonazione sismica, eseguiti su commissione della Protezione Civile. La comunità scientifica internazionale osserva, attende e spera. Noi Italiani saremo più furbi della povera rana bollita a fuoco lento?

Nicola Facciolini

 

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