Sinai: 30 mila profughi sono finiti prigionieri delle reti criminali

In quattro anni tra i 25 e i 30 mila profughi sono finiti prigionieri delle reti criminali nel Sinai. Il loro smercio è valso per i trafficanti un guadagno di 622 milioni di dollari, 453 milioni di euro. Per ogni vittima il prezzo da pagare per la liberazione è passato da mille dollari a 30-40 […]

Bambini-Traffico-di-personeIn quattro anni tra i 25 e i 30 mila profughi sono finiti prigionieri delle reti criminali nel Sinai. Il loro smercio è valso per i trafficanti un guadagno di 622 milioni di dollari, 453 milioni di euro. Per ogni vittima il prezzo da pagare per la liberazione è passato da mille dollari a 30-40 mila. È quanto afferma “The human trafficking cycle: Sinai and beyond” il rapporto presentato il 4 dicembre alla Commissaria europea per gli affari interni Cecilia Malmström realizzato dalla giornalista eritrea Meros Estefanos insieme a Mirjam van Reisen e Conny Rijken dell’università di Tilburg, in Olanda, ora disponibile online. Nove migranti su dieci di quelli improigionati in Sinai provengono dall’Eritrea, mentre gli altri sono etiopi e sudanesi. Sono le prede più ambiete perché la rete delle diaspora eritrea nel mondo spesso aiuta le famiglie a liberare i parenti e quindi paga. Molti di coloro che hanno trovato la morte a Lampedusa sono prima passati da qui. Si stima che tra le 5 e le 10 mila persone abbiano trovato la morte in quest’area, dal 2009 al 2013. Il rapporto delinea le rotte seguite dai profughi e il modo in cui le gestiscono i trafficanti e indaga su quanto accade ai sopravvissuti dopo la scarcerazione. Si compone soprattutto quindi di interviste e di voci raccolte dai campi. Tra i risultati raggiunti dalla ricerca c’è anche l’aver individuato i nomi di chi sono i principali gestori dei traffici di uomini nel Sinai. Il primo e il più temuto è Abu Abdellah, il quale sembra essere anche proprietario del Caffé Ghazala nella città egiziana di Arish. Un altro trafficante il cui nome è emerso dalle interviste ai sopravvissuti è Abu Omar. L’uomo si fa pagare per ottenere il riscatto dei suoi ostaggi 3 volte su 4 tramite circuiti legali e il resto attraverso circuiti informali del mercato nero israeliano. Non usa MoneyGram o Western Union.
I ricercatori di “The human trafficking cycle: Sinai and beyond” tracciano poi le rotte che seguono i trafficanti. La prima conduce dal Sudan al Sinai, passando via terra o con piccole imbarcazioni il canale di Suez. Altri profughi sono invece sequestrati nelle campagne della regione del Golij, dove lavorano in condizioni pessime per le aziende agricole di proprietà del ministero della difesa eritreo. C’è poi la rotta che parte dal campo Man Ayi, casa di 15 mila rifugiati eritrei. L’ultima rotta è quella che parte dal campo militare eritreo di Sawa, vicino alla città di Kessala, dove si trovano i giovani, spesso under 20, che stanno facendo il servizio militare. Chi li sequestra per portarli nel Sinai spesso è eritreo o sudanese, appartenente alle tribù Rashaida e Hidarib. E spesso appartiene alle forze militari.
Chi riesce a sopravvivere all’inferno nei campi del Sinai non viene accolto come profugo dai Paesi vicini. È il dramma sottolineato all’interno del rapporto. Egitto, Israele, Libia ma anche gli stessi Paesi europei spesso rendono impossibile per le vittime riuscire a deporre la loro domanda d’asilo. È questa la principale raccomandazione che gli autori rivolgono alle autorità competenti. (lb-RS)

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