L’attacco americano all’Iran mette direttamente a rischio i circa 40.000 soldati statunitensi schierati nelle basi mediorientali. Esperti militari ipotizzano che Teheran possa reagire colpendo tre dei suoi siti nucleari, concentrando i propri raid proprio sulle guarnigioni Usa più esposte. Un’ulteriore minaccia riguarda lo Stretto di Hormuz, attraverso cui transita un terzo del petrolio globale: l’Iran ha già avvertito di poterlo chiudere o addirittura minarlo, complicando un’eventuale operazione di bonifica della Marina Usa. “Ogni cittadino americano nella regione è un obiettivo legittimo ora”, ha avvertito la tv di Stato iraniana.
Anche il presidente Trump ha ridotto i tempi per decidere se sostenere Tel Aviv: dalle “due settimane” definite inizialmente, si è passati a “due giorni”. La Casa Bianca pare divisa tra l’esigenza di azzerare il programma nucleare iraniano e la volontà di non impantanarsi in un conflitto su vasta scala. Come in uno degli scenari previsti, prevale l’ipotesi di un intervento chirurgico, mirato ai principali impianti atomici con bombe bunker-buster tipo GBU-57. Non è chiaro se quel termine di due settimane fosse una mossa tattica per destabilizzare l’avversario o il frutto di negoziati, poi interrotti, guidati dall’inviato Steve Witkoff. Sul profilo Twitter del presidente resta però un messaggio di distensione: “È il momento della pace”.
Nel Golfo e nell’area levantina, gli Stati Uniti mantengono otto basi permanenti in sette Paesi. In Qatar, la più grande è Al Udeid, quartier generale del Us Central Command con oltre 10.000 militari, cruciale per le campagne in Iraq, Afghanistan e Siria. In Bahrain si trova la Naval Support Activity, mentre il Kuwait ospita Camp Arifjan, snodo logistico essenziale. Negli Emirati Arabi Uniti, Al-Dhafra svolge funzioni di intelligence e supporto alle operazioni aeree, con F-22 Raptor e numerosi droni. Completano il quadro la base di Erbil, utilizzata per missioni nel nord dell’Iraq e in Siria, e altre installazioni in Giordania, Arabia Saudita ed Egitto.
Dietro l’accelerazione decisionale americana ci sono i timori del Pentagono e dei servizi segreti: l’Iran possiede un ampio arsenale di missili balistici e da crociera, in grado di raggiungere tutte le principali guarnigioni Usa nel Golfo, in Iraq e nel Levante. Washington teme un’azione di rappresaglia che coinvolga anche le milizie alleate di Teheran, ancora attive in vari Paesi. Per questo si è privilegiata la formula “colpisci e vattene”, cercando di limitare l’esposizione delle truppe sul terreno.
Se le ostilità dovessero salire di livello, potrebbero riavviarsi gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso, mentre la diffusione di missili ipersonici come il Fattah-1 – concepiti per eludere le difese antiaeree – rappresenta un ulteriore elemento di preoccupazione. Utilizzati insieme a sciami di droni e vettori balistici, questi sistemi minacciano di saturare anche scudi difensivi sofisticati. Nell’ultima ondata di violenze, nonostante gli sforzi congiunti di Stati Uniti e Israele, molti missili iraniani hanno centrato i loro bersagli. Molto, ora, dipenderà dai danni subiti dai siti nucleari iraniani e dall’intensità dei raid che Israele deciderà di proseguire per dissuadere Teheran da nuove risposte militari.